Roswell.it - Fanfiction

UNA NUOVA VITA


Riassunto: Questa è la storia di un’adozione molto particolare...

Data di stesura: dal 23 agosto al 21 ottobre 2003

Valutazione: adatto a tutti.

Diritti: Tutti i diritti dei personaggi appartengono alla WB e alla UPN, e il racconto è di proprietà del sito Roswell.it.

E-mail: ellis@roswellit.zzn.com


L’improvvisa percezione di qualcosa di nuovo, di diverso, funzionò da relais per il suo cervello. Un poco alla volta segnali bioelettrici cominciarono a trasmettere i loro messaggi e il sistema nervoso assorbì avido quelle istruzioni. Un senso di torpido dolore si diffuse all’interno dei polmoni quando, gradualmente, al liquido finora in essi contenuto si sostituì un composto gassoso. La sensazione durò solo pochi attimi, poi fu come se il liquido nutritivo non fosse mai esistito. Le narici inalarono automaticamente l’aria, il sangue divenne più fluido ed il cuore prese a battere ad un ritmo accelerato. Man mano che la sostanza in cui era rimasto immerso per un tempo immemorabile si addensava trasformandosi in una gelatina trasparente, divenne consapevole del suo corpo. Poi avvertì un altro cambiamento: al buio silenzio ovattato che lo cullava si stava sostituendo una pallida luminescenza, che lo incuriosì e spaventò allo stesso tempo. Di colpo aprì gli occhi e comprese il perché di quel chiarore. Proveniