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SPECIALE

CUORI PRIGIONIERI (Captive Hearts)

Capitoli 55-60


Riassunto: Questa storia, in 118 capitoli, comincia subito dopo gli eventi dell'episodio "Amore alieno" (1.16), e nulla di quello che è accaduto dopo l’episodio è rilevante ai fini della storia. Max non è un re. Tess non esiste, non ci sono Skins o duplicati o Granilith.
Torniamo indietro al tempo in cui Max non ha occhi che per Liz e il suo più grande desiderio, la sua più grande paura è che lei in qualche modo possa ricambiarlo.

Valutazione contenuto: non adatto ai bambini.

Disclaimer: Ogni riferimento a Roswell appartiene alla WB e alla UPN. Tutti gli attori protagonisti del racconto e citati appartengono a loro stessi.


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Capitoli 7-12
Capitoli 13-18
Capitoli 19-24
Capitoli 25-30
Capitoli 31-36
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Capitoli 43-48
Capitoli 49-54

Capitolo 55

La casa era silenziosa, intorno a loro, e l’unico rumore era il ticchettio dell’orologio sulla mensola del camino in soggiorno. Il corridoio era in penombra, illuminato solo dalla luce notturna che proveniva dalla camera di Matthew, in anticipazione alle visite notturne nella sua camera, che sarebbero sicuramente arrivate.

La notte era calma e serena e Max e Liz, uno nelle braccia dell’altra, non avevano bisogno di altra coperta che del leggero lenzuolo steso su di loro.
Liz, vestita di una leggera camicia da notte di seta rosa, dormiva rannicchiata tra le braccia calde del marito. La sua guancia era posata sulla pelle liscia del petto di lui e la testa comodamente a suo agio nell’ avallamento sotto il suo mento. Il suo respiro era tranquillo, con solo occasionali sospiri ad interromperne la regolarità.

Max era disteso sulla schiena, con la familiare sensazione di sua moglie contro di lui, tranquillizzante per lui anche nel sonno. Lui la teneva stretta contro di lui tutta la notte, nessuno dei due desideroso di rivivere quelle lunghe notti passate in solitudine. Un braccio era steso intorno a lei con la mano sopra la spalla, mentre l’altra mano aveva trovato un posto più intimo dove riposare, a coppa sopra il sottile tessuto che le ricopriva il seno.
L’unico movimento era quello dei suoi occhi che andavano da una parte all’altra sotto le palpebre. Max era nella terra dei sogni e quella notte in particolare, in quel momento in particolare, il sogno era bellissimo. Molto bello anche per Liz …

Max aveva fatto sedere Liz sulla coperta, sotto il folto degli alberi e lui era in piedi lì accanto, per guardare il suo bellissimo volto. Lei gli sorrise, un sorriso invitante, e poi lo tirò giù accanto a sé. Le labbra di Max coprirono quelle di lei, labbra così morbide, labbra di cui lui non ne aveva mai abbastanza. La sua lingua la stava assaggiando, stuzzicandole le labbra prima di infilarsi nella profondità della sua bocca.
I suoi gemiti lo fecero sorridere e la baciò più intensamente mentre la sua mano correva sul corpo di lei. Il suo corpo cambiò posizione, poggiando la maggior parte del peso su di lei, come se gioisse della sensazione di averla sotto di lui. Le labbra di Max scesero lungo la gola di Liz, mentre la sua lingua tracciava un umido sentiero, ed il respiro di lei gli rivelò che lei stava dividendo con lui la sua gioia.
“Cosa ttate facendo?” disse una vocina curiosa.
Max terminò la sensuale esplorazione della gola di sua moglie e staccò le labbra da lei, alzando lentamente la testa fino a ché riuscì a vedere lo sguardo sorpreso sulla faccia di Liz. Entrambi guardarono su allo stesso momento, per vedere che Ellie era in piedi sopra di loro, con un’espressione incuriosita sulla faccia. Aveva le mani piantate sui fianchi, le gambe aperte e saldamente piantate per terra. Max ebbe la sensazione che fosse lì a guardarli già da qualche minuto.
Max guardò Liz, notando che sembrava trattenere a stento una risata e poi guardò di nuovo Ellie.“Stavo baciando la mamma.”
“Che bacio era?”chiese Ellie, arricciando il naso. “Mi sembava che la ttessi mangiando. Mamma. pecché papà ti mangiava il collo?”
Max seppellì la fronte tra le spalle di Liz e lei si coprì la bocca con la mano, mentre tutti e due tentavano, senza troppo successo, di non scoppiare a ridere. “Allora, Max, vuoi spiegare a tua figlia perché stavi cercando di mangiarmi il collo?”
Max portò avanti la sua mano e diede a Liz un’occhiata del tipo ‘non vale, l’ha chiesto a te’ , poi entrambi guardarono ancora Ellie. Non era il caso di fare il discorsetto delle api e degli uccellini ad una bambina di due anni e mezzo!
“Mi piace baciare la mamma, ogni volta che ne ho l’occasione.” disse Max, sperando che la spiegazione le fosse sufficiente.
“Ma pecché schiacci mamma così e la fai reppirare male?” chiese Ellie, tutta seria.
“Fammi uscire, Max!” rise Liz e si dimenò sotto di lui. In realtà respirava con difficoltà! Max rotolò via da lei e si sedette, allungandosi per sollevare Ellie da terra e mettersela sulle gambe.
“Sei una vera peste non è vero?” disse Max, strofinando il naso contro di lei.
“Che cos’ una pette?” rise Ellie.
“Tu!” dichiarò Max e con una mossa svelta si alzò in piedi e se la mise sulle spalle.
“Dove ttiamo andando, papà?” strillò Ellie eccitata. Amava andare a cavallo sulle spalle del padre, per vedere le cose dall’alto.
“Proprio qui.” disse Max tenendosi sul vago. “Voglio farti vedere una cosa.” Poteva sentire le sue manine reggersi al suo mento e le mise una mano sopra la gamba per tenerla salda, mentre con l’altra teneva stretta la mano di Liz.
“Cos’è quella cosa?” esclamò Ellie e Max non fu sorpreso che non ne avesse mai vista una.
“E’ un’altalena, Ellie. Abbiamo pensato che ti sarebbe piaciuta.” disse Liz, sorridendo alla bambina.
Max la fece scendere dalle sue spalle e la mise in piedi per terra. Lei afferrò una mano della madre e poi una del padre, ed insieme camminarono tra l’erba, Ellie tra di loro, verso una nuova avventura. Quando furono vicini alle altalene la leggera brezza le fece cigolare ed ondeggiare leggermente. Max aveva messo grande cura nel crearle, così che Ellie potesse godersele interamente.
“Cosa fa?” chiese Ellie quando furono arrivati.
“Vieni con me, bambina, e te lo farò vedere.” le sorrise Liz. Andarono verso le altalene, Liz si sedette e Max le mise Ellie in grembo.
“C’è posto per tutti?” chiese Max scherzando. A quasi quattro mesi di gravidanza, Liz sembrava già di sei mesi di una gravidanza umana. Prima le aveva detto che Matthew cresceva così in fretta, che lei quasi poteva sentire la sua pelle tirarsi ad ogni minuto che passava.
“Spingi l’altalena, Max!” tagliò corto Liz. Se non avesse dovuto reggere Ellie con una mano e la corda dell’altalena con l’altra, gli avrebbe mollato uno schiaffo.
“Reggetevi tutti.” gridò Max e diede una leggera spinta a Liz. Dondolarono in avanti e poi indietro verso Max ed Ellie spalancò gli occhi. Max spinse un po’ più forte e loro andarono più in alto ed Ellie si afferrò al braccio che Liz le aveva passato alla vita.
“Ooooooo.” gridò Ellie e Liz si chinò su di lei e le diede un bacio.
“Ti piace, Ellie?” le chiese.
“Antoa, mamma. Antoa.”
Liz si girò, mentre tornavano verso Max e con un grande sorriso sulla faccia gli disse “L’hai sentita? Vuole ancora.”
Max le rubò un bacio veloce mentre Liz si sporgeva verso di lui e poi diede una spinta più forte. L’altalena andò più forte e Liz sentì tendersi i muscoli del pancino di Ellie.
“Mi fa il solletoto!” gridò Ellie allegramente. Lei rideva e chiedeva ‘ancora e ancora e ancora’ e Max diede un’altra spinta. Volarono in aria e la valle risuonava con le grida felici di una bambina deliziata.

***

Robert Johnson sedeva in silenzio nella stanza buia, guardando il viso pacifico della bambina che aveva imparato ad amare quanto la figlia che aveva perso tanto tempo prima. Non era sicuro di quando fosse successo, di quando avesse perso il suo distacco scientifico. Ci era finito dentro mentre cercava delle risposte. Risposte su quello che c’era fuori di lì. Risposte sulla possibilità dell’esistenza degli alieni. Risposte su quello che era successo a Jenny. Ora, guardando il faccino angelico della sua omonima, non era più sicuro se quelle risposte gli interessassero ancora. .
Mentre era vero che gli alieni esistessero, per quello che aveva visto non erano malvagi invasori. Miller glielo aveva fatto credere. Jenny era la bambina più dolce che avesse mai visto. Non c’erano dubbi che fosse figlia di Max Evans, anche se non aveva mai mostrato alcun tratto alieno. L’unica cosa che provava che non era umana, era il DNA delle sue cellule. A tutte le apparenze era umana, tranne se guardavi dentro un microscopio.

***

Liz rallentò l’altalena e si chinò verso Ellie per dirle “Vuoi provare da sola?”
Ellie squittì eccitata ed annuì. “Da sola! Da sola!” urlo eccitata e Max fermò l’altalena. Aiutò Ellie a scendere poi le prese la mano e la condusse all’altalena centrale che aveva un sedile per bambini che avrebbe tenuto Ellie al sicuro dalle cadute. Max la sollevò e la mise a sedere sul seggiolino con le gambe infilate nelle aperture apposite e le allacciò la cintura di sicurezza. Ellie gli gettò le braccia al collo e gli diede un bacione sulla guancia.
“Sei pronta?” chiese Max sorridendo da un orecchio all’altro. Gli occhi di Ellie scintillavano per l’attesa ed il suo piccolo corpo cercava di stendere le gambe come aveva visto fare a Liz pochi minuti prima. L’altalena si mosse, ma non in avanti e Max rise allo sguardo determinato che vide sulla sua faccia, accorgendosi che l’altalena non reagiva nel modo in cui voleva. Decisamente doveva esserci in lei una vena di testardaggine.
“Falla andae, papà.”
“Certo, signora!” rise Max e, girando dietro di lei, le diede una spinta. L’altalena si mosse in avanti e i suoi ‘oooh’ e ‘aaah’ riempirono di nuovo l’aria. Liz spinse con le gambe per raggiungerla, mentre Max prendeva posto all’altalena alla destra di Ellie. Le sue gambe muscolose spinsero l’altalena in aria ed Ellie grido e batté le manine per il padre che volava così in alto.
Max vide Ellie tentare di spingere con le gambette e quando la sua altalena rallentò, usò i suoi poteri per darle una spinta. Ridusse la forza della sua per portarla a quella della bambina, mentre Liz aumentava la spinta. e le tre altalene si mossero all’unisono nell’aria. Ellie sporse una mano in direzione del padre e l’altra mano verso la madre e i tre unirono le mani, volando nell’aria al suono felice delle loro risate intorno a loro.

***

Ellie si agitò nel sonno e Johnson la udì mormorare qualcosa. Vide, dai movimenti dei suoi occhi, che era nella fase REM del sonno, nella terra dei sogni. Ellie mormorò ancora e questa volta poté capire chiaramente il nome che aveva pronunciato.
“Papà.”
Non gli fece battere il cuore il fatto che lei pronunciasse quel nome. Sapeva che non stava chiamando lui. In due anni e mezzo, lei non lo aveva mai chiamato così, come se avesse saputo.

***

“Papà, devo fatti vedee quaccosa!” avevano appena terminato un simpatico picnic ed Ellie era seduta in grembo alla madre, appoggiata contro il suo seno, con Max disteso accanto a loro. Si girò indietro per guardare Liz e le disse “Anche tu, mamma.”
Ellie si mise in piedi e Max a sedere, guardandola incuriosito, spostandosi per avvicinarsi a Liz. Si guardarono interrogativamente l’uno con l’altra ed insieme guardarono Ellie che si dirigeva al cesto del picnic. Ne tirò fuori una palla rossa e Liz sollevò le sopracciglia. Quando prima aveva messo il cibo sulla tovaglia, non l’aveva vista.
“Tieni, papà.” disse tutta eccitata, mettendo la palla in mano al padre. Poi ridacchiò, mettendosi la mano davanti alla bocca e si allontanò di qualche passo. “Tiami la palla, papà!”
Max le sorrise, contento che volesse giocare con lui. lanciò uno sguardo a Liz, sorridendole da orecchio a orecchio, felice che avesse avuto l’accortezza di portare il giocattolo.
Si voltò verso Ellie che stava ancora ridacchiando e, senza preavviso, le tirò la palla. La videro tracciare un arco nell’aria, raggiungere il suo zenith e poi ricadere verso la sua manina tesa. Max stava per correggere il suo modo di afferrarla, dicendole di girare la mano a coppa invece di tenere il palmo aperto davanti a sé quando, improvvisamente, una luce purpurea cominciò a brillare al centro della sua mano.
Max rimase a bocca aperta e Liz strinse le sue dita sulla coscia di lui, mentre la luce si allargava e formava un muro tra loro e Ellie. La palla continuò la sua discesa fino a che entrò in collisione con il campo porpora, formando un piccolo incavo per poi tornare nella loro direzione. La palla rimbalzò per terra e colpì Max alla gamba, ma lui non se ne accorse. Era troppo impegnato a guardare Ellie.

***

Johnson sospirò dentro di sé per l’ennesima volta, meditando su quello che era diventato. Miller aveva puntato sulla sua debolezza, convincendolo che la conoscenza era la cosa più importante, la chiave per scoprire i segreti che lo tormentavano. Se veniva fatto del male a qualche innocente nel percorso, ne valeva la pena pur di ottenere il risultato. Lui aveva chiuso occhi e orecchie su quello che veniva fatto ai genitori di Jenny, in nome del progresso scientifico. nella sua mente, li aveva giustificati. Ma ora, sentendo Jenny chiamare suo padre nel sonno, seppe che aveva avuto torto. Non aveva nessun diritto di tenerla, ma come avrebbe potuto rimandarla indietro? Avrebbe perso sua figlia un’altra volta.
La sentì ridere e i suoi occhi si posarono ancora su di lei. La sua faccia da cherubino sorrideva dolcemente nel sonno e fu allora che notò qualcosa che non aveva mai visto prima. Abbandonò la sedia e si alzò in piedi. Percorse la breve distanza che lo separava dal letto e, quando la sua mano si allungò per scostare il lenzuolo, notò che stava tremando. Lentamente spostò la coperta da lei e quando vide la sua manina fece un salto indietro.
“Oh, mio Dio!”

***

“Ellie!”disse Liz, sgomenta alla vista del campo rosa che si espandeva. Max era lì accanto, seduto rigidamente, e lei poteva sentire quanto fosse meravigliato e scosso. Si alzò ed andò a controllare il campo che stava tra lui e sua figlia. Fluttuava in varie gradazioni di porpora, dal chiaro allo scuro, in costante movimento mentre le molecole roteavano e si modificavano in una struttura sempre diversa. Allungò una mano per toccarlo e sentì l’energia sospesa nell’aria quando le sue dita vennero in contatto con la superficie. Vi premette contro la mano, ma fu respinto dalla forza del potere che si sollevava davanti a lui. Era forte, molto forte. I suoi occhi si spostarono su Ellie, che stava dall’altra parte dello scudo, con un sorriso orgoglioso sulla faccia.
“Ellie.” chiese Max frastornato. “Quando hai imparato a farlo?”La su preoccupazione traspariva dal tono della voce.
Il sorriso di Ellie svanì ed il campo cominciò a condensarsi richiudendosi su se stesso. Ellie lo spinse indietro ma quello crollò su di lei, facendola cadere di sedere, prima di dissolversi. Max si precipitò da lei e le si inginocchiò accanto, aiutandola a rialzarsi e scostandole i capelli dalla faccia.
“Stai bene, piccola?” le chiese preoccupato.
“Ho fatto quaccosa di bbagliato?” gli chiese Ellie guardandolo con i suoi grandi occhi color cioccolata. Il piccolo mento tremava e le sue labbra sporgevano.
“No, Ellie. Non hai fatto nulla di sbagliato. Sono solo sorpreso, ecco tutto.” Non gli aveva mai manifestato nessun potere prima d’ora. Non aveva mai cambiato il colore di un fiore o la forma di un filo d’erba. Non aveva mai creato qualcosa dal niente o spostato un oggetto da un posto all’altro. Lei aveva visto e imparato da lui, ma non aveva mai manifestato di essere in possesso di alcun potere per conto suo.
“Qualcun altro ti ha visto farlo?” Max aveva pensato semplicemente che fosse troppo piccola per manifestare i suoi poteri latenti e ne era stato sollevato. Significava che nessuno poteva scoprire quanto lei fosse differente. Ma ora la sua auto-indotta convinzione che, almeno esternamente, Ellie potesse apparire a quelli che le stavano intorno come una bambina normale, stava cominciando a sbriciolarsi. Cosa poteva succedere se qualcuno l’avesse vista usare i suoi poteri? Se qualcuno si fosse accorto di cosa era capace?
“No.” mormorò Ellie e lui pregò che fosse vero. Il campo che lei aveva creato era potente.Molto potente. Lui aveva sentito l’energia che lo componeva. Era quel tipo di potere che a lui aveva richiesto anni per acquisirlo, eppure lei non aveva ancora tre anni. Lui era orgoglioso di Ellie e sbalordito e la guardava in totale ammirazione. Ma era anche spaventato.
Le aveva mostrato alcune delle cose che poteva fare, perché capisse chi lei fosse e cosa fosse e perché questa conoscenza le permettesse di imparare a difendere se stessa. Lui era cresciuto con la istintiva consapevolezza di dover nascondere al mondo la sua vera natura e voleva che lei capisse che, qualsiasi dono che avesse sviluppato, doveva tenerlo segreto.
Max temeva le cose che avrebbero potuto farle se i suoi rapitori avessero appreso la vera estensione delle sue capacità. E basandosi su quello che aveva visto pochi minuti prima, il suo potenziale era incredibile. Lui era rimasto stupito dal potere che aveva percepito in lei.
“Sei in collea con me, papà?” chiese Ellie timidamente, guardando le sue manine invece di lui.
“No, piccola. No” disse Max scuotendo la testa. Le sorrise per rassicurarla e poi la prese tra le braccia, stringendosela contro il petto. “Non sono in collera con te, ma quando hai imparato a farlo?”
“Io non lo so, io.” mormorò lei vagamente.
“E’ stato dopo che ti ho mostrato come facevo o prima?” chiese Max accarezzandole i capelli.
“Dopo.” rispose Ellie a malincuore.
Dio, pensò Max tra sé e sé. Lui le aveva mostrato come fare solo un mese prima, e allora forse nessuno l’aveva vista mentre si allenava. Forse i suoi poteri erano ancora un segreto. “Qualcuno ti ha visto farlo, Ellie? Lo hai fatto vedere a qualcuno?”
“No, papà.” gli disse Ellie, giocherellando con un bottone della sua camicia. “E’ il notto segheto. Me lo hai detto tu.”
“Va bene, Ellie.” disse Max, in qualche modo sollevato. “E’ il nostro segreto.” Le accarezzò ancora i capelli e la baciò sulla fronte, poi guardò Liz per rassicurarla che andava tutto bene. La sua espressione inquieta lo preoccupava, ma le sorrise cercando di mitigare le sue paure. Tornò ad Ellie e le disse “Puoi farmelo vedere di nuovo?”
L’espressione imbronciata sparì dal suo visetto e lo guardò di sottecchi. Lui le stava sorridendo e lei gli gettò le braccine intorno al collo. Max le baciò la guancia e poi la posò a terra.
“Fammelo vedere di nuovo, Ellie. Fammi vedere come hai fatto lo scudo.” Quando si fu seduto a terra, i loro occhi furono quasi allo stesso livello e Max le passò un braccio intorno alla vita e la toccò sul fianco per incitarla “Vai avanti e fammi vedere, tesoro.”
Lei gli sorrise esitante, mordicchiandosi il labbro inferiore, poi stese la manina davanti a sé, col palmo in avanti.
Una luce purpurea cominciò a scaturire dal centro della mano e poi fluì da lei come un ruscello. Crebbe e si allargò fino a diventare una luccicante parete di luce purpurea. Ellie si girò verso il padre, per studiarne la reazione.
Gli occhi sorridenti di Max incontrarono i suoi e lui le disse “Ti voglio bene, Ellie!”
Il braccino di Ellie si posò sulle spalle del padre e gli diede un grosso bacio sulla guancia, prima di aggiungere “Ti voio bene, papà.”

Capitolo 56

Johnson guardò verso la piccola forma che dormiva nel letto. I suoi lunghi capelli neri erano sparsi sul cuscino. Le lunghe ciglia scure contrastavano con la pelle pallida delle sue guance, pelle che non era mai stata danneggiata dai raggi del sole. Lui l’aveva tenuta confinata tra quelle quattro mura subito dopo la sua nascita e la sua storia di copertura l’aveva tenuta al sicuro, nascosta dagli sguardi curiosi del mondo esterno.
Una sola altra persona aveva accesso a Jenny. Johnson aveva assunto Mary Condor non solo per la sua natura gentile e per la sua esperienza con i bambini, ma anche per i suoi eccentrici punti di vista. Mary non possedeva un televisore. Non ascoltava la radio. Diceva di non voler sprecare il suo tempo con giornali e riviste quando poteva leggere un buon libro. Mary lasciava la casa solo per qualche occasionale spesa al mercato e per la visita settimanale a sua sorella. Johnson non aveva timore che potesse venire a conoscenza del suo segreto da fonti esterne.
Mary aveva pianto quando Johnson le aveva raccostato la sua triste storia. Che la sua adorata moglie, Victoria, era morta dando alla luce Jenny. Che Jenny aveva ereditato una grave malformazione genetica, il Morbo di Gunther, che poteva portarla alla morte se si fosse esposta alla luce diretta del sole. Johnson le aveva mostrato delle riviste mediche e Mary aveva letto che la sensibilità alla luce era così grave che in certi casi i bambini potevano urlare se il sole toccava la loro pelle. La pelle poteva gonfiarsi e riempirsi di vesciche, a cui sarebbero seguite ulcerazioni, dalla guarigione molto lenta e dalle inevitabili cicatrici. esposizioni ripetute potevano dare origine a mutilazioni delle orecchie, del maso e delle dita. Mary era rabbrividita e si era addolorata che una così cara bambina come Jenny, dovesse essere colpita da una così terribile malattia. Aveva giurato che non avrebbe mai esposto la sua adorata bambina ad un così orrendo destino.
Il laboratorio che lui gestiva era usato per le sue reali necessità di ricerca. Per il mondo esterno, il suo laboratorio aveva come scopo la ricerca genetica sulle malattie ereditarie, come il Morbo di Gunther, nella speranza di trovare, un giorno, una cura. Nella realtà, le sue ricerche erano basate sul lavoro di Miller, lo studio del DNA alieno e la ramificazione nella razza umana. Prima di quella notte, Johnson era stato pronto ad abbandonare le sue ricerche. Ma dopo che aveva visto la mano di Jenny brillare di una luce purpurea, aveva capito di non poterlo fare.
Aveva aspettato un segno e lei glielo aveva dato quella notte. Sarebbe andato al Maryvale Hospital l’indomani, avrebbe dato la notizia, avrebbe svuotato il suo armadietto delle poche cose che conteneva e poi sarebbe tornato a casa, dedicandosi completamente alla scoperta del segreto che Jenny racchiudeva dentro di sé.

***

Max era in piedi davanti allo specchio del bagno, tentando di farsi la barba ed avendo difficoltà a farlo. La crema da barba gli copriva le guance. Il rasoio aveva una lametta nuova. La sua mano era di solito ferma e sicura, ma c’erano un paio di cose che non gli permettevano di tenere gli occhi incollati allo specchio. Una era il fatto che lo specchio era appannato ed ogni tentativo di pulirlo si vanificava nel giro di pochi momenti. La seconda era la ragione per cui lo specchio era appannato. Liz era nella doccia.
Lui l’aveva fatta per primo, mentre Liz poltriva nel letto incapace di decidere se fosse più importante assistere alla prima ora di lezione o dormire per qualche altro minuto. Dormire stava per vincere la battaglia, quando Max si era alzato, si era fatto una doccia veloce e mentre cominciava a coprirsi di schiuma la faccia, Liz era entrata nel bagno. Era arrivata dietro di lui e lo aveva abbracciato alla vita, dandogli il buon giorno. Lui era davanti allo specchio, con un asciugamano intorno ai fianchi e lei aveva fatto scorrere le mani sopra il suo torace nudo. Proprio prima di allontanarsi da lui aveva fatto scendere la mano al di sotto della vita per strofinarla contro i suoi genitali e dopo aver svegliato la reazione di Max, si era voltata per entrare nella doccia.
“Tu stuzzichi!” le aveva detto e la sola risposta di Liz fu un’occhiata maliziosa, mentre attraversava la stanza.
Max l’aveva guardata mentre si spogliava, lasciando cadere la camicia da notte sul pavimento prima di entrare nella doccia. Lui, naturalmente, non riusciva più a distogliere lo sguardo. Il suo corpo appariva appesantito dal bambino e il sui seni si erano ingrossati per il cambiamento tipico della gravidanza. Erano pieni, ora, e fortemente sensibili. Quando lui li toccava, la sua risposta era, senza esagerare, sensazionale.
La sua pancia era tonda e soda e la nuova vita che era dentro di lei cresceva a passi da gigante. La gestazione accelerata rendeva i cambiamenti che lei stava felicemente sperimentando troppo veloci e loro ancora non vi si erano adattati.
La poteva sentire mentre canticchiava a bassa voce sotto la doccia e gli sfuggiva la melodia, ma non la sua voce. Attraverso il vetro smerigliato, poteva vedere la sua figura muoversi e il pensiero di toccarla, con le mani che correvano sulla pelle di lei, le sue labbra che la toccavano in tutto il corpo, gli stavano rendendo veramente difficile riuscire a concentrarsi sulla schiuma che aveva in faccia.

Si tagliò quando sentì che il suono della canzone proveniente dalla doccia si trasformava in un gemito e cercò di concentrarsi per finire di radersi. Max dubitava che sarebbe arrivato il giorno in cui non si sarebbe sentito attratto da lei e con questo pensiero si risciacquò la faccia e l’asciugò con una salvietta.
Liz finì la sua doccia e uscì a piedi nudi sulle mattonelle del bagno, avvolta in un asciugamano troppo grande per lei. I suoi capelli erano ancora bagnati e le gocciolavano sulle spalle, quando si chinò per asciugarsi le gambe. Non importa quante volte l’avesse già guardata, la vista del suo corpo nudo era come una droga per lui. Anche così, ingrossata per la gravidanza, lei era la più stupefacente, la più sexy, la più eccitante creatura che lui avesse mai visto.

Liz finì di asciugarsi e guardò nello specchio, per vedere se lui aveva terminato di usare il lavandino. Sorrise e poi arrossì leggermente rendendosi conto che lui non le aveva mai tolto gli occhi di dosso. Inarcò provocantemente la schiena lasciandosi guardare, poi si avvolse l’asciugamano intorno, nascondendo il suo corpo dai suoi sguardi indagatori. Si diresse verso di lui e nel momento in cui lo raggiunse, il desiderio di Max era arrivato a vette febbrili.
“Liz.” disse in un gemito e lei si appoggiò contro la sua schiena. Le mani gli accarezzavano il torace, poi scesero alla vita e poi giù, verso il rigonfiamento che tendeva l’asciugamano di fronte a lui. Lei cominciò ad accarezzarlo attraverso il tessuto e lui seppe di essere perduto.
Liz gli tolse via l’asciugamano e lo lasciò nudo, con la sua erezione superba ed incredibile. La mano di Liz gli si strinse intorno, salendo per tutta la sua lunghezza, stimolandolo con le dita finché lui non fu pronto a chiedere pietà.
“Pensavo che non avessi … tempo per qualcosa come questo.” disse Max guardando in basso, osservando il modo in cui la sua mano l’aveva fatto crescere ed il modo in cui le sue dita circondavano la testa del suo membro,
“Non ho mai detto questo.” disse Liz con voce bassa, staccandosi dalle sue spalle. Le sue dita luccicavano del liquido che usciva da lui, mentre lei continuava la sua sensuale esplorazione.
“Ma io credevo che non ti piacessero le ‘sveltine’?” riuscì a dire Max, nonostante il fatto che lei stesse toccando il suo punto più sensibile.
“Qualche volta mi piacciono.” disse lei, stringendolo un po’ più forte “e qualche volta no.”
“E questa è una di quelle volte che ti piacciono?” le chiese ed in risposta lei lo strinse ancora e, per buona misura, aumentò il ritmo della sua carezza.
Era tutto quello che gli bastava sapere. Max si girò, la afferrò e la mise seduta sul mobiletto del bagno così velocemente che lei non ebbe modo di reagire. Le tolse l’asciugamano e le esplorò il seno con le labbra, succhiandoli prima uno e poi l’altro. Il gemito che le uscì dalla gola gli disse che lei era tutta sua. I capezzoli erano duri ed eretti e lui li prese, giocandoci con la lingua. Lei inarcò la schiena e i suoi gemiti si fecero più pressanti, chiedendogli di più. Max sentiva crescere la sua eccitazione e le strinse il capezzolo tra i denti fino a che fu vicina ad urlare per il piacere.

Era così forte che rasentava il dolore e con le mani sulle cosce di lei, la spostò fino al bordo del mobiletto e le divaricò le gambe per fare spazio alle sue cosce muscolose. Tolse la bocca dal suo seno per sostituirla con le mani, prima di riportare l’attenzione alla parte inferiore del corpo di Liz. Le mani scesero sui fianchi fino ad arrivare a toccarla nel suo caldo centro.
“Oh, Max.” gemette lei, quando con le mani le apriva le sue femminili labbra, accarezzandole il punto più sensibile, finché lei fu quasi per gridare. Max prese la base della sua asta e la inclinò in avanti, portando il suo sesso verso il calore di lei. Liz rimase senza fiato, mentre lui le toccava i sensibili tessuti e infilava la punta tra le sue pieghe. Il fluido che lui aveva emesso si confuse con quello di lei, aiutandolo a scivolare dentro con facilità. Max la sentiva tremare per l’eccitazione mentre le stimolava il punto che sapeva l’avrebbe fatta impazzire.
“E’ questo quello che vuoi?” chiese lui a voce bassa, mentre la accarezzava, sentendo il suo orgasmo avvicinarsi. “O questo …” disse, spingendo la sola punta dentro di lei, tormentandola prima di tirarsi indietro.
“Tutti e due.” Grido Liz “Voglio tutto.” La stava portando ad una vetta febbricitante e lei sentiva il corpo andarle a fuoco.
“Golosa di piccole cose, vero?” Max sorrise, mentre continuava ad accarezzarla intimamente, ascoltando in risposta i suoi gemiti crescere. Ma anche lui si stava eccitando, il contatto tra i loro corpi era tormentoso per lui quanto lo era per lei. Si immerse ancora dentro di lei solo un centimetro, e poi un altro, stuzzicandola finché non fu pronta per esplodere.
“Max, ti prego!” ansimo, supplicandolo perché alleviasse il suo bisogno. La accarezzo più intensamente, bagnandosi la mano con il suo caldo fluido. Liz chiuse gli occhi e sentì l’ondata crescere, mentre Max si spostava lentamente dentro di lei, usando il pollice, questa volta, per fare pressione sulla sua sporgenza. Si muoveva in modo circolare e i suoi fianchi davano piccole spinte, entrando in lei per pochi centimetri per poi uscire di nuovo, dentro e fuori, ancora e ancora fino a portarla sull’orlo del piacere.
Il corpo di Liz era teso e mentre gridava, Max affondò completamente dentro di lei, stimolando il suo punto culminante a crescere ancora più alto. Si spinse dentro di lei fino a che sentì il suo orgasmo scemare e allora si fermò, guardandola negli occhi con un sorriso.
“Vuoi qualcosa di più,” le chiese “o ti è bastato?”
“Di più!” gemette lei e aprì gli occhi per guardare nelle sue appassionate profondità. “Voglio di più!”
“Sei insaziabile.” Max sorrise ancora di più, riprendendo a muoversi ancora dentro di lei.
“Tu mi hai resa insaziabile.”
“Se vuoi qualcosa di più,” disse Max pacato, spingendosi languidamente dentro di lei, “tecnicamente non potremo più definirla una ‘sveltina’.”
“Max …” disse Liz lasciando scorrere le mani sui muscoli sodi del sedere di lui e usando le unghie per lasciargli piccoli graffi sulla pelle, rafforzando il suo piacere.
“Cosa …” mormorò lui distratto, mentre affondava dentro di lei, sentendo le sue calde, lisce pareti che lo circondavano stringendolo, mentre il suo membro la invadeva e si ritirava così da ricominciare l’ esplorazione della sua intimità.
“Basta parlare!” Le mani di Liz si posarono ai lati della faccia di lui e se lo attirarono vicino, coprendogli la bocca con la sua. Con la lingua toccò le sue labbra, facendole aprire e permettendole l’accesso. Lei esplorò la sua bocca, assaggiando il sapore di menta del dentifricio e lui dovette gradire l’intrusione, perché la ricambiò appassionatamente.
Le mani di Max cominciarono a vagare sul corpo di lei, prima sui fianchi, così da poterla attirare verso di sé per assecondare le sue spinte, poi sulle sue cosce, allargandole per permettergli di penetrarla più profondamente. Si spostarono poi suoi seni stringendoli delicatamente, mentre si muovevano al ritmo delle spinte. Li coprì a coppa dal di sotto e lasciò che i pollici accarezzassero i capezzoli eretti, suscitando in lei una forte reazione. Liz si inarcò, allontanandosi da lui, staccando le labbra dalle sue e i suoi gemiti echeggiarono tra le pareti del bagno. Max le baciò il mento e la gola, gustando il sapore dolce e salato della sua pelle, e i suoi fianchi cominciarono a muoversi più in fretta.
Con le mani continuò a massaggiarle il seno, spostandosi leggermente indietro per poterla vedere meglio. Lo sguardo scese dove i loro corpi si univano e lui si vide scomparire dentro di lei, per riapparire quando si tirava indietro, lucido del suo caldo nettare. Entrò ancora in lei, nascondendosi dentro il suo sesso pieno e sentendola stringersi intorno a lui. Quando i loro corpi si incontravano, il suo crespo ciuffo nero si confondeva con i morbidi riccioli scuri di lei e il massaggio del loro contatto stava nuovamente riprendendo il dominio su di lei.
Max si mosse ancora più svelto ed il respiro divenne più difficoltoso mentre la sua eccitazione sessuale cresceva di intensità. Posò le mani sui fianchi di lei, guidando i suoi movimenti ed accorciando le sue spinte. Poteva sentirla tremare di pregustazione, sentiva il suo respiro diventare irregolare e quando il suo orgasmo arrivò, lei lo trascinò con sé.
Entrambi gridarono per l’intensità del loro orgasmo contemporaneo, e le contrazioni delle sue pareti interne aspirarono il seme che scaturiva da lui. Max si appoggiò contro di lei, allungandosi al suo interno un’ultima volta nello spasimo finale della sua beatitudine sessuale, mentre lo splendore del loro amore si diffondeva per tutto il suo corpo.
“Oh, mio Dio, Liz.” le mormorò nell’orecchio, quando tornò sulla terra. Un velo di sudore gli ricopriva il corpo e lo sentiva gocciolare sul suo petto e sulla schiena, e dove le sue cosce erano in contatto con quelle di lei. Si chinò su di lei, per sentire il battito impazzito del suo cuore ed il suo respiro trasformato in ansito per il loro esercizio mattutino. Le baciò la gola e la bocca, per gustare ancora il suo dolce sapore. Sentiva ancora le sue pareti palpitare intorno a lui mentre si ammorbidiva e rimase senza respiro quando scivolò fuori da lei e l’aria fredda avvolse il suo membro bollente.
“Questo e il modo di cominciare la giornata.” disse Max con gli occhi che gli brillavano.
“Uh huh.” rispose Liz sognante. si sentiva pienamente soddisfatta e rilassata.
Le dita di Max le toccarono i seni e lui le disse “Sei sudata. Penso che tu abbia bisogno di un’altra doccia.”
“Anche tu sei sudato.” indicò lei.
“Sembra che ci resti una sola cosa da fare …” le disse tirandola giù dal mobile e facendole poggiare i piedi in terra. Un sorriso di complicità le traversò la faccia, mentre si dirigevano verso la doccia che li aspettava per lavare i loro corpi e se nel mentre fosse intervenuta qualche altra cosa … sarebbero stati in grado di affrontarla.

***

“Dovresti mangiare qualcosa di più di un toast, Liz.” disse Max accigliato. L’aveva vista spalmare un sottilissimo strato di marmellata di fragole su un pezzetto di pane ed appoggiare il coltello sul piatto. Allungò una mano alla scatola che stava sul mobile della cucina e ne prese una ciambella fresca. “Tieni, mangia questa!”
“Stai scherzando, spero!” esclamò Liz, guardando il dolce glassato che le stava porgendo. “Non posso mangiarla. Sono già grossa quanto una casa!”
Max guardò la ciambella che aveva in mano e, al diavolo tutto, decise di darle un morso. Era la terza, ma lui aveva consumato una quantità di energia quella mattina così una maggiore dose di zucchero non gli avrebbe fatto male. La sgranocchiò felice, e poi guardò verso Liz che lo stava fissando. Oh oh.. Era nei guai. “Cosa c’è? Cosa ho detto?”
“Niente!” ma sentì nella sua voce un tono incerto.
Dannazione, pensò Max. Stava per piangere. E cominciò a pensare velocemente. “Cosa aveva detto? Cosa aveva fatto? Che cosa non aveva detto o non aveva fatto? Se avesse potuto saperlo, avrebbe anche potuto arginare il disastro. Qualsiasi cosa fosse, era accaduta oggi? Ieri? Il mese scorso? Quando aveva dodici anni e le parlava a scuola? Di certo, quando i suoi ormoni impazzivano, non c’era modo di sapere che cosa l’avesse scombussolata.
Max avrebbe potuto andarle vicino e baciarla, ma questo avrebbe potuto peggiorare le cose, se lei voleva essere lasciata in pace. O avrebbe potuto semplicemente stare lì a mangiare la sua ciambella, ma questo avrebbe potuto peggiorare le cose, se lei voleva che lui le andasse vicino e la baciasse. Magari poteva squagliarsela lentamente dalla cucina ed infilarsi velocemente nella Jeep.
Max avvicinò piano la mano alla bocca, perché non poteva resistere al richiamo della ciambella, e si accorse dello sguardo di odio con cui lei lo guardava. La ciambella. Era sottosopra per la ciambella? Si ripeté la conversazione che avevano appena avuto, ed ebbe un’illuminazione. Andò dietro di lei e le sue braccia la strinsero alla vita. “Tu non sei grossa come una casa. Sembra che ti sei ingrassata a malapena.”
“Davvero?” chiese lei, con un tono decisamente più sollevato rispetto a quello di pochi istanti prima.
Grazie a Dio, pensò Max tra sé e sé e fece un sospiro di sollievo. La girò per guardarla negli occhi e le disse. “Sei bella. Assolutamente bella.” Liz ora gli sorrideva e lui si sentì orgoglioso di se stesso. Di solito non se la cavava così bene in quelle cose.
Si chinò per baciarla, perché per Max era ancora più difficile resistere a lei che alle ciambelle, quando il telefono cominciò a squillare e li interruppe. Max la guardò e sospirò, poi traversò la cucina, girandosi a guardare ancora Liz, mentre rispondeva. La sua faccia divenne seria quando riconobbe la voce dall’altra parte della linea.
“Max, sono Carl.”
“Hey. Cosa è successo?” chiese Max. “Stavo proprio uscendo.”
“Cambio di piani.” disse Carl, con un tono che non lasciava presagire nulla di buono. “Questa mattina ci è stato assegnato un nuovo caso. Dobbiamo andare all’ospedale per parlare con la vittima.”
“Okay.” disse Max, con l’umore che sprofondava in basso. “Le visite all’ospedale erano la cosa peggiore.”Vuoi che ci incontriamo direttamente lì?”
“Si. Ti ho telefonato con la speranza che non fossi ancora uscito. Ci vediamo all’entrata principale.”
“Va bene. Sto uscendo ora. Sarò lì tra pochi minuti.” Max chiuse il telefono e si voltò verso Liz. La baciò dolcemente sulle labbra, dicendole “Devo andare. Abbiamo un nuovo caso e devo incontrare Carl al Maryvale.”
“Ci vediamo stasera, allora.” Liz gli sorrise. “Forse ti preparerò qualcosa di speciale per cena.”
“Mi basta avere te! Sei abbastanza buona da mangiare.” La vide arrossire e non poté fare a meno di baciarla di nuovo. “Ora, voglio che tu mangi qualcosa di più di un toast per colazione. Mangia un po’ di frutta. Magari una ciotola di cereali. E bevi un succo di frutta. Il succo di frutta ti fa bene. Strapazzati un paio di uova. Sono proteine. Tu hai bisogno di proteine. E di calcio. Hai bisogno di calcio. Vuoi che ti porti un bicchiere di latte, prima di uscire? Portati a scuola una banana, da mangiare nell’intervallo.”
“Max?” gli disse Liz guardandolo.
“Si?” rispose lui ricambiando lo sguardo.
“Va al lavoro!”
Liz gli stava sorridendo e quando lo guardava così lui si sentiva sciogliere. Sarebbe stata una bella giornata. Cominciare il mattino facendo l’amore con lei era il modo perfetto per iniziare la giornata e se lo fai non una ma ben due volte, una sul mobiletto del bagno e una nella doccia, cos’altro può volere un uomo? E inoltre era stato anche capace di evitare un dramma ormonale. Quella era un’impresa eroica. Di solito faceva fatica ad afferrare certe faccende. Le cose non potevano andare meglio di così. Si, oggi sarebbe stato un gran giorno.
Baciò Liz ancora una volta ed uscì con un sorriso in faccia ed il passo sciolto. Saltò sulla Jeep con i pensieri già rivolti ad una cenetta intima a luce di candela e ad una serata rannicchiato accanto a sua moglie. Accese la radio e cantò seguendo la musica, mentre si dirigeva al Maryvale Hospital.

Capitolo 57

Carl prese il telefono e guardò la cartella aperta sulla sua scrivania. Aveva appena parlato con Max, dicendogli che si sarebbero incontrati prima possibile al Maryvale Hospital. Avevano un nuovo caso sul quale investigare e il primo passo consisteva nel parlare con la vittima che era stata portata al Pronto Soccorso e probabilmente ricoverata.
Comunque, la cartella che stava guardando non riguardava la loro nuova vittima. La bambina che dovevano interrogare era stata vittima di una violenza sessuale. Lui aveva già interrogato i vicini e aveva già in mente un sospetto. Tutto quello di cui avevano bisogno, era una conferma della descrizione del colpevole, che Max non avrebbe avuto difficoltà ad ottenere, e l’avrebbero arrestato.
No, la cartella riguardava qualcosa di molto più complicato. Qualcosa che lo riguardava a livello personale. Era passato tento tempo da quando aveva permesso che i problemi degli altri si intromettessero nella sua vita personale. Infatti, era rimasto distaccato dalla gente per la maggior parte della sua vita. Michelle era stata l’unica a rompere la sua dura facciata, a vedere chi era realmente l’uomo che aveva pianto quando E.T. era tornato a casa perché Elliot avrebbe sentito la sua mancanza. Lui aveva un cuore tenero, ma lui era l’unica persona vivente a saperlo.
Le foto nella cartella di Carl attirarono la sua attenzione e lui prese la prima. Era probabilmente una foto presa dall’annuario scolastico. Il suo aspetto era molto simile a quello che aveva ora. I suoi occhi nocciola, quasi ambrati lo stavano fissando, celando tutti i suoi segreti. Max Evans era stato elusivo quel giorno, come lo era stato lo scorso gennaio quando Carl era entrato in ufficio ed aveva visto l’intenso ragazzo per la prima volta.

Non c’erano dubbi che Carl avesse sviluppato un mite affetto per lui. Ma non era sicuro del perché. Carl si era chiuso a tutti dopo la morte di Michelle. Non voleva ascoltare i toni condiscendenti o i tiepidi tentativi di aiutarlo a superare la sua morte. Voleva crogiolarsi nella sua autocommiserazione e l’aveva fatto per anni, fino a stordirsi.
Poi era arrivato Max Evans e Carl si era trovato attratto dal misterioso giovane uomo. Cosa c’era in Max che lo aveva colpito? Non era solo una manifestazione della curiosità professionale di Carl. Si, Max era un uomo con molti strati e Carl aveva passato anni della sua carriera a togliere strati per portare a galla la verità.
Ma c’era qualcosa di più profondo della sua inclinazione ad investigare che aveva svegliato l’interesse di Carl. Aveva trovato in Max un’anima gemella. Un fratello, se vogliamo. Un uomo che aveva sofferto molto nella sua breve vita, ma anche un uomo che era capace di amare profondamente.
Carl prese un’altra foto e questa gli fece fiorire in faccia un sorriso. I suoi grandi occhi scuri lasciavano trasparire l’innocenza e la sua natura dolce e Carl fu contento che Elizabeth Parker Evans fosse sopravvissuta agli orrori a cui era stata sottoposta senza perderla. Il suo sguardo era espressivo ed aperto, non velato e misterioso come quello di suo marito. Max aveva parlato un giorno di quanto fosse forte l’animo di Liz e anche Carl aveva avuto la stessa sensazione.
Lei aveva avuto bisogno di tutta la sua forza per sopravvivere alla prigionia e al rapimento della figlia. Tornò col pensiero alla conversazione che aveva udito il mese scorso a casa degli Evans. Ci aveva ripensato più di una volta dal giorno che aveva sentito Max e Daniel parlare della ricerca di Ellie. Sembrava che ci fosse in atto una ricerca attiva, che era partita da qualsiasi fonte stessero usando, ma che non li aveva condotti molto lontano.
Carl ripose la fotografia di Liz e cercò tra quelle ancora nella cartella. Ne prese una di Jonathan Miller e, mettendola via, scosse la testa con disgusto. Certi uomini nascevano mostri. Cercò nella cartella e ne prese una foto di Robert Johnson, l’uomo che aveva portato via a Max la figlia. Era la vecchia foto di una patente di circa trent’anni prima, l’unica che era stato in grado di trovare. L’uomo aveva tenuto la sua faccia lontano dai giornali e dagli sguardi curiosi. Quando guardò quell’unica foto, Carl notò che c’era qualcosa di familiare nel suo viso. Qualcosa che non riusciva del tutto a definire
Carl guardò l’orologio e sospirò, mentre chiudeva la cartella. Era ora di andare. Infilò la cartella nel cassetto della scrivania e prese la giacca dalla spalliera della sedia. Uscì dalla porta per andare ad incontrare Max al Maryvale, ma i suoi pensieri erano rivolti alla conversazione che aveva ascoltato un mese prima. Qual’era la connessione che Max aveva menzionato? Le parole che Max aveva pronunciato quel giorno, gli echeggiavano ancora nella testa. ‘Lei non mi ha dato nessun indizio, eccetto l’unico nome che le è sfuggito. Mary. Quando faccio pressione per avere delle informazioni, la connessione, lo sai …’
Qualcuno gli aveva telefonato per dargli notizie di Ellie? E chi era Mary? Aveva così tante domande ed era così lontano dalle risposte. Carl si chiuse la porta alle spalle e si diresse verso l’ingresso a passo svelto, diretto all’appuntamento con Max.

***

Johnson fermò la macchina nel parcheggio dell’ospedale e camminò svelto sull’asfalto. Non aveva rimpianti nel lasciare il Maryvale. Non aveva bisogno dello stipendio e non aveva nessun legame con le persone che lavoravano lì. I suoi rapporti con i colleghi erano stati strettamente professionali e aveva tenuto accuratamente segreta la sua vita privata. Nessuno sapeva di Jenny.
Non aveva dovuto dare spiegazioni sul perché lasciasse l’incarico o dove si trasferisse. Si era tenuto distaccato di proposito, amichevole ma riservato. Aveva educatamente declinato ogni offerta di unirsi alle attività ricreative o agli impegni fuori dall’orario e, di conseguenza, era scivolato in sottofondo e nessuno provava un reale interesse per lui.
Johnson entrò dall’ingresso principale con la mente presa sulle incombenze che lo aspettavano e non notò la Jeep che era entrata nel parcheggio dietro di lui.

***

Appena entrato nell’atrio del Maryvale Hospital, Carl individuò subito Max. Era seduto su una sedia accanto alla finestra con il suo blocco da disegno aperto sulle ginocchia e la mano sospesa sopra un foglio. Aveva un sorriso stampato sulla faccia che incuriosì Carl. Era il disegno che lo stava facendo sorridere o qualcos’altro? Max lo vide avvicinarsi e si alzò, mettendosi il blocco sotto il braccio.
“E’ molto che aspetti?” chiese Carl scusandosi.
“Sono appena arrivato.” rispose Max. Doveva sforzarsi per non ridere come un folle davanti a Carl. L’intimità che aveva diviso con Liz quella mattina era ancora fresca nei suoi ricordi e il suo corpo era illuminato bagliore residuo della loro unione. Niente poteva rovinare il suo buonumore. Sapeva che l’interrogatorio che aveva davanti non sarebbe stato facile, ma si rifiutava di lasciare che abbattesse il suo spirito.
“Come sta Liz?” chiese Carl.
“Sta bene.” Rispose Max, incapace di celare il suo sorriso. “Alla grande! Ha un appuntamento con Rachel questo pomeriggio.” Guardò la faccia di Carl e non fu sorpreso dalla reazione che vide quando nominò Rachel.
“Come sta Rachel?” chiese Carl con nonchalance.
“Credo sia un po’sconvolta.” disse Max e si girò per andare verso gli ascensori.
“Sconvolta?” disse Carl con interesse. “Che cosa l’ha sconvolta?”
“Credo che sia perché tu non l’hai chiamata.” Rispose Max tentando di non ridere.
“Cosa?” chiese Carl, col cuore che cominciava a battere svelto nel suo petto.
“Mi hai sentito.” Max si stava godendo il disagio del suo capo.
“Ha detto questo?” chiese Carl sorpreso. “Ha detto che si aspettava che la chiamassi? Quando l’ha detto, voglio dire, se l’ha detto. Pensi che dovrei chiamarla?”
“Vuoi chiamarla?” chiese Max e si morse la lingua per non ridere del modo in cui Carl si stava comportando.
“Voglio chiamarla?” ripeté Carl. Questa era una domanda stupida, pensò. Avrebbe voluto chiamarla ogni minuto di ogni giorno passato da quando l’aveva incontrata. E non poteva dimenticare il modo in cui il sorriso le illuminava il volto.
“Si. E’ proprio quello che ti ho chiesto!” disse Max, stupito che quell’uomo che aveva una grande forza interiore e determinatezza, fosse rimasto di stucco solo all’ accenno del nome di Rachel.
Carl guardò Max e le sue labbra si mossero, ma non ne uscì una parola. Se l’avesse chiamata, avrebbe dovuto pensare a qualche cosa da dirle e gli sembrava che la sua lingua fosse legata ogni volta che parlava con lei. Non era molto bravo con le parole! “Si, voglio chiamarla!” rispose Carl finalmente alla domanda di Max.
“Forse, allora, dovresti chiamarla.” Cercò di dire Max con un’espressione apparentemente onesta e quando le porte si aprirono si infilò nell’ascensore. Carl rimase immobile a guardarlo mentre Max manteneva aperte le porte con la mano, finché l’uomo si decise ad entrare. “A che piano dobbiamo andare?”
“Quinto.” rispose Carl, traversando le porte dell’ascensore. Si mise vicino a Max e quando le porte si richiusero disse “Forse la chiamerò.”

***

Johnson guardò il nome sull’armadietto che aveva usato per gli ultimi due anni. Robertson. Il nome era falso. L’indirizzo sulla sua patente era falso. Le informazioni nella sua cartella personale e della sua cesella di posta erano false. Lui aveva pagato splendidamente per coprire le sue tracce e l’avevano servito bene.
Ora, poteva lasciarsi alle spalle questa parte della sua vita senza guardare indietro. Aprì l’armadietto, prese le poche cose che vi erano conservate e le mise in una scatola che aveva preso dal magazzino. Tutto quello che aveva era un cambio di abiti e qualche documento di lavoro. Una volta che li ebbe presi, mise il coperchio alla scatola, chiuse l’armadio e se ne andò senza guardarsi indietro.
passò accanto alla postazione delle infermiere, diretto verso l’ascensore, quando si sentì chiamare.
“Dottor Robertson? Dottore, è di servizio oggi?”
Johnson si girò, per vedere Betty, una delle infermiere che lui conosceva sin da quando era venuto a lavorare al Maryvale. Si avvicinò al bancone e disse con un sorriso “No. Ho comunicato le mie dimissioni. Vado al piano terra a recuperare dei documenti e poi sarò fuori di qui.”
“Davvero?” disse Betty sorpresa “ Sentiremo la sua mancanza.”
“Grazie, Betty. Anche a me mancherà questo posto. E’ stato bello lavorare con voi.” Johnson sapeva come essere gradevole. “Porti i miei saluti a tutti gli altri.” Le fece un cenno di saluto ed andò verso gli ascensori. Ancora solo una fermata e avrebbe potuto mandare tutto all’inferno e dedicarsi al lavoro che contava veramente, per lui.

***

Carl stava aspettando fuori dalla porta della stanza di Megan Thompson e ricontrollava le informazioni contenute nel suo dossier. Max non gli permetteva mai di assistere quando interrogava le vittime. C’era qualcosa di strano in tutto questo, ma lui diceva che i bambini non riuscivano a rilassarsi se c’erano troppe persone intorno a loro. Aveva un senso e Carl aveva lasciato andare a causa dell’alto tasso di successi ottenuti da quando Max si era unito alla squadra.
Per qualche strana ragione, Max era capace di tirare fuori dai bambini informazioni che gli altri non riuscivano ad avere. le vittime sembravano più rilassate, meno traumatizzate dopo una sessione con lui, come se Max avesse mitigato la peggiore esperienza della loro vita. Era un ragazzo di grande talento e Carl era contento di avere avuto l’opportunità di conoscerlo.
Guardò la porta chiusa della stanza di Megan e oziosamente si appoggiò la penna contro le labbra. Se non fosse stato per Max, non avrebbe mai incontrato Rachel. Un sorriso gli illuminò la faccia al pensiero di quello che Max gli aveva detto poco prima. Lei voleva veramente che lui la chiamasse? Cosa le avrebbe detto se l’avesse chiamata? Non sapeva più fare la corte, era passato troppo tempo, e poi non ne era stato capace nemmeno quando era giovane.
Non aveva più visto Rachel dal mese scorso a casa di Max. Le aveva dato un passaggio quando aveva ricevuto la chiamata e, dopo un imbarazzo iniziale da parte sua, era stato gradevole guidare fino alla Henner residence. Rachel aveva rotto il ghiaccio e lui aveva scoperto che a lei piaceva andare al cinema. Forse le sarebbe piaciuto andarci con lui. Forse avrebbe dovuto invitarla. Ecco. Poteva chiamarla e chiederle se voleva andare a vedere un film. Oh, Dio. Quello era un appuntamento! Stava pensando di chiedere a Rachel un appuntamento! E se lei avesse rifiutato? E se lei avesse accettato? Oh, Dio!
Carl era in pieno panico, quando la porta della stanza di Megan si aprì e Max ne uscì fuori. Aveva un’espressione soddisfatta sul viso e Carl gli chiese “Gia fatto?”
“Si.” annuì Max.
“Okay, andiamo.” disse Carl e si diressero verso gli ascensori.

***

Johnson guardò i tre ascensori. Quello davanti a lui era al piano terra e sarebbe arrivato presto. Quello alla sua destra era al sesto piano, l’ultimo, e poteva scendere in un momento. L’ascensore alla sua sinistra era al quinto piano, ma lui non sapeva se stava salendo o scendendo. Era fermo al quinto da un po’. Aspettò pazientemente, chiedendosi quale sarebbe arrivato per primo.

***

Le porte dell’ascensore si aprirono per lasciarli entrare. Max spinse il bottone per il primo piano e fece un passo indietro. Aveva notato una neomamma in carrozzina, che teneva in braccio il suo bambino. Dallo sguardo dell’uomo dietro di loro, Max presuppose che il nervoso neo papà stesse portando a casa sua moglie e il neonato dalla maternità del sesto piano. Max non riuscì a reprimere un sorriso. Ancora un paio di mesi e sarebbe toccato a lui. L’orgoglioso neo papà con Matthew in braccio. Che stimolante ed eccitante e sorprendente e … e terrorizzante pensiero! Si sentì lo stomaco sottosopra e non seppe dire se dipendesse dall’ascensore che era partito o perché stava pensando all’idea di tenere in braccio un minuscolo bambino. Il suo bambino.
“Cosa c’è?” chiese Carl, curioso di sapere perché Max stava sorridendo in quel modo. Oggi era decisamente di buonumore. Le porte dell’ascensore si aprirono, e loro fecero un passo indietro per fare posto ai nuovi arrivati. Carl diede a Max un colpetto con il gomito dicendogli scherzosamente “Hai fatto buoni affari questa mattina?”

***

Johnson sentì il campanello che avvisava dell’arrivo dell’ascensore e guardò per vedere quale fosse arrivato. Quello alla sua sinistra o quello alla sua destra? si erano accese le luci di entrambi gli ascensori e le porte si erano aperte contemporaneamente.

***

“Che vuoi dire?” chiese Max, guardando il pavimento. Poteva sentire le sue guance che cominciavano a bruciare e sapeva che stavano arrossendo. Buoni affari? Diamine, si. Aveva fatto buoni affari quella mattina.
“Certo non sto parlando di una buona colazione.” rise Carl.
“Veramente …” anche Max ridacchiò e il suo sguardo esitante incontrò quello di Carl. Si morse il labbro e poi disse piano, in modo che gli altri non potessero sentirlo “Si, um … ho avuto … un piacevole inizio di giornata … un veramente piacevole inizio di giornata … un dannatamente piacevole inizio di giornata, in realtà.”
“Tu, cane fortunato!” lo canzonò Carl e Max arrossi ancora di più. Un paziente in carrozzina con un mazzo di palloncini fu spinto nell’ascensore seguito da tutti i familiari. Max e Carl si spostarono sul fondo per far loro posto, mentre Carl sentì ridere Max alla sua ultima osservazione. Il commento di Carl era stato fatto scherzosamente, ma era vero. Max era un fortunato figlio di cane. Aveva una bella moglie e un figlio in arrivo. Carl lo invidiava.

***

Johnson fece un passo verso l’ascensore alla sua destra e poi esitò alla vista della folla che vi si stava accalcando. Girò a sinistra, evitando sedie a rotelle e palloncini ed entrò dentro l’ascensore vuoto che l’avrebbe portato al secondo piano.

***

Max stava ancora ridendo per il commento di Carl, quando le porte si richiusero e cominciarono la discesa verso l’uscita. Uscirono dall’ascensore al piano terra e Carl si girò verso Max dicendo “Vuoi una tazza di caffé? Magari con una ciambella?”
Max rise all’offerta di Carl e si posò una mano sullo stomaco. “Credo di avere già avuto la mia parte di ciambelle, oggi, ma una tazza di caffé mi sembra una buona idea.”
“Ciambelle, huh? Sai, io lo so che non è stata un’ abbondante colazione a metterti quel sorriso sulla faccia per tutta la mattinata.” Carl gli diede una pacca sulla schiena e aggiunse “Panna e zucchero, vero? Procurati un tavolo, i caffé li offro io.”
“Grazie!” annuì Max e andò felice in cerca di un tavolo libero.
Carl lo vide allontanarsi, contento di vederlo così allegro quella mattina. Non che di solito fosse immusonito, ma oggi era vivace, più aperto del solito. Forse era un buon momento per parlargli del piano che aveva ideato. Riempì un paio di tazze di cartone con il caffé e le mise su un vassoio, insieme alle coppette di panna e a qualche bustina di zucchero. Pagò ed attraversò la caffetteria affollata per unirsi all’amico.
“Grazie,” gli disse Max ancora una volta e allungò la mano per prendere una delle tazze. Vi aggiunse due coppette di panna e due bustine di zucchero, poi si guardò intorno.
“Hai bisogno di qualche altra cosa?” chiese Carl.
“Um, no.” disse Max bruscamente. “No, tutto a posto.” Come d’abitudine aveva cercato con lo sguardo la salsa tabasco, ma questo avrebbe meravigliato Carl, così decise di farne a meno.
“Max, c’è qualcosa di cui voglio parlarti.” cominciò Carl. Max lo guardò con curiosità e lui continuò. “Tu stai cercando da due anni di ritrovare tua figlia.”
Il sorriso di Max scomparve e i suoi occhi si annuvolarono. Il suo atteggiamento si irrigidì e Max si tirò a sedere rigido. Perché Carl voleva parlargli di Ellie?
“Vorrei aiutarti, Max. Io so che c’è in atto una ricerca, ma vorrei portarla allo coperto. Vorrei che la nostra squadra vi partecipasse.”
“L’ Arizona non ha giurisdizione.” disse secco Max.
“Lo so.” Carl annuì in accordo. “Ma c’è un modo di eludere il problema. So che non ci sono ricerche ufficiali della polizia, in questo momento. Lo so, perché l’ho verificato. Questo significa che hai degli investigatori privati. Voglio aiutarli.”
Max si guardò le mani e scosse la testa. Carl non poteva essere coinvolto nella ricerca di Ellie. Avrebbe fatto troppe domande, domande alle quali non avrebbe potuto rispondere senza svelare i suoi segreti. Provava del cameratismo per Carl, un legame che veniva dalla conoscenza o dal lavorare insieme, ma non voleva che Carl entrasse nel loro circolo riservato. Non ancora. Troppe persone avrebbero potuto soffrire se Carl avesse dimostrato di non accettare la verità. Max aveva fiducia in lui, ma non abbastanza da rischiare la sicurezza e la salvezza della sua famiglia e dei suoi amici.
“Apprezzo la tua offerta, Carl, ma penso veramente che non sia il caso …”
“Ho lavorato a questo genere di casi per anni, Max.” tagliò corto Carl. “Forse un occhio nuovo può notare cose che sono state trascurate.”
Tu non hai mai lavorato a casi come questo, pensò tra sé Max. Fu tentato di accettare l’offerta di Carl perché avrebbe significato dedicare molto più tempo alla ricerca se questa faceva ufficialmente parte del suo lavoro, ma il rischio era troppo grande.
“Senti, non devi decidere ora.” lo incitò Carl. “Pensaci su. Parlane con Daniel e con Joshua.” Vide le sopracciglia di Max incurvarsi per la sorpresa all’accenno di quei nomi e al fatto che li avesse collegati alla ricerca di Ellie. Si strinse nelle spalle e disse “Sono un detective. E’ il mio mestiere. Max, penso di poter essere di aiuto.”
“Ci penserò, Carl.” Max girò il suo caffé e ne bevve un sorso. Stava tamburellando con le dita sulla copertina del suo blocco e decise di cambiare argomento. Lo aprì e lo sfogliò fino a raggiungere il disegno fatto poco prima. “Questo è l’uomo che lo ha fatto.” disse Max riferendosi all’ultimo caso.
“Si, è quello che sospettavo.” disse Carl, guardando il disegno. “James Robert Taylor, meglio conosciuto come Jimmy Bob. Già condannato per violenza carnale, fuori sulla parola. Vive a pochi isolati dalla vittima. Questa mattina, Tully lo sta portando in centrale per un interrogatorio. Ora che abbiamo la conferma, possiamo arrestarlo appena arriverà alla centrale.” Max annuì e chiuse le pagine del blocco.
“Aspetta! Cos’è questa?” chiese Carl con i sensi in allerta. Aveva visto qualcosa su uno dei fogli. Qualcosa che sembrava fuori posto eppure familiare nel medesimo tempo.
“Cosa?” chiese Max con uno sguardo perplesso.
“Torna indietro.” insistette Carl con gli occhi incollati al blocco. Max cominciò a sfogliare le pagine dell’ album, scorrendo disegni di Ellie e Liz. Ellie sull’altalena, ridente mentre volava in aria. Liz alla finestra mentre un raggio di luna le illuminava il viso. Ellie e Liz che camminavano nel campo d’erba, mano nella mano.
E improvvisamente una faccia fuori posto. Una faccia che lui aveva già visto. “Fermati!”
Max guardò la faccia che l’aveva perseguitato per tanto tempo. La faccia che gli aveva rubato la gioventù e l’innocenza. La faccia che gli aveva preso la cosa più preziosa. Max la guardò con odio e disse “Questo è Robert Johnson, l’uomo che ha rapito mia figlia.”
“Io conosco quella faccia.” disse Carl fissando il disegno.
“COSA?” Max era scioccato. “DOVE? QUANDO?”
“Non lo so.” rispose Carl scuotendo la testa. “E’ molto familiare. So di averlo già visto. Solo non ricordo dove.”
“Pensaci, Carl. Pensaci.”disse Max con un tono disperato che gli spezzava la voce. Aveva afferrato il braccio di Carl e lo stringeva così forte che le sue nocche erano diventate bianche.
Carl cercò di concentrarsi per ricordare. Era certo di aver visto quell’uomo recentemente, nell’ultimo anno. un ricordo si affacciò, una veloce immagine di lui che andava ad urtare un uomo in camice da laboratorio. Un uomo che aveva in mano una cartella clinica. Gli occhi di Carl si spalancarono e fissarono lo sguardo agonizzante di Max. “E’ qui! L’ho visto qui, pochi mesi fa. Gesù, Max! Lui lavora qui!”
“COSA?” gridò Max e si alzò in piedi. “DOVE?” la sua sedia cadde sul pavimento, attirando l’attenzione della gente intorno a lui. Max si appoggiò con le mani sul tavolo ed urlò “DOVE, Carl. DOVE?”
Carl vide la tensione sul viso di Max e sentì il suo braccio tremare per l’agitazione. “Di sopra,Max. Lavorava al quarto piano.”
Max si girò velocemente, mentre cercava qualcosa con lo sguardo. Cominciò a correre verso l’uscita e Carl, preso il blocco, e lo seguì “Max aspetta. Max!”
Carl corse dietro all’amico sconvolto e lo raggiunse davanti agli ascensori. Lo sguardo selvaggio nei suoi occhi lo sbalordì. Non aveva mai visto Max perdere il controllo di se stesso prima d’ora. “Max, tu non puoi semplicemente correre di sopra. Lo sai. Ascoltami!”
Max si trovò a fissare Carl, sentendo le sue parole ma non ascoltandole. Questo era il primo solido indizio che aveva. La prima vera possibilità di riavere Ellie. Il cuore era impazzito nel suo petto e doveva fare qualcosa. Doveva andare di sopra e trovare Johnson e costringerlo a dire dove teneva e poi lo avrebbe strozzato per quello che gli aveva fatto.
“Fermati, Max. Pensaci.” disse Carl duramente, cercando di scuoterlo. “Se tu sali di sopra, perderai il tuo vantaggio. Ormai dovresti essere esperto di questo genere di cose.”
“Ma … Ma …” balbettò Max . Non riusciva a pensare chiaramente. L’uomo che aveva preso Ellie era di sopra e lui voleva trovarlo. ORA! Già una volta aveva aspettato troppo e per questo Liz era quasi morta e Ellie gli era sfuggita tra le dita. Non poteva permettere che succedesse ancora.
“Max, ascoltami. Parliamone prima di salire. lasciami pensare per un attimo.” Carl vide che Max si stava calmando un po’ e tirò un sospiro di sollievo. “Lui non usava il nome Johnson quando l’ho visto, un paio di mesi fa. Mentre risolvevamo il caso Brooks. Aspetta un minuto. Credo … Dannazione, c’eri anche tu quel giorno.”
Max sentì un brivido percorrergli il corpo. Ricordava benissimo quel giorno. Ricordava la sensazione che c’era qualcosa di sbagliato, ma non sapeva dire cosa. Johnson era stato l’ tutto il tempo, proprio sotto il suo naso e lui non l’aveva visto. Gesù! Aveva potuto far finire quell’incubo già da due mesi.
“Sto cercando di ricordare che nome usava. Dannazione.” Carl imprecò e si passò le mani sulla faccia. Come poteva non ricordare?
Max cominciò ad allungare una mano per toccare la tempia di Carl, così da poter vedere quello che c’era nella sua mente. Non gli importava se avesse suscitato in Carl dei sospetti. Non gli importava se Carl avesse scoperto i suoi segreti. Tutto quello che voleva era trovare Ellie e portarla a casa.
“Okay, facciamo così.” suggerì Carl. Max fermò la mano, per dare all’amico una possibilità prima di passare la linea da cui non avrebbe potuto fare ritorno. “Andiamo al quarto piano. Quando l’ho visto, mi è sembrato che lavorasse al Cancer Center. Dammi il disegno e, se non riusciamo a trovarlo da nessuna parte, lo mostrerò discretamente per vedere se qualcuno lo riconosce. Tu tieniti dietro di me. Se lui è lì non mi riconoscerà, ma non voglio che Johnson ti veda.”
“Questa è l’idea migliore che ti è venuta in mente?” chiese Max dubbioso.
“Hey, sono sotto pressione!” disse Carl cercando di allentare la tensione.
“Okay.” Max fece una risata nervosa e poi la sua faccia tornò seria. Strappò il disegno dal suo blocco e lo porse a Carl, che lo piegò e lo mise nella tasca della giacca. le porte dell’ascensore si aprirono e Max controllò i volti delle persone che uscivano. Johnson poteva essere dovunque, girato l’angolo, dietro ad ogni porta. L’ascensore si svuotò e Carl e Max entrarono, diretti al quarto piano.

Le porte dell’ascensore si aprirono e Johnson uscì nell’atrio con in mano la piccola scatola che conteneva i suoi effetti personali. Doveva andare all’ Ufficio del personale, per completare gli ultimi adempimenti e per essere sicuro che tra i suoi dati ci fosse l’indirizzo giusto al quale spedire l’ultimo assegno.
Camminava per l’atrio a passo svelto, ansioso di tornare al suo laboratorio per cominciare la prossima fase degli esperimenti. Avrebbe dovuto fare altre ordinazioni, provette, bicchieri, siringhe, una moltitudine di cose di cui avrebbe avuto bisogno. Si affrettò nella sala con la mente già rivolta alla prima serie di test che voleva eseguire.

Capitolo 58

Le porte dell’ascensore si aprirono sull’ambiente familiare e Carl uscì controllando il corridoio alla ricerca della faccia di Robert Johnson. Nessuno dei volti presenti corrispondeva ai suoi lineamenti e fece segno a Max di venire avanti. “Guarda, sto andando alla postazione delle infermiere per cercare di avere notizie. Tu mettiti lì dietro e tieni gli occhi aperti. Controlla gli ascensori, controlla tutto.
Va bene?”
“si.” disse nervosamente Max.
La sua agitazione aumentava di minuto in minuto e stare fermo lì non lo aiutava. Si passò la mano sotto il mento e cercò di rilassarsi.
“Okay.” annuì Carl e si diresse in fondo al corridoio. Si avvicinò alla postazione delle infermiere ed attirò l’attenzione di una brunetta dietro al bancone. “Mi scusi, ma sto cercando un medico e non riesco a ricordare il suo nome. Ha curato mio fratello e si è raccomandato perché venissi qui a farmi controllare, sa, nel caso sia un problema ereditario. Il dottore ha circa il mio peso e la mia altezza. Sulla cinquantina e un po’ stempiato.”
“Potrebbe essere il Dottor Robertson.” disse gentilmente l’infermiera.
“Giusto. Si, proprio lui.” Carl sorrise. Ora ricordava. “Grazie.”
“Vuole che le prenda un appuntamento, visto che è qui’? Posso fissargliene uno se vuole.”
“No. Grazie.” Carl rifiutò il suo suggerimento. “Credo che gli farò una telefonata.”
“Mi dispiace, ma il Dottor Robertson non lavora più qui. Ha dato le sue dimissioni stamattina e ha svuotato il suo armadietto. E’ andato via solo pochi minuti fa”
“Cosa?” Carl stava quasi gridando. “Dove è andato?”
“Non ne ho idea.” disse l’infermiera, scossa dall’improvvisa uscita di Carl.
Carl prese il suo distintivo da detective dalla tasca e lo mostrò alla donna. “Ha un’idea di dove sia andato?”
“Gli ho sentito dire qualcosa a proposito dell’ufficio del personale per mettere a posto la sua documentazione.” rispose lei.” Probabilmente è ancora lì.”
Max controllò i volti delle persone intorno a lui, gli occhi in costante movimento alla ricerca della faccia che odiava. Era qui? Era su questo piano? E dov’era Ellie? Era stata a Phoenix per tutto quel tempo? Era stato così vicino a lei e non se ne era reso conto? Il suo piede batteva sul pavimento e con un pugno si colpiva il palmo della mano, ma non si accorgeva neanche del nervosismo dei suoi gesti. Max guardò in fondo al corridoio per vedere cosa diavolo stesse facendo Carl in tutto quel tempo e lo vide lasciare la stazione delle infermiere e correre nella sua direzione.
“l’espressione sulla faccia di Carl gli mandò lo stomaco sottosopra e il cuore a mille. C’erano altre brutte notizie? Perché Carl stava correndo in quella maniera? “Cosa c’è? Cosa è successo?” chiese Max quando Carl si fu avvicinato.
“Lui è di sotto.” disse Carl velocemente ed afferrò Max per un braccio. Poteva vedere speranza e paura combattere una guerra nello sguardo di Max e si rese conto che doveva calmare il ragazzo. Non potevano agire senza riflettere. Premette il bottone della discesa e, mentre aspettavano che l’ascensore arrivasse, Carl cominciò a dire a Max quello che aveva appena scoperto. “Si è presentato con il nome di John Robertson. Oggi ha dato le sue dimissioni e non tornerà più a lavorare qui.”
“Cosa?” urlò Max. L’avevano perso? Se ne era andato e con lui l’unica possibilità di trovare sua figlia? Al pensiero fu preso dal panico. Spinse ripetutamente il pulsante per la discesa come pensando che l’ascensore sarebbe arrivato più in fretta.

***

Johnson finì di sistemare le sue carte, controllando due volte l’indirizzo e il suo piano di risparmio. Voleva che tutto andasse liscio e che nulla attirasse su di lui l’attenzione. Tutto doveva sembrare normale. Soddisfatto, ritornò agli ascensori, pronto a lasciare quel posto e a tornare a casa.
Si fece strada nel corridoio e premette il pulsante di discesa dell’ascensore. I suoi impegni erano terminati e aveva fretta di tornare a casa. Mentre aspettava, tamburellava le dita contro la sua gamba. Controllò l’indicatore dell’ascensore e incrociò le braccia sul petto. Poi si accorse che aveva lasciato la scatola dei suoi effetti all’Ufficio del personale. “Dannazione!” mormorò e tornò nella direzione da cui era appena venuto.

***

“Girati!” disse calmo Carl quando furono arrivati al secondo piano. “Non voglio che ti veda, nel caso fosse qui davanti, quindi aspetta che ti dia il via libera.” Max annuì e diede le spalle alla porta. Poteva sentire il rumore dell’apertura e poi i passi di Carl che usciva nel corridoio.
Rivolto verso la parete dell’ascensore, per Max ogni secondo sembrava lungo come un’ora. Avrebbe voluto girarsi, vedere cosa stava succedendo, cosa c’era fuori di lì. Stava diventando pazzo nell’attesa di sentire qualcosa. Improvvisamente la mano di Carl toccò il suo braccio e lui gli disse sottovoce “Non lo vedo. Vieni, andiamo.”
Max si girò lentamente e, con cautela, fece capolino dall’ascensore. Nel corridoio c’era poca gente e non vide nessuna faccia familiare. Fece un profondo respiro ed uscì continuando ad osservare i volti che lo circondavano uno ad uno. Poteva sentire nel petto il battito del suo cuore e nelle orecchie il rumore del sangue che scorreva. Gli sembrava di essere in un film al rallentatore e l’eco dei suoi passi gli si ripercuoteva nel cervello.
Carl sentì le ondate di tensione prendere possesso di Max. Aveva gli occhi ristretti e le mascelle serrate così forte che si chiedeva come facesse a non spezzarsi i denti. Carl notò che aveva le mani strette a pugno e si chiese se fossero riusciti ad arrivare alla fine senza che Max uccidesse quell’uomo, una volta che l’avessero preso.
“Ricordati, una volta che l’avremo trovato dovremo vedere cosa fa e dove va.” rammentò Carl a Max. “Sarà inutile averlo arrestato, se si rifiuterà di dirci dove nasconde Ellie. Prima dobbiamo seguirlo. Sei d’accordo con me, Max?”
Max sentì le parole, ma lui aveva una sua idea. Avrebbe preso Johnson con la forza, lo avrebbe portato nella prima area riservata che avesse trovato e avrebbe usato i suoi poteri per entrargli nella mente. Perché preoccuparsi di chiedere dove fosse Ellie, quando lui sarebbe potuto entrare dentro di lui e trovare da solo la risposta? E dopo aver avuto l’informazione di cui aveva bisogno, gli avrebbe sdradicato la mente e lasciato nel cranio solo una pozzanghera di fango.
“Sei d’accordo con me, Max?” gli chiese ancora Carl, preoccupato da quello che c’era dietro i suoi occhi velati.
“Si.” rispose Max duro. “Sono con te.”
Raggiunsero l’ufficio del personale e Carl trattenne Max, prendendolo per un braccio. “Tu stai qui e controlla l’ingresso. Io vado dentro e controllo se è l’, e se non c’è avrò modo di guardare la sua cartella personale. Sapere dove vive. Stai tranquillo, Max. Prenderemo quel bastardo.”
“Si.” fu d’accordo Max, cercando di rilassarsi un po’. “Okay.” I suoi nervi erano tesi e sentiva che stava per scoppiare. Carl attraversò la porta e Max aguzzò gli occhi per controllare l’area intorno a lui. Lo sapeva che era lì. Poteva sentirlo. Molto vicino.

***

Johnson uscì dalla sala di attesa accanto agli ascensori, con pensiero rivolto a Jenny e a quello che aveva visto la notte scorsa. La sua mano aveva brillato di una soffice luce porpora. Non aveva mai visto nulla di simile, prima. La cosa più simile che gli veniva in mente era il campo di forza verde che Max Evans aveva usato alla Montagna, quando era venuto a liberare Liz Parker. Era questo quello che Jenny stava facendo, nel sonno? In quel momento stava sognando. Qualcosa nel sogno aveva scatenato il fenomeno? Di che altro era capace?
Era profondamente assorto nei suoi pensieri, mentre attraversava il corridoio diretto verso l’HR, quando fu distratto da un rumore. Qualcuno aveva detto un nome. Un nome che gli fece gelare il sangue. ‘Max’. Trasaliva ogni volta che sentiva pronunciare quel nome, anche se diceva a se stesso di non essere paranoico. C’erano milioni di Max sulla terra. Non poteva sentirsi sottosopra solo perché qualcuno aveva pronunciato quel nome.
E poi la sentì. Una voce. Una voce che perseguitava i suoi sogni. Una voce che lui aveva avuto in testa per tutto quel tempo. Si girò con uno sguardo terrorizzato e lì, davanti a lui, lo vide. Johnson rabbrividì involontariamente e si appoggiò alla parete. Il ricordo di quello che era successo a Jonathan Miller era ancora vivo nella sua mente. Gli aveva dato gli incubi per anni, facendogli chiedere se sarebbe toccato anche a lui. Aveva pregato, quella notte, che Max non l’avesse mai potuto trovare, ma ora era li, in carne e ossa. Non c’era possibilità di sbagliarsi, nonostante il tempo passato. Max Evans era lì, a meno di dieci metri da lui.

***

“Max.” lo chiamò Carl per attirare la sua attenzione una volta che fu di ritorno.
“Cosa hai trovato?” Max so girò veloce verso Carl. “E’ li dentro? Lo hai visto? Non c’era?”
“Vieni qui.” gli ordinò Carl . Max si accigliò ma fece quello che gli aveva chiesto e si avvicinò al fianco di Carl. L’uomo più anziano lo afferrò per un braccio e lo tenne stretto mentre gli diceva “Era qui solo un momento fa. Dovrebbe ancora essere su questo piano.” Carl sentì che Max cercava di staccarsi da lui e lo strinse più forte, per impedirgli di fare qualcosa di sconsiderato.
“Voglio che tu cerchi su questo piano, mentre io andrò giù a controllare l’entrata principale. Nelle altre uscite ci sono le telecamere di sicurezza . Ricordati Max,” e Carl gli strinse il braccio ancora più forte “Dobbiamo controllarlo per vedere dove va, capito?”
Max lo fissò, sapendo che Carl non avrebbe mai potuto comprendere quello che stava passando in quel momento. Johnson aveva quasi distrutto la sua vita e non ne aveva provato nessun rimorso. Aveva torturato Liz e riempito di cicatrici il suo corpo e la sua mente. Notte dopo notte aveva tenuto Liz tra le sue braccia tentando di calmarla quando si svegliava urlando per le cose che Johnson le aveva fatto. Quel mostro aveva strappato Ellie dal corpo di Liz e l’aveva lasciata a morire, senza pensarci due volte. Senza pietà e Dio solo sapeva quali piani aveva per Ellie. No, Carl non avrebbe mai potuto capire quello che Max aveva vissuto negli ultimi tre anni.
“Lo farai, Max?” ripeté Carl e vide il ragazzo tendersi
“Si.” rispose Max con uno sforzo. “Lo farò.”

***

Johnson vide che Max si avvicinava ad un altro uomo e gli sembrò che cominciassero una fitta conversazione. Non poteva sentire quello che si stavano dicendo, ma non gli importava. Tutto quello che voleva era riuscire ad andarsene senza essere visto. Cosa gli avrebbe fatto Max se lo avesse trovato? Il ricordo di Max che costringeva Miller a spararsi in testa ancora lo ossessionava. Che genere di orrori lo aspettavano se Max Evans lo avesse visto? Abbassò la testa e si voltò, pregando che Max non lo notasse. Controllò il suo passo finché non fu oltre gli ascensori e poi girò l’angolo del corridoio successivo. Quando fu in salvo, fuori dalla sua vista, si appoggiò alla parete, tremante per il terrore.
Cercò di contenere il suo panico. Lasciarsi andare avrebbe solo significato farsi uccidere. Si spostò lentamente verso l’estremità dell’angolo e quando lo passò sentì la gelida mano della paura stringergli i testicoli. Max era diretto verso di lui. I suoi occhi sembrava che stessero cercando qualcosa, mentre camminava, e Johnson sentì il suo panico raddoppiare. Max sapeva che lui era lì? Dio misericordioso, stava cercando lui? Le sue gambe sembravano essere diventate di gelatina, mentre cercava di scappare. Non poteva permettere che Max lo vedesse. Non poteva andare verso gli ascensori, Max era troppo vicino. Sarebbe morto prima che le porte si fossero aperte. Vide in fondo al corridoio il segnale al neon che indicava l’uscita e pensò che se si fosse messo a correre avrebbe raggiunto la scala prima che Max potesse girare l’angolo e scoprirlo. Completamente in preda al panico, si mise a correre verso la tromba delle scale.

***

“Ecco.” disse Carl fermandosi accanto agli ascensori. “Ho fatto una copia del disegno di Johnson. Sii discreto, quando lo mostri in giro. Non attirare su di te un’eccessiva attenzione. Una volta controllato questo piano, scendi di sotto. hai con te il tuo cellulare?”
Max annuì e lo tirò fuori dalla tasca. Lo accese, controllò il livello di carica della batteria e poi lo rimise in tasca. “Ora è acceso.”
“Bene. se vedi qualcosa, chiamami. Non fare nulla da solo. Dobbiamo lavorare come una squadra, capito?”
“Si. Ho capito.” disse Max e smise di controllare il corridoio. I suoi occhi duri si girarono verso Carl e disse. “Voglio quel figlio di puttana, Carl. Voglio farla finita oggi stesso.”
“Andiamo, allora.” Carl prese l’ascensore, diretto al piano terra, controllando tutte le facce che incontrava.
Max si guardò indietro, nella direzione da cui era venuto e decise che tornare indietro sarebbe stato inutile. Girò invece a sinistra e alla prima deviazione esitò. Poteva andare dritto o girare l’angolo per l’altro corridoio. Quale direzione doveva prendere? Vide da lontano l’indicazione dell’uscita e, sotto, una porta che si stava giusto chiudendo. Qualcosa lo attirava in quella direzione e lui si lasciò guidare dall’istinto.
I suoi occhi scandagliarono il corridoio affollato e girò intorno ad un inserviente che stava pulendo il caos fatto da un secchio d’acqua sporca che si era rovesciato sul pavimento. Passò oltre, attento a non mettere i piedi nell’acqua e notò una lettera sul pavimento. Non fu la lettera ad attirare la sua attenzione, ma il nome sulla busta. John Robertson, MD. Stese una mano tremante e la raccolse dal pavimento.
“Quell’ idiota deve averla fatta cadere.”
Max guardò in su e vide l’inserviente che guardava nella sua direzione. “Sta dicendo a me?” chiese Max, quando si fu raddrizzato.
“Ho detto, quell’ idiota deve aver fatto cadere la lettera, quando mi è venuto addosso.” L’inserviente era furioso. “Sconsiderato bastardo. Mi è venuto addosso, ha rovesciato il secchio e non si è nemmeno scusato. Dannazione, no. Se ne è andato per la sua strada.”
Max tentò di controllare il tremore della sua mano, mentre apriva il disegno e lo faceva vedere all’inserviente. “E’ questa la persona di cui sta parlando? E’ questo l’uomo?” Max rattenne il respiro, aspettando la risposta.
“Si, è lui. Idiota!”
“Da che parte è andato?” Max doveva lottare per mantenere bassa la sua voce. Non attirare l’attenzione. Non fare una scenata.
“Da quella parte.” rispose l’uomo indicando con la mano il fondo del corridoio. “L’ho visto prendere le scale.”
“Quando?” Poiché l’uomo non rispose subito, Max lo guardò e gli gridò “QUANDO?”
“Appena un minuto fa.” rispose l’inserviente, sconcertato dalla sua esplosione improvvisa. Anche questo ragazzo era un idiota.
La testa di Max si girò alla ricerca dell’insegna dell’uscita e cominciò a correre dietro a Johnson, prima che lui riuscisse ad andarsene. Non poteva più essere prudente. Tutto quello che contava era prendere quel bastardo che aveva sua figlia. Corse come un pazzo per il corridoio, senza nemmeno scusarsi con le persone che urtava e poi, all’improvviso, una barella vuota, spinta da un inserviente vestito di bianco, gli intralciò la strada.
Max investì in pieno la barella e la fece rovesciare sul pavimento. Sentì un forte dolore al ginocchio ed al fianco, e l’aria gli uscì dai polmoni quando cadde a terra. Si rialzò in piedi ignorando il dolore che proveniva dal ginocchio e, quando raggiunse la scala, aprì con forza la porta.

***

Johnson udì il rumore dei passi sui gradini sopra di lui e corse più velocemente, scendendo al volo le scale. Era lui? Era Max che lo inseguiva, abbastanza vicino da raggiungerlo e da prenderlo? nella fretta scivolò e per poco non batté la testa sui gradini. Riprese l’equilibrio, ma aveva perso terreno e i passi erano quasi sopra di lui. Corse giù, oltre il primo piano, diretto all’interrato dell’ospedale. Il panico crebbe con l’avvicinarsi dei passi che lo seguivano e quasi urlò quando una mano lo toccò sul braccio.
“Attento, papà.” brontolò una voce profonda, mentre un giovane interno lo superava e continuava la sua corsa verso il piano interrato.
“Dannazione!” imprecò Johnson e si appoggiò alla parete, tremando. Aveva il respiro grosso, per lo sforzo e per la paura. Si tenne stretto al corrimano, certo che se non l’avesse fatto, sarebbe caduto per terra. Fece dei profondi respiri, cercando di calmare i suoi nervi a pezzi , poi con le gambe che ancora tremavano, continuò la discesa verso il livello più basso. Spinse una porta e passò attraverso l’obitorio per raggiungere l’uscita. Poi avrebbe girato verso l’area di parcheggio e, all’inferno, sarebbe stato fuori di lì.

***

Max si fermò nel vano della porta, guardando prima su e poi giù. Che direzione aveva preso? Probabilmente giù. Ma se Johnson si fosse accorto che lo stava seguendo e fosse salito per tentare di sfuggirgli? Fare la scelta sbagliata significava perdere Ellie. Sentì il rumore di una porta che si chiudeva provenire da sotto e reagì velocemente. Corse giù per le scale e prese l’uscita per il primo piano.
La porta sbatté contro la parete e Max infilò il corridoio, guardando a destra e a sinistra in cerca di Johnson. L’ingresso era affollato e Max si fece largo tra dottori e infermiere, pazienti e visitatori. Sentì il panico impadronirsi di lui e si fermò al centro della sala, continuando a cercare, ma senza vedere alcun segno di lui.
Carl sentì una confusione alle sue spalle e si girò per vedere Max nell’atrio. I suoi capelli erano scompigliati e i suoi occhi avevano un’espressione violenta che non gli aveva mai visto prima. I loro sguardi si incrociarono e allora Max corse verso di lui, tentando di non appoggiarsi sulla gamba che quasi lo faceva urlare dal dolore.
“Lo hai visto? Lo hai visto passare da qui?” gridò Max , con i polmoni che reclamavano aria.
“No.” gli rispose Carl “Che diavolo è successo?”
“MALEDETTO!” ruggì Max, incurante di chi poteva sentirlo. Si passale mani tra i capelli, poi ricominciò a correre nella direzione da cui era venuto. Johnson doveva aver fatto un’altra strada, pensò Max nel panico. Dannazione! Aveva perso tempo prezioso. Il suo ginocchio si era irrigidito e il suo fianco lo stava uccidendo. C’era troppa gente intorno a lui per guarirsi e non c’era abbastanza tempo. Max corse in fondo all’ingresso ignorando il dolore e Carl gli corse dietro.
Arrivò dove il corridoio formava una T e guardò in entrambe le direzioni. Il respiro cominciava a mancargli, sia per lo sforzo fisico che per il fatto che stava perdendo il controllo delle sue emozioni. Non sentiva le domande che Carl gli stava facendo mentre gli correva dietro. poteva sentire solo lo scorrere del sangue che premeva nelle vene. Si voltò a sinistra, poi a destra, poi ancora alle sue spalle, guardando nella direzione da cui era venuto. Non c’era traccia di Johnson.
Si portò le mani sulla testa e si piegò su se stesso. Come poteva essere successo? Come aveva fatto a lasciarsi sfuggire quel bastardo? Si appoggiò alla parete, dondolando avanti e indietro per l’agitazione, incurante della gente che lo stava osservando.
“L’ho perso.” invocò, con le mani sulla faccia. “Santo Dio, l’ho perso.”
“Max …” cominciò a dire Carl e allungò una mano per toccargli la spalla. Max si scostò dalla parete e poi si voltò, completamente smarrito.
“Dannazione!” urlò, e per la frustrazione diede un pugno contro la parete cui si era appoggiato poco prima. Johnson se ne era andato e con lui la possibilità di riavere Ellie. “MALEDETTO FIGLIO DI PUTTANA!” gridò Max, dando un altro pugno alla parete.
Carl lo guardava scioccato. Non aveva mai visto in Max un livello di violenza come questo. Guardò il buco che aveva appena fatto sulla parete e fu certo di aver udito il chiaro rumore, non solo di intonaco che andava in pezzi, ma anche di ossa che si rompevano. Lui era stato un pugile per molti anni e conosceva bene quel suono.
Il dolore si allargava nella sua mano e Max la sventolò nell’aria prima di proteggerla sotto il braccio. I suoi occhi tormentati incontrarono quelli di Carl e spostò il suo sguardo. Si era giocato le sue possibilità ed aveva lasciato scappare Johnson. Gesù, ora cosa dovevano fare? Il dolore nella mano era lancinante, ma non era nulla rispetto al quello che aveva nel cuore.
Carl afferrò Max per avambraccio e lo trascinò per pochi passi, fino al bagno degli uomini. Max incespicava accanto a lui, cercando di non muovere le sue dita rotte. Carl lo spinse nel bagno e quando furono dentro lo fece girare e gli chiese irosamente “Cosa diavolo è successo?”
Carl vide che le nocche della mano destra di Max cominciavano a diventare bianche e capì che per un po’ di tempo Max non avrebbe potuto disegnare. Max gli voltò le spalle e si guardò intorno. Vide un uomo anziano finire di lavarsi le mani e quando questi uscì, lui e Carl rimasero soli nel bagno. Dando ancora le spalle a Carl, Max posò la sua mano sana su quella rotta e una lieve luminosità comparve mentre rimetteva insieme le ossa rotte e riparava la pelle strappata.
“Cosa diavolo è successo?” ripeté Carl insistentemente, quando Max non rispose.
Lui si girò a guardare il suo capo, con le spalle curve. “Un inserviente mi ha detto di aver visto Johnson prendere le scale, così gli sono corso dietro. Voglio dire, lui era proprio lì. L’uomo mi ha detto di averlo visto scendere solo un minuto prima. Io l’ho anche sentito, per la scala. O almeno, credo di averlo sentito. Dannazione. Forse non era lui. Dio, non lo so.” La sua voce si ruppe per l’emozione e si sentiva così teso da essere pronto per esplodere.
“Hai sentito niente di quello che ti ho detto prima, Max? Hai sentito la parte dove ti ho detto osservalo, seguilo? Ho detto qualche volta ‘corrigli dietro’ ?” Carl vide il modo in cui le sue spalle si incurvavano ancora di più e si addolcì. “Lasciami vedere la tua mano.”
“La mia mano sta bene.” mormorò Max, sconfitto e si allontanò da Carl.
“La tua mano non sta affatto be …” disse Carl afferrando il suo polso e portandolo verso di sé. Le parole gli morirono in bocca quando vide la pelle liscia e perfettamente normale che copriva le nocche di Max. Come poteva essere? Aveva sentito chiaramente il rumore delle ossa che si rompevano. Aveva visto le escoriazioni appena un paio di minuti prima. Ora non c’era alcuna traccia delle ferite. Guardò la mano di Max e disse “Che diavolo?”
“Te l’ho detto che stava bene.” disse Max, tirando via la mano. Camminò nervosamente per la stanza, mettendosi le dita tra i capelli e dicendo “E adesso? L’ho perso. Era qui e se ne è andato e non so se riuscirò più a rivederlo.” Lo sguardo ossessionato di Max incontrò quello di Carl. “ti ricordi di prima, quando ho detto che l’Arizona non aveva giurisdizione nel caso e non volevo che tu mi aiutassi? Ho cambiato idea. Ho bisogno di tutto l’aiuto che puoi darmi. Voglio che tu mi aiuti a trovare mia figlia, prima di diventare pazzo.”
“Lo faremo, Max. La troveremo.” promise Carl.
“Come?” implorò Max. “”Come ci riusciremo?”
Aveva perso la speranza di rivedere ancora Ellie.

Capitolo 59

Max e Carl trascorsero l’ora successiva passando al setaccio l’ospedale. Max sapeva che era inutile, ma doveva approfittare di tutte le possibilità che aveva. Chris e Tully, gli altri due membri dell’unità, erano arrivati e stavano visionando i nastri del circuito di sicurezza. Carl aveva dato loro una copia del disegno di Johnson, e li aveva incaricati di controllare i nastri delle ultime due settimane. Magari una telecamera aveva fissato qualcosa che poteva tornare utile.
“Io torno al quarto piano.” disse Max a Carl quando si incontrarono ancora nell’ingresso principale. “Voglio controllare la sua area di lavoro ed il suo armadietto. So che probabilmente sarà inutile. Sono sicuro che non abbiamo tralasciato niente, quando abbiamo controllato, ma voglio comunque dare un’altra occhiata.”
“Un doppio controllo non fa mai male.” disse Carl dimostrandosi d’accordo. “Dobbiamo ancora parlare con qualcuna delle persone con cui lavorava. Farò la lista delle persone che dovremo interrogare.” Tornarono verso gli ascensori e Carl notò che Max zoppicava dalla gamba destra. “Qual è il problema? Cosa hai fatto alla gamba?”
“Prima sono caduto.” disse Max tentando di ignorare il dolore. Il suo ginocchio pulsava ferocemente ed era sicuro che sarebbe andato peggio. Il suo fianco non andava tanto male, ma sapeva che si stava formando un bel livido. Avrebbe dovuto guarirlo prima di tornare a casa, così Liz non l’avrebbe visto e non avrebbe sospettato niente di insolito, ma doveva avere il tempo per farlo. Forse più tardi, quando non ci fosse stato nessuno intorno. “Ho battuto il ginocchio, tutto qui. Andrà meglio se ci camminerò sopra.”
Carl annuì, ma sospettò che ci fosse di più che un ginocchio battuto. Poteva vedere il dolore sulla faccia di Max ogni volta che appoggiava il peso sulla gamba destra e si vedeva il gonfiore del ginocchio da sotto i jeans. “Forse dovresti farlo controllare. Il Pronto Soccorso è proprio in fondo alla stanza.” suggerì Carl.
“Starà bene. Lascia perdere.” Max si girò verso Carl, rimpiangendo il tono aspro che aveva usato. Max non poteva andare al Pronto Soccorso per nessun motivo, ma Carl non poteva saperlo. Già aveva corso un bel rischio prima, quando aveva guarito la mano con Carl nella stessa stanza. Quanto aveva visto realmente? “Sul serio, Carl, non ti devi preoccupare. Tra un po’ starò bene!”
Si fermarono di fronte agli ascensori e Max premette il bottone per il quarto piano. Carl guardò ancora la sua mano, quella mano che era certo Max si fosse rotto dando un pugno alla parete, in un eccesso di rabbia. Aveva veramente sentito il rumore delle ossa che si spezzavano e visto la pelle rotta sulle nocche? Guardando ora la sua mano, la pelle era liscia, senza alcun segno di gonfiore e decisamente non ferita. Eppure avrebbe giurato di aver visto formarsi una sgradevole ammaccatura. Doveva essere stata quella luce che aveva colpito la sua mano. Eppure …
Le porte si aprirono e i due uomini entrarono, facendo in silenzio la salita fino al quarto piano. Carl mostrò il suo tesserino all’infermiera che era al bancone e furono accompagnati allo spogliatoio dei medici. Carl prese il taccuino dal taschino della giacca del suo vestito grigio e cominciò a prendere appunti mentre Max si avvicinava all’armadietto che portava il nome di Robertson scritto sulla targhetta.
Fissò l’odiato nome, poi allungò una mano e lo toccò con la punta delle dita. La visione gli mostrò il dottore che applicava il nome sullo sportello il primo giorno di lavoro, più di due anni prima. L’immagine comparve velocemente e sparì. Max scosse la testa per liberare la sua mente e lasciò che la sua mano si spostasse sul chiavistello. Lo alzò ed aprì l’armadietto, mentre un’altra immagine lo colpiva. La sua testa cominciò a girare e dovette appoggiare la mano per sorreggersi.
Le scene scorrevano davanti ai suoi occhi e Max rimase senza respiro quando vide il viso di Ellie. Johnson aveva usato quell’armadietto per oltre due anni e immagini della sua vita, residui dei suoi pensieri e delle sue sensazioni, vi erano rimaste impresse. Max vide Ellie, minuscola ed avvolta in una coperta, con Johnson che la cullava avanti e indietro per farla addormentare. Questa immagine fu seguita da un’ altra di Ellie che trotterellava per la prima volta, tenendosi stretta alla mano di Johnson. Ne seguì un’altra, ed un’altra, tutte immagini di momenti della vita che Johnson aveva diviso con Ellie. Momenti della sua vita che Max non avrebbe mai avuto.
Carl sentì un lamento traversare la stanza e distolse gli occhi dal taccuino per vedere Max che stava di fronte all’armadietto. Aveva gli occhi chiusi ed il corpo attirato da una forza sconosciuta. Max stava per avere una crisi? Era epilettico? Avrebbe dovuto chiamare un dottore?
Altre immagini attraversarono il suo cervello e, con loro, le emozioni che le accompagnavano. Ellie da piccola che schizzava felicemente l’acqua del suo bagnetto. Ellie seduta ad un tavolo, con una matita più grande di lei ed un album da colorare, che cercava di non uscire dalle linee dei disegni. Ellie che cercava di infilare le dita tra le sbarre di una gabbia per riuscire ad accarezzare un porcellino d’India. Ellie che giocava con un cavallo alato. Ellie che dormiva tranquilla, con un sorriso sul suo bel visino.
Carl traversò la stanza e poggiò una mano sulla spalla tremante di Max, chiedendo preoccupato “Max? Stai bene?”
Max si scosse dalla sua visione e si focalizzò su Carl, dicendo improvvisamente “Lui la chiama Jenny!”
“Cosa?” chiese Carl confuso. Di cosa diavolo stava parlando?
“Johnson la chiama Jenny.” Max stava ancora valutando tutte le sensazioni ricevute dalla visione. Johnson trattava Ellie come una figlia. La piccola dormiva in un letto normale e mangiava cibo normale, seduta ad un normale tavolo da cucina. Tra tutta l’agitazione di quel giorno, provò sollievo nel sapere che Johnson non la teneva chiusa da qualche parte in una gabbia.
“Ellie?” lo interrogò Carl. Johnson chiamava Ellie con nome di Jenny? E come diavolo faceva Max a saperlo?
Max fissò Carl, rendendosi immediatamente conto di aver detto più di quello che avrebbe dovuto. Aveva parlato prima di avere il tempo di realizzare quello che stava dicendo. La sua bocca si mosse, ma le parole rifiutavano di uscire. Non sapeva cosa dire.
“Come fai a sapere che Johnson la chiama Jenny?” gli chiese Carl accigliato. Guardò la faccia di Max, decisamente a disagio, e i pezzi del mosaico cominciarono ad andare a posto.
I disegni di Max erano sempre così incredibilmente accurati. Basando quei disegni sulle descrizioni di bambini così piccoli, non era possibile che fossero così precisi e dettagliati. I ritratti di Ellie che la mostravano come era ora, anche se lui non l’aveva più vista dal giorno che era nata.
Carl lo guardò con una crescente percezione e disse “Max, tu sei … tu sei un chiaroveggente?”
Max ricambiò lo sguardo ed una sensazione di sollievo sciolse la sua tensione. Lasciare che Carl pensasse che era un chiaroveggente o che avesse percezioni extrasensoriali era decisamente più accettabile che confessargli di essere un alieno.
“Qualcosa del genere.” disse Max in risposta alla sua domanda e fissò la faccia di Carl per controllarne le reazioni.
Carl socchiuse gli occhi e disse piano “Oh Santo Spirito!”

***

Max entrò in casa e chiuse piano la porta dietro di lui, con la speranza di non disturbare Liz, nel caso in cui fosse già addormentata. Era tardi e quando prima l’aveva chiamata, le aveva detto di non aspettarlo alzata.
Dopo aver esaurito tutte le ricerche all’ospedale, Max aveva telefonato a Daniel, raccontandogli tutto quello che era successo. Daniel aveva esitato quando Max lo aveva informato del suo proposito di includere Carl nelle ricerche di Ellie, ma dopo aver sentito la tensione e l’angoscia nella sua voce, Daniel si era addolcito ed aveva accettato di aggiornare Carl sul punto in cui stavano le loro investigazioni, escludendo gli aspetti alieni inclusi nella ricerca. Avevano trascorso l’intera serata con Daniel e Josh, valutando le loro possibilità e tentando di stabilire il prossimo passo.
Max posò la giacca sulla spalliera del divano e vi si gettò accanto, distrutto dalla stanchezza procurata dagli avvenimenti di quella giornata. Si strinse la base del naso tra le dita e chiuse gli occhi, ma non poteva dimenticare quello che era successo. Era così vicino …
Liz aveva lasciata accesa la luce del soggiorno e quando vi passò accanto, allungò una mano per spegnere l’interruttore. Le sue dita si bloccarono, quando vide il ritratto di Ellie sopra la mensola. Aveva fallito nei suoi confronti, ancora una volta. Come era possibile essere stato così vicino a trovarla, con Johnson proprio sotto al suo naso per tutto il tempo, ed essersela ancora lasciata sfuggire dalle mani? Il dolore nel suo cuore crebbe a dismisura, mentre guardava la sua immagine annebbiata. Sentì che Liz lo chiamava dalla stanza da letto e sbatté rapidamente gli occhi, cercando di schiarirsi la vista.
“Max?” Liz l’aveva sentito entrare già da qualche minuto e si chiese cosa stesse facendo. Era così silenzioso. Cominciò a spostare la coperta, quando vide la sua sagoma apparire all’improvviso nel vano della porta. Capì che qualcosa non andava, già dal suo atteggiamento. “Cosa è successo?”
“Niente.” mentì Max. Non poteva dirglielo. L’avrebbe distrutta sapere quanto erano andato vicino alla fine di quell’incubo, solo per ricadervi dentro di nuovo.
“C’è qualcosa che non va. Lo sento.” Liz cercò di raggiungere la lampada così da poter vedere la sua faccia, quando Max si sedette sul bordo del letto, vicino a lei. La fioca luce che proveniva dal soggiorno illuminava la faccia preoccupata di Liz, e lui le accarezzò la fronte.
“E’ solo per il caso che abbiamo trattato oggi.” mentì ancora Max. “Mi dispiace che mi abbia tenuto per tanto tempo fuori casa.” le sue dita le accarezzarono i capelli, per poi scendere lungo le spalle e le braccia, fino ad arrivare alle sue mani. La sensazione della sua pelle calda gli dava un po’ di conforto, ma questa notte non gli bastava.
“Vieni a letto, Max.” gli disse dolcemente. “Mi sembri così stanco.”
“Lo sono.” Le fece un sorriso senza entusiasmo, ma non riusciva a fare di meglio. “Mi faccio prima una doccia. Torna a dormire. Cercherò di non disturbarti quando verrò a letto.”
Lo vide dirigersi verso il bagno, notando il modo in cui si muoveva, il modo in cui curvava le spalle curve e trascinava i piedi . “Sei sicuro di star bene?”
Max si fermò nel vano della porta e si girò verso di lei. “si.” le rispose dolcemente. “Adesso che sono a casa. Con te.”
Liz lo vide chiudere la porta del bagno e tornò a sdraiarsi sul letto. Era da tanto tempo che non lo vedeva in quello stato. Da quei primi giorni, quando erano tornati a casa … senza Ellie.
Max si levò la camicia e la lasciò cadere sul pavimento. Si tolse le scarpe e i calzini e si sfilò i pantaloni abbandonandoli sulla cesta della biancheria sporca. Afferrò la sua immagine riflessa nello specchio sopra il lavandino e distolse lo sguardo, incapace di guardarsi in faccia. si infilò nella doccia ed aprì al massimo il getto, lasciando che l’acqua calda gli scendesse sulla pelle. Prese il sapone e si strofinò la faccia, cercando di spazzare via i ricordi di quella giornata, ma non funzionò. Era stato così vicino a prendere Johnson, a trovare Ellie, a riportarla a casa da Liz.
Era tutto quello che chiedeva, avere Ellie a casa e Liz e Matthew in buona salute e tutti loro al sicuro. Il viso di Ellie gli comparve davanti, con i grandi occhi innocenti che lo guardavano come faceva sempre, come se si fidasse di lui e credesse in lui. Ma non era degno della sua fiducia. Non era degno del suo amore.
L’acqua gli perforava la faccia e Max si chinò in avanti, appoggiando le mani contro la parete della doccia e lasciando che l’acqua gli colpisse le spalle gli cadesse lungo la schiena. Appoggiò la testa sulle braccia tese e vide l’acqua defluire dallo scarico ma lui non riusciva a scappare dai suoi pensieri. La sua vista si offuscò e le sue spalle cominciarono a tremare, mentre la sua falsa facciata cominciava a sgretolarsi. Aveva faticato tutto il giorno per avere il controllo sulle sue emozioni, per non lasciare che il mondo sapesse quello che stava provando, ma ora non ce la faceva più.
“Ellie!” sussurrò singhiozzando. “Oh Dio, Ellie …” Si appoggiò con la schiena alla parete della doccia e si coprì il viso con le mani, cercando di ricacciare indietro i singhiozzi per non farsi sentire da Liz. Tutto lo stress e la tensione della giornata gli crollarono addosso e Max scivolò lungo la parete fino a trovarsi seduto sul pavimento della doccia, un uomo tremante e distrutto, dondolandosi avanti e indietro sotto il getto dell’acqua che si mischiava alle lacrime sul suo viso. Si coprì la faccia con le mani e con un senso di profonda angoscia disse sottovoce “Mi dispiace tanto, Ellie. Oh Dio, quanto mi dispiace …”

***

Liz si svegliò con una sensazione sgradevole e non ci mise molto a capire perché. Max non era nel letto accanto a lei. Aveva passato molto tempo sotto la doccia la sera prima, tanto come non aveva mai fatto prima, e quando finalmente era venuto a letto, era stato così chiuso. L’aveva stretta a sé teneramente, come faceva sempre, ma quella sera c’era qualcosa di differente. Liz poteva sentire l’invisibile parete che si era costruito intorno, chiudendola fuori per qualche motivo. Lo aveva lasciato fare, sapendo che quando fosse stato pronto ne avrebbe parlato.
Poi si era addormentata tra le sue braccia calde e ora, in sua assenza, sentiva freddo. Scostò la coperta e si alzò dal letto, senza fare rumore. Si infilò la vestaglia ed uscì dalla stanza da letto, imboccando il corridoio. Fu sorpresa di vedere il soggiorno al buio e si chiese dove fosse finito Max, quando i suoi occhi si adattarono all’oscurità e vide che era lì.
Era semplicemente seduto lì. Al buio. Da solo.
“Max?” lo chiamò dolcemente e lo vide alzare la testa e guardare nella sua direzione. Liz spinse l’interruttore accanto a lei e gli occhi di Max si strinsero, colpiti dalla luce improvvisa. Doveva essere seduto lì al buio già da parecchio tempo. Era sul divano, chino in avanti, con le mani tra le ginocchia e i gomiti poggiati sulle gambe. Indossava i jeans, cosa che la sorprese molto, mentre il torace ed i piedi erano nudi. Era notte fonda. Perché aveva cominciato a vestirsi? Liz attraversò lentamente la stanza e si fermò di fronte a lui. Allungò una mano e gli spostò i capelli dagli occhi, dicendogli “Dimmi che cosa ti preoccupa.”
La mano di Max le prese la sua e se la portò alle labbra, baciandola delicatamente, prima di attirare Liz tra le sue gambe, e guardandola negli occhi le disse “Ma tu lo sai quanto ti amo?” E le strinse forte la mano.
Gli occhi di Max si spostarono sulla sua pancia, la sua mano la carezzò e in quel momento sentì il suo bambino che si muoveva sotto la pelle di lei, allungandosi per ricambiare il suo tocco. “E Matthew? Tu lo sai quanto vi amo tutti e due?”
Liz si sedette sulle sue cosce e gli prese il viso tra le mani. Sembrava così smarrito, così triste e sconvolto e lei non sapeva cosa fare per aiutare la sua mente turbata. La mano di Max le accarezzava la pancia e lei sentì Matthew muoversi dentro di lei, seguendo i movimenti del padre.
“Io morirei se succedesse qualcosa a te, o a Matthew, o …” o a Ellie, finì silenziosamente Max.
“Max, non ci succederà niente.” disse Liz, tentando di rassicurarlo. “Io sto bene. Matthew sta bene. Matthew starà bene. E per quanto riguarda Ellie, non dobbiamo smettere di credere che lei , un giorno, sarà di nuovo con noi.”
Max chiuse gli occhi quando Liz fece il nome di Ellie ed annuì per farle capire che era d’accordo con lei, ma non riusciva a parlare. Stettero in silenzio, mentre Liz gli passava le dita tra i capelli, cercando di fargli capire di essergli vicina in qualsiasi cosa stesse attraversando.
“Stasera ti manca Ellie.” disse Liz rompendo il silenzio. Lo sentì irrigidirsi improvvisamente e, per un momento, uno sguardo ferito apparve nei suoi occhi. “Max?” le disse preoccupata.
“Non riesco a dormire.” disse svelto Max, per giustificare la sua reazione. A dire la verità, non era capace di guardare Ellie in faccia. La sua mente si rifiutava di lasciarlo andare nel mondo dei sogni, sapendo come l’aveva delusa.
Se fosse andata bene, Ellie ora sarebbe stata a casa con loro, stanotte, al sicuro tra le loro braccia. ma non era successo, ed era colpa sua.
Liz lo baciò dolcemente sulla fronte, poi appoggiò la sua guancia contro quella di lui. “Lascia andare, per questa notte.” gli disse. “Qualsiasi cosa sia, lascia andare. Vieni a letto e riposati. Forse, domani, le cose ti sembreranno migliori.” I loro sguardi si incontrarono e Liz si alzò in piedi, tirandosi dietro Max. Gli prese la mano e tornarono a letto. Max si sentì confortato alla sola idea di averla accanto.
Si sfilò i jeans e li lasciò cadere sul pavimento, non avendo nemmeno la forza per metterli a posto. Si infilò tra le lenzuola e Liz si unì a lui. Era sdraiata sulla schiena e lo attirò a se, abbracciandolo, tenendolo stretto in modo che il suo amore lo avvolgesse. Max si aggrappò a lei, poggiandole la testa sul petto, e Liz gli passò la sua mano sulla la guancia e tra i capelli, cercando di rassicurarlo. Il corpo di Max aderì al suo e la sua mano si poggiò sulla sua pancia, avvertendo la connessione con entrambi, madre e figlio. Dopo un po’, Liz avvertì che il corpo di lui cominciava a rilassarsi. E proprio poco prima che, alla fine, lui si addormentasse, sentì una prima lacrima e poi una seconda scendere da un angolo dei suoi occhi e caderle nel solco tra i seni.

***

Gli occhi di Max si mossero da un lato all’altro, sotto le palpebre ed il suo respiro cambio ritmo. Borbottava qualche parola, intercalata da un pianto che segnalava il suo dolore, e la sua testa si spostava in continuazione, mimando le azioni del suo sogno. Alzò le braccia, poi le fece ricadere sul letto e le sue gambe si mossero tra le lenzuola, mentre nel sogno correva e correva e correva …

Corse attraverso un’altra porta e poi si fermò all’improvviso, quando la visionagli comparve davanti. Lei era distesa su un tavolo, con i capelli neri che le circondavano il viso. La sua pelle era pallida, troppo pallida, ed un braccio era scivolato oltre il bordo del tavolo. Dondolava lentamente, con le dita che additavano il pavimento. Dita che erano immobili e che non si sarebbero mosse mai più. Il verde lenzuolo della sala operatoria stava diventando scuro per una macchia cremisi e l’odore ramato del sangue era sospeso nell’aria. Era un odore nauseante, che toglieva il respiro e faceva salire la bile nella gola.
Un rumore penetrò nelle sue orecchie, un suono insistente e ricorrente, e i suoi occhi tornarono a guardare la mano. Una goccia scivolò dalla punta delle dita e cadde lentamente, seguita da un’altra, e da un’altra, ed ogni goccia si andava ad aggiungere al piccolo laghetto rosso sul pavimento. Un lago di sangue. I suoi occhi atterriti guardarono il volto amato. I suoi occhi color cioccolata, le sue labbra tenere, le sue guance così pallide nella morte. Non era Liz, ma qualcuno molto simile a lei. Così piccola. Cos’ dolce. Così innocente. Oh, Dio. Non lei. Ti prego, Dio …


“NOOOOOOOO …” Max gridò, uscendo dal suo sogno.
Si sedette sul letto, tremando come una foglia colpita dalla tempesta. L’orrore del sogno minacciava di soffocarlo e si sentì sommergere dal panico, finché la mano di Liz non toccò il suo braccio. Calda. Morbida. Viva. La sua corda di salvataggio verso la realtà. Si girò verso di lei e, anche nel buio della notte, riuscì a vederla chiaramente. “Liz …”
“Max?” gli disse piano. “Cosa c’è?”
Lui la guardò, vedendo lo sconcerto nei suoi occhi, e cercò di far rallentare i battiti del cuore ed il ritmo del respiro, ormai trasformato in ansito. Aprì la bocca, cercando di calmare il fremito della sua voce, mentre diceva “Un sogno. Solo un brutto sogno.”
Ed era solo un sogno. Niente di più. Sapeva che le sue paure avevano invaso la sua mente addormentata e avevano scatenato un incubo su quello che lo terrorizzava di più. Era destinato ad arrivare sempre troppo tardi?
Le braccia di Liz lo circondarono e Max si lasciò andare contro la spalla di lei. Poteva sentirlo tremare e quando la abbracciò, lo fece in un modo disperato. Il sogno si frantumò e si dissolse e la sua paura fece un passo indietro. Non era vero, ricordò a se stesso. Non era vero. Non era successo ad Ellie.
Liz gli parlò dolcemente e lo sentì rilassarsi. Lo fece distendere e lo tenne stretto fino a che si addormentò di nuovo.

***

Aspirò profondamente, con il naso sepolto tra la sua capigliatura di seta. Il suo corpo aderiva a quello di lei e il delicato alzarsi e abbassarsi del suo petto indicava che lei stava ancora dormendo. La sua mano scivolò contro la calda pelle del braccio di Liz, ricordandogli quanto fosse viva e reale. Le toccò la mano e lasciò che la punta delle sue dita si intrecciassero con quelle di lei per un momento, prima di posarle sul suo seno. Il sottile tessuto della sua camicia da notte gli sembrava morbidissimo. gli sembrava adatto. Lei gli sembrava adatta. Sentì i suoi capezzoli diventare rigidi e lei si stiracchiò leggermente nel sonno.
La mano scivolò dal seno alla sua pancia dilatata. La sua camicia da notte era tesa nella parte centrale e la sua mano sentì la nuova vita che vi prosperava dentro. Suo figlio era vivo, e sano, e al sicuro. Attraverso il legame che li univa, Max lo sentiva dormire tranquillo. Nuotava nell’utero della mamma, difeso dal corpo che lo nutriva.
La mano scivolò lungo la coscia e prese il lembo della camicia da notte. Lo tirò in alto, scoprendole la pancia, e posò la mano sulla pelle calda che copriva Matthew. Il contatto era rilassante e lui chiuse gli occhi cercando sollievo per la sua psiche torturata, ma non fu sufficiente. Pensando al pericolo che minacciava Matthew solo a causa della sua eredità faceva crescere la sua agitazione.
La sua mano corse più in alto, per ricoprire il seno che aveva accarezzato pochi minuti prima. Il corpo di Liz rispondeva al suo tocco e lui sentì crescere la sua virilità. I suoi sensi acuiti potevano sentire il profumo dello shampoo nei suoi capelli e della lozione che lei usava per mantenere morbida ed elastica la sua pelle. Premette forte contro la sua schiena ed appoggiò la fronte alle sue spalle, sperando di svegliarla.
Il suo desiderio di starle vicino si intensificò e voleva sentire il contatto ella sua pelle contro la propria. Spostò la mano dal suo seno e si tolse i pantaloncini, Poi premette ancora contro le sue forme addormentate. Il suo braccio le circondò i fianchi e la attirò ancora una volta contro il proprio corpo, ormai eccitato. La sua mente cercava l’aiuto che solo lei poteva dargli e, spinto da un desiderio intenso, che non poteva più gestire, mormorò “Liz …”
Sapeva che stava dormendo e che il desiderio cresciuto nel suo corpo sarebbe rimasto senza risposta. Aveva cercato di rilassarsi, ma la tensione rimaneva così alta da farlo tremare. Improvvisamente sentì la mano di Liz prendergli la sua e portarsela alle labbra.
“Liz,” le sussurrò penosamente nell’orecchio. “Ho bisogno di te.”
Lei avvertì il suo senso di disperazione, un’aura che non gli aveva mai sentito prima. Per quanto sveglio sentisse il corpo di Max contro il suo, sapeva che non era la soddisfazione sessuale che lui cercava. Il suo bisogno era molto più profondo, dettato dal tumulto scatenato dentro di lui e che lei non riusciva a capire. Lui non voleva dividerlo con lei. Tutto quello che poteva fare per lui era procurargli qualsiasi conforto cercasse, sperando si poter portare sollievo alla sua mente turbata.
Nel buio che precedeva l’alba, Max la sentì fargli regalo del suo corpo. Gli riappoggiò la mano sul seno e lui rispose immediatamente, spostando una coscia tra le sue gambe e sollevandone una. Si avvicinò a lei da dietro, senza nessuna delle solite tenerezze o carezze affettuose. Il corpo di Max tremava ancora, mentre si infilava dentro di lei. Non c’era seduzione nei suoi movimenti, i suoi gesti non erano affettuosi. Stava cercando di nascondersi dentro di lei, scappando via da qualsiasi demone lo stesse tormentando.
Poggiò la testa sulle sue spalle, mentre si muoveva dentro di lei con una sensazione di crescente disperazione. I suoi movimenti erano veloci e Liz capì che aveva dimenticato tutto, tranne il sollievo che stava cercando. Il suo braccio le circondava il fianco e la teneva stretta contro di lui, tenendo sotto controllo il suo corpo mentre esercitava il suo dominio. Il suo sesso la riempiva e i suoi movimenti erano frenetici come non lo erano mai stati prima di allora. Il suo torace era premuto contro la sua schiena e lei avvertì tutta le tensione presente nei suoi muscoli. Poteva sentire il calore del suo respiro sulla pelle e i suoi denti che le scivolavano sulla spalla, senza morderla ma premendole forte la pelle.
Un forte gemito uscì dalla bocca di Max ed il suo corpo rabbrividì violentemente. I suoi fianchi premettero contro di lei, come se volesse entrare tutto dentro di lei e la tenne stretta contro di sé, come non aveva mai fatto prima. Liz lo sentì tremare ancora e capì che quale che fosse il sollievo che aveva cercato, non l’aveva trovato. La mano di lui le percorse il fianco e si posò sul suo seno, stringendola come se avesse paura di perderla per sempre.
“Mi dispiace.” le sussurrò all’orecchio con voce desolata. Le sue labbra le baciarono la pelle dove i denti l’avevano premuta un momento prima e lei avvertì il suo rimorso. Max si tirò fuori da lei, vergognandosi di averla presa in quel modo e le sussurrò, con la bocca appoggiata alla sua nuca, “Mi dispiace, Liz.”
Da quando erano insieme, Max era sempre stato un amante gentile e pieno di attenzioni, che pensava sempre a Liz, cercando di darle piacere e soddisfacendo le sue necessità prima delle proprie. Anche nei loro più selvaggi, più caldi incontri, il suo amore per lei si era manifestato nel suo modo di fare l’amore. In quello che aveva appena fatto, aveva agito da insensibile ed egoista. Aveva cercato di rifugiarsi nel conforto del suo corpo per scappare ai suoi tormentosi pensieri e il risultato era che ora si sentiva ancora più colpevole, per averla usata in quel modo.
Si staccò da lei e si girò sulla schiena, fissando il soffitto, ma senza vederlo. Aveva la pelle bollente, ma si sentiva freddo dentro. Freddo e solo. Non poteva dividere il suo dolore con Liz. Non voleva farle sapere quando era stato vicino a trovare Ellie, quel giorno, solo per perderla di nuovo.
Sentì il materasso spostarsi e la mano di Liz poggiarsi sul suo petto, scivolando morbida sulla sua pelle sudata. Si avvicinò a lui, premendo il suo corpo contro il fianco di Max. Gli diede un bacio sulla spalla e poi gli disse dolcemente “Ti amo, Max. Ti amo tanto!”
Max chiuse gli occhi, una parte di lui sentendosi indegna del suo amore ed un’altra parte sapendo che lei era l’unico motivo per cui non era ancora impazzito. Il suo braccio destro le circondò le spalle e la sua mano sinistra si infilò tra i suoi capelli, tenendola vicino e sentendo che la sua disperazione cominciava a diminuire. La mano di lei si sollevò dal suo petto, gli accarezzò la gola e il mento fino a raggiungere la sua guancia. Liz alzò la testa e, mentre lei si muoveva, lui sentì le rigide punte del suo seno strofinarsi contro di lui, separate solo dal sottile tessuto della sua camicia da notte. Nella luce fioca la faccia di lei lo sovrastava e le sue labbra toccarono delicatamente quelle di lui.
“Hai un’idea di come mi fai sentire quando mi guardi?” Gli disse staccando le labbra dalle sue e guardandolo in faccia. “Amo il modo in cui i tuoi occhi guardano i miei. Amo il suono della tua voce e come dici il mio nome. Amo il modo in cui canti nella doccia e borbotti nel sonno. Amo il tuo odore e come il tuo profumo rimane sospeso nell’aria, dopo che te ne sei andato. Amo il sapore della tua pelle e delle tue labbra e come fai cantare il mio cuore quando mi baci.
Amo il fatto che tu riempi la stanza di Matthew con animaletti di peluche e le pareti della nostra casa con i disegni di Ellie. Amo il fatto che tu mi porti fiori senza un particolare motivo e quando mi telefoni a metà mattina solo per dirmi che stai pensando a me. Amo ascoltare il suono del tuo respiro a notte fonda, quando dormi, e amo il modo in cui mi guardi quando apro gli occhi, la mattina. Amo tutto di te, Max.” gli disse, asciugando una lacrima che era uscita dall’angolo dell’occhio di lui mentre gli parlava. “Tu significhi tutto, per me.”
La disperazione che aveva sentito poco prima si era ritirata nel più profondo recesso della sua mente mentre ascoltava le sue parole e trovava il conforto che aveva cercato. Le cose che gli aveva detto e il modo in cui le aveva dette, avevano riempito il vuoto che si era sentito dentro. Il suo amore e la sua forza erano quello che lo sostenevano e facevano di lui un uomo migliore. Il suo cuore era gonfio dell’amore che provava per lei e le lacrime che erano scese dai suoi occhi erano lacrime di gioia per l’amore che lei gli dava.
Le loro labbra si trovarono nel buio e Max ritrovò l’equilibrio che aveva perso. Liz lo toccò, lo accarezzò, si collegò a lui come non aveva mai fatto prima. Fece l’amore con lui con un’intimità che lo riportò indietro dallo scuro posto dove era stato per riportarlo nel mondo della vita. E alla fine, abbracciati l’uno all’altra, Max fu capace di dormire serenamente per tutto il resto della notte.

Capitolo 60

Max controllò il vassoio due volte, per essere sicuro che ci fosse tutto. Uova strapazzate con sopra una spolverata di ceddar, proprio come piacevano a lei. Grande quantità di frutta fresca: melone invernale e cantalupo, ananas e fragole, e una ciotola di dadini di pere sciroppate. Ci aveva messo anche qualche fetta di bacon, perché profumava così tanto!, e naturalmente pane tostato con abbondante marmellata di fragole. Mise anche, sul vassoio, un bicchiere di latte; afferrò un paio di tovaglioli e prese il tutto, uscendo dalla cucina.
Si fermò davanti alla porta della camera da letto e la guardò per un minuto, mentre dormiva con la guancia appoggiata sulla mano. Quello che lei aveva detto la notte scorsa, quando gli aveva detto quanto l’amava, l’aveva riportato indietro dall’orlo dell’abisso. Fino a che aveva l’amore di Liz, lui poteva sopravvivere a qualsiasi cosa.
Traversò la stanza, poggiò il vassoio sul comodino e si sedette sul lato del letto vicino a lei. Con le dita le spostò i capelli dalla faccia e le sorrise quando la vide aprire gli occhi. “Buon giorno, dormigliona.”
“Buon giorno.” gli rispose e si stiracchiò. La sua mano si allungò e si poggiò sul petto di lui. “Ti senti meglio questa mattina?” gli chiese.
“Si.” rispose Max e si chinò a baciarla. Le sue labbra erano morbide e calde, e quando si separarono lui le poggiò la fronte contro la sua e le disse “Ti ho portato la colazione.”
“Sei un marito perfetto!” gli disse sorridendo. Si mise a sedere e lui le poggiò sopra il vassoio, attento a non versare niente. La mano di Liz coprì la sua e lei gli disse dolcemente “Sei così buono con me, Max.”
“E’ perché ti amo così tanto.” rispose strofinando il naso contro il suo orecchio.
Le dita di lei passarono tra i suoi capelli e gli disse a bassa voce “Sono la ragazza più fortunata del mondo.”
“Mangia la tua colazione.” gli sorrise incantevolmente. Lui la amava più della sua stessa vita e quando lei gli diceva cose come queste, lui si ricordava che era lui l’unico ad essere fortunato. La sua mano le carezzò il pancione e le disse “Devi mangiare per due.”
“In questo piatto ce ne è abbastanza per un esercito. Mi aiuti a mangiarlo?”
“No.” rispose lui e le rubò una fetta di bacon. “Devo andare via subito. Carl mi sta aspettando.”
“E’ per il nuovo caso cui state lavorando?” chiese Liz e gli strinse la mano.
Lui la guardò meravigliato, sopraffatto dalla compassione che leggeva sul viso di lei. Lei non aveva idea che il caso a cui stavano lavorando era quello di Ellie. Come avrebbe reagito se l’avesse saputo? Si sarebbe sentita così sconvolta da danneggiare se stessa e il bambino? Non poteva correre il rischio. Doveva proteggere lei e Matthew.
Max annuì e disse “Si, stiamo lavorando ad un nuovo caso.”
“Dovresti mangiare, prima di uscire.”
“Mi sono mangiato mezza scatola di ciambelle avanzate da ieri.” disse Max con un sorriso. “Non morirò di fame.”
“Tu e le tue ciambelle!” rise Liz. “Io non riesco a capire come fai ad sempre così magro. Non è giusto!”
“Cosa vuoi che ti dica?” disse Max con uno scintillio negli occhi. “Deve essere il mio metabolismo alieno. E’ meglio così, perché non so resistere alle ciambelle. Proprio come non so resistere a te.” Si chinò per darle un lungo bacio e poi, riluttante, disse “Devo andare.”
Si alzò dal letto e Liz lo guardò preoccupata. Era così attraente con la camicia verde scuro, la cravatta intonata e i pantaloni neri che gli aderivano perfettamente, ma c’era qualcosa di fuori posto in lui. Nascosta nella profondità dei suoi occhi lei poteva ancora vedere la tristezza di quello che l’aveva torturato la scorsa notte. Quando lui si girò per andarsene, lei si allungò e gli afferrò una mano, dicendogli “Stai veramente bene, Max?”
La mano di lui le strinse e per un attimo, prima che fosse in grado di nasconderla, il suo viso rivelò l’angoscia che aveva attraversato il giorno prima. “Non ti preoccupare per me. Io sto bene. Ora mangia la tua colazione prima che si raffreddi.” le accarezzò ancora una volta la pancia e i suoi occhi si spalancarono quando suo figlio fece una capriola. Lui sorrise raggiante e disse “Vedi, anche Matthew è affamato!”
Max rubò un’altra fetta di bacon dal piatto e tornò verso la porta, fermandosi per guardarla di nuovo e promise solennemente di riunirla ad Ellie. Anche se avesse dovuto morire per farlo, un giorno avrebbe riportato Ellie a casa, da lei.

***

Max entrò nell’Unità e vide che Carl era già arrivato. Era occupato e i passi di Max vacillarono quando vide una nuova immagine sulla lavagna.
La faccia di Ellie lo guardava dal centro della tabella, con sotto la foto di Johnson. Sotto l’immagine, a grandi lettere, c’erano le informazioni che lui conosceva a memoria, ma che gli procurarono comunque uno choc nel vedere scritte in quel modo.

Ellie Elizabeth Evans.
Data di nascita: 17 ottobre 2000
Data della scomparsa: 17 ottobre 2000
Ultima posizione conosciuta: vicinanze di Roswell, New Mexico

Max si immobilizzò, fissando il disegno di Ellie che aveva dato ieri a Carl. Era un ritratto recente, uno che aveva fatto lo scorso fine settimana e che non aveva ancora mostrato nemmeno a Liz. Gli occhi di Ellie brillavano di allegria e i suoi capelli scuri incorniciavano il visetto sorridente.
“Bene, sono contento che sei arrivato.” disse Carl stando in piedi dietro la sua scrivania, mentre cercava qualcosa in una pila di scartoffie.
Non sentendo nessuna risposta, alzò lo sguardo verso Max che fissava ipnotizzato la tabella. Ripensò a quel giorno di gennaio, quando era entrato nell’ufficio ed aveva visto Max per la prima volta. Anche quel giorno stava davanti alla tabella, guardandola proprio come adesso, e ora Carl si spiegava perché. Gli si stringeva il cuore a vederlo in quello stato.
Chris e Tully entrarono nella stanza, turbolenti come al solito, con l’uomo più alto che colpiva con un pugno il braccio dell’amico. Tully, che era alto 1 metro e 95, stava rendendo la vita difficile a Chris per le sue attività fuori dalle ore di lavoro. Tomas Tollefson, abbreviato in Tully, discendente da una solida stirpe svedese, era sposato e aveva quattro bambini che andavano dai due ai dodici anni. Era l’incarnazione del padre di famiglia, con tanto di minivan parcheggiato nel vialetto e di cane nel cortile sul retro.
Chris Palmer, d’altro canto, era libero da legami e non coinvolto sentimentalmente. A 25 anni, era di 10 anni più giovane di Tully e il più famoso scapolo del distretto. I due erano un o l’opposto dell’altro, come di più non si poteva.
La capigliatura castana di Tully cominciava lentamente a retrocedere e i suoi occhi nocciola riflettevano l’esperienza dei suoi anni. Chris, da parte sua, aveva una folta zazzera bionda e stupefacenti occhi blu. Diceva che erano la sua calamita per le ragazze. Tully era alto e dinoccolato, Chris era basso e di fisico muscoloso. Tully amava andare a casa, dopo il lavoro, per riposarsi e trascorreva i fine settimana lavorando in giardino o uscendo con la sua famiglia. Chris trascorreva il suo tempo libero in palestra, lavorando sul suo corpo, che definiva ‘un dono di Dio per le ragazze’, o raccogliendo ragazze per provare che era vero. Entrambi pensavano che la loro vita era perfetta. Erano, inoltre, una coppia ideale: ognuno di loro completava perfettamente lo stile dell’altro.
“Dovresti pensare a farti la ragazza, oh, non so, dandole un secondo appuntamento prima di piantarla. facci un pensiero!” disse Tully scuotendo la testa.
“Perché? Un secondo appuntamento porta ad un terzo e, magari ad un quarto e la volta successiva, lo sai, lei comincia a parlare di matrimonio e di casette in periferia.” rispose Chris con una smorfia.
Il suo braccio si posò fraternamente sulla spalla di Max e gli disse “Chi ha bisogno di questo, vero Max?”
Max lo guardò arcuando le sopracciglia e poi alzò la mano, mettendo la sua fede davanti alla faccia di Chris. “Stai cercando appoggio dalla persona sbagliata, Chris.” disse Max spensieratamente, contento per la distrazione. Vedere Ellie sulla tabella era stato uno choc per lui e minacciava di riportarlo nel posto scuro dove era stato il giorno prima.
“Dimmi una sola ragione per cui dovrei arrendermi ad un legame con una sola donna.” domandò Chris.
“Certo!” disse Tully dopo averci pensato su. “Avresti una donna nel letto tutte le sere.”
“Ce l’ho.” sorrise Chris “Ma la mia è una donna differente tutte le sere.”
“Okay.” disse Tully riflettendoci.” Non dovresti preoccuparti di tirare indietro la pancia quando esci dalla doccia.”
Chris si diede una pacca sui duri muscoli addominali “Non ho problemi.”
Max sorrise allo scambio di battute tra i due. Facevano sempre così, uno esaltava le virtù del matrimonio l’altro quelle della vita da scapolo. Si chiese che parole di buon senso avrebbe trovato ancora Tully. Non dovette aspettare molto.
“lasciami pensare … “ disse Tully, passandosi una mano intorno al mento. “Puoi scorreggiare ‘ finché il tuo cuore è soddisfatto’.” E per sottolineare il suo concetto lasciò partire un peto. Max fece fatica a contenere una risata e Chris, che sfortunatamente era vicino a Tully, cominciò a sventolarsi la mano sotto il naso.
“Gesù, Tully! Cosa ti dà da mangiare tua moglie?” Si girò verso Max e disse “Ci crederesti che la migliore ragione che ha portato per giustificare un matrimonio e che ‘Puoi scoreggiare ‘ finché il tuo cuore è soddisfatto’?”
“Anche questo è un punto di vista.” disse Max schierandosi dalla parte di Tully.
“Mio Dio, siete tutti frustrati.” disse Chris scuotendo la testa.
“Ehi, non includere me nelle tue generalizzazioni.” si intromise Carl. “Io non sono frustrato.”
“Carl,” disse Chris roteando gli occhi. “il tuo ultimo appuntamento l’hai dato ad una statua. Il tuo solo problema è trovarti un appuntamento!”
“Okay, gente! Abbiamo del lavoro da fare.” disse Carl, decidendo di cambiare il soggetto della conversazione. Tully si mise a sedere alla scrivania e Chris vi si appollaiò sopra, con le braccia conserte. Max era in piedi con lo sguardo ancora rivolto all’immagine di Ellie sulla tabella.
“Chris, hai trovato nulla sui nastri?” chiese Carl riferendosi alle registrazioni delle telecamere della sicurezza che gli aveva detto di controllare.
“Abbiamo scoperto che Johnson ha lasciato l’ospedale attraverso il piano interrato, passando per l’obitorio. E’ possibile che la sua macchina fosse parcheggiata nell’area bassa riservata al personale, ma la camera che la sorvegliava non funzionava.” Si alzò in piedi e prese un nastro da una busta che stava sulla scrivania di Tully. Si avvicinò al videoregistratore nell’angolo della stanza ed inserì il nastro. Un momento dopo, sullo schermo apparve un corridoio dell’ospedale. Chris premette il tasto ‘svelto’ e consultò i suoi appunti prima di fermarsi ad un punto ben preciso. Max era teso e sentì un brivido corrergli per la schiena quando la faccia familiare di Johnson apparve sullo schermo. Non era cambiato molto. Qualche capello in meno, forse, e poteva essere ingrassato un po’. Tranne questo, era ancora l’uomo che aveva portato via sua figlia quella notte dell’ ottobre di due anni e mezzo prima. Non riusciva a staccare gli occhi dallo schermo.
“L’immagine è molto sgranata.” continuò Chris “ così è difficile intuire la sua espressione. Non si può dire se era agitato, come se sapesse che tu eri dietro di lui, oppure se se ne stesse andando per i fatti suoi. Se lo sapeva, potrebbe essersi nascosto; se non sapeva che eravamo a conoscenza della sua presenza, ci sarebbero delle possibilità di trovarlo.”
“Probabilmente dovremmo far circolare delle foto di Ellie tra il personale medico dei laboratori e degli ospedali in tutta l’area di Phoenix.” suggerì Tully “Nel caso che abbia portato la bambina per qualche visita di controllo.”
“No, non farebbe nessuna differenza.” disse Max continuando a guardare le immagini di Johnson sullo schermo.” Il metabolismo alieno di Ellie non l’avrebbe fatta ammalare ma, naturalmente, loro non potevano saperlo. “Johnson l’avrebbe curata lui stesso. L’ha tenuta nascosta fin da quando è nata. Non correrebbe mai il rischio di metterla in mostra.”
“Si, probabilmente hai ragione.” fu d’accordo Chris.
“Sarà meglio mettere in circolazione la foto di Johnson.” continuò Max. “Ha lasciato il Maryvale, ma cercherà lavoro in un altro ospedale o in una clinica. Diavolo, potrebbe essere alla ricerca di un laboratorio da qualche parte.” Il suo laboratorio privato, si chiese Max? O stava per lasciare la zona, portandosi dietro Ellie?
“E’ solo una tua ipotesi personale?” chiese Carl e Max sentì il suo sguardo che lo perforava. Non avevano ancora avuto una reale opportunità di parlare della ‘chiaroveggenza’ di Max e Carl non vedeva l’ora di farlo. Max si sentiva molto più a suo agio pensando che nessuno avrebbe più potuto farlo a pezzi.
“Certamente.” disse in fretta Max. “Noi non possiamo sapere quali siano in realtà i suoi piani.”
“Bene, fino ad ora, è molto di più quello che non sappiamo, rispetto a quello che sappiamo. Johnson ha lasciato il suo impiego al Maryvale e ora non sappiamo dove lavora. Potrebbe avere un altro impiego in zona, ma non lo sappiamo per certo. Siamo ragionevolmente sicuri che Ellie sia con lui, m,a ancora una volta non ne abbiamo le prove. Abbiamo una sola cosa sicura, al momento. Una casella postale. L’indirizzo che aveva lasciato all’Ufficio del personale era falso, altrettanto dicasi per quello sulla patente. Usa mezzi sofisticati per coprire la sua vera identità, qualcuno che paga profumatamente: questo fatto da solo ci dà delle opportunità. Ci sono pochi posti dove procurarsi documenti di identità falsificati. Max ed io andremo a controllare alla direzione postale, questa mattina. Chris e Tully, voi due tornerete al maryvale. Ci sono diverse persone che lavoravano con Johnson che debbono ancora essere interrogate. Sbrighiamoci. Il tempo è prezioso.”

***

Max aprì la porta d’ingresso ed entrò in casa, cercando di fare meno rumore possibile. La casa era silenziosa e le luci erano abbassate e pensò che Liz aveva ascoltato il suo consiglio e non lo aveva aspettato. La ricerca di Ellie gli aveva fatto fare tardi ancora una volta, ma ancora non erano vicini alla loro meta. Chris e Tully erano tornati dall’ospedale senza nessuna novità e la ricerca alle poste non aveva dato risultati. Lui cercava di essere ottimista, ma qualche volta gli risultava difficile.
Camminò per la casa, controllando le porte e le finestre, per essere sicuro che fossero chiuse. Mentre passava dalla cucina vide i piatti nel lavandino, i resti di una cena solitaria, e si sentì in colpa per non essere stato lì con lei per due sere di seguito. Aveva cercato di convincerla ad invitare Annie, per farle compagnia finché lui non fosse rincasato. Per la sua tranquillità, preferiva non saperla sola, ma lei aveva insistito che stava bene e non aveva bisogno di una babysitter. Max sapeva che lei non comprendeva la paura che lui provava per la sua sicurezza.
Ma lei non sapeva della presenza di Johnson e Max sentiva crescere la sua paranoia. Cosa sarebbe successo se Johnson avesse saputo che loro vivevano a Phoenix? E se lui e i suoi compari avessero saputo che Liz era incinta? Sarebbero venuti a prenderla? Avrebbero tentato di prendere Matthew, strappandolo dal suo corpo come avevano fatto con Ellie? Il solo pensiero lo faceva rabbrividire.
Lasciò la cucina e si diresse in corridoio, notando che le luci della stanza da letto erano ancora accese. Forse, dopo tutto, ancora non si era addormentata. “Liz?” disse, rompendo il silenzio nella casa. “Liz? sei sveglia?” Entrò nella stanza ed il suo sguardo cadde sopra il letto. Dove si era aspettato di vedere la sua forma addormentata vide il liscio, teso copriletto.
“Liz?” chiamò a voce più alta e si diresse verso il bagno, sentendo il terrore che cominciava ad impossessarsi di lui. Un’occhiata bastò a fargli capire che lei non era nemmeno lì. “LIZ?” gridò, tornando in camera da letto. Aprì la porta del guardaroba, sapendo che non poteva essere lì, ma provando ugualmente. Sbatté la porta e corse nel soggiorno in preda al panico. “LIZ!” gridò ancora.
Gesù, urlava la sua mente. Liz era sparita. L’avevano portata via. Avevano scoperto dove viveva ed erano venuti a prenderla e lui non era lì per proteggerla. Oh, mio Dio …
“Liz!” gridò ancora, col cuore che gli stava scoppiando nel petto. Si portò una mano alla bocca per trattenere un grido di angoscia mentre il suo sguardo perlustrava la stanza, cercando qualche traccia di lotta. Tutto sembrava in ordine. Non c’era niente sottosopra. Cosa doveva fare? Chiamare Daniel e far venire la sua gente? Chiamare Carl e dirgli del rapimento? Se avesse coinvolto la polizia, probabilmente sarebbero venuti a prendere impronte digitali e forse campioni di DNA. Sarebbe bastato un follicolo dei suoi capelli per rivelare che era un alieno. ma era importante? C’era in ballo la vita di Liz.
Si passò le mani tremanti nei capelli e si guardò intorno come un pazzo, alla ricerca di un telefono. Dove dannazione si era cacciato, urlava la sua mente. Il suo panico crebbe, mentre cercava il telefono portatile. La base di ricarica sul tavolo vicino al divano era vuota e non riusciva a vedere il telefono. Perché quella dannata cosa spariva sempre quando gli serviva? La sua paura era palpabile, mentre tirava via i cuscini ai mobili. Si inginocchiò davanti al divano e le sue mani cercarono tra le fessure mentre le sua mente continuava ad urlare ‘telefono, telefono, dove diavolo era il telefono?’.
Non avendo trovato niente, si alzò in piedi, con il cuore che gli martellava nel petto e le mani che gli tremavano. La cucina, pensò. C’era un telefono in cucina. Sentì un rumore alle sue spalle e si girò, pronto a battersi contro qualsiasi intruso fosse ancora in casa. “Oh, Dio!” disse e sentì le gambe diventare gelatina.
“Max?” disse Liz con aria assonnata. Aveva gli occhi mezzi chiusi per la luce e stava fuori dalla porta della stanza di Matthew. In una mano aveva il telefono portatile e con l’altra meno si copriva la bocca, mentre sbadigliava. Si diresse verso il soggiorno, vide l’aspetto agitato di Max e i cuscini sparsi per tutta la stanza e disse “Qual è il problema?”
Max percorse il corridoio con le gambe che gli tremavano e la prese tra le braccia, tenendola stretta e sussurrandole “Grazie Dio. Grazie Dio, stai bene.” Quasi la stritolava e la sua mano s’infilò tra i capelli di lei, mentre tentava, senza successo, di rallentare i battiti del suo cuore.
“Max, cosa è successo? Mi stai spaventando.” Il suo corpo tremava ancora e la teneva così stretta che riusciva a respirare a malapena.
“Mi dispiace.” disse Max, allentando il suo abbraccio. “Mi dispiace.” passò le dita tra i suoi capelli, per calmare i nervi e, tentando di riprendere il controllo della propria voce, le disse “Non riuscivo a trovarti e … e ho pensato che ti fosse successo qualcosa.” La strinse ancora e premette le labbra contro la sua fronte.
“Mi sono addormentata sulla sedia a dondolo in camera di Matthew.” gli spiegò Liz, cercando di calmarlo. “Lui mi stava parlando e io volevo mostrargli il mobile che ho comprato oggi per metterlo sopra la sua culla.” Posò la mano sul petto di lui e si accigliò sentendo come gli batteva il cuore.
Max sfilò la mano dai suoi capelli e le accarezzò la guancia, poi la gola e le spalle, toccandola per rassicurarsi che lei era proprio lì, che stava bene e che non le era successo nulla di male. Fece scivolare la mano sulla pancia, lasciando che i suoi occhi ne seguissero i movimenti mentre amorevolmente toccava lei e la preziosa vita che le cresceva dentro. Matthew si muoveva sotto la sua mano e lui ne percepì l’agitazione. Attraverso la connessione, Matthew poteva sentire la tensione di suo padre e la confusione di sua madre.
“Va tutto bene, ora.” disse Max, sforzando se stesso a calmarsi. “Va tutto bene.” la baciò ancora una volta sulla fronte e poi la portò via dal soggiorno e dalle prove evidenti del suo panico di poco prima. La mano di Liz scivolò intorno alla sua vita e camminarono abbracciati fino in camera. Lei si sedette sul bordo del letto e lo guardò mentre con movimenti rigidi, si preparava per andare a dormire e notò che si voltava a guardarla in continuazione, come per accertarsi che lei fosse ancora lì. Non fece nemmeno la sua solita doccia, si limitò a togliersi i pantaloni e la camicia e a lasciarli ammucchiati sul pavimento.
Liz si rannicchiò accanto a lui e si sistemarono insieme sul letto e le braccia di Max la avvolsero in modo protettivo. Il sonno venne lentamente per lui, mentre prendeva in considerazione l’idea di rimandarla a casa, a Roswell, per la sua sicurezza. Lì avrebbe avuto persone che potevano controllarla, prendersi cura di lei, accertandosi che non le succedesse nulla. Qualche volta lui non poteva. Sentì il cuore spezzarsi al pensiero della separazione, ma era l’unica soluzione che era riuscito ad ideare per evitare che il passato si ripetesse. La guardò dormire tranquillamente accanto a lui, e i suoi occhi si riempirono di lacrime non versate. Già gli mancava.

Continua...

Scritta da Debbi aka Breathless
Traduzione italiana con il permesso dell'autrice dall'originale in inglese
a cura di Sirio, con la collaborazione di Coccy85


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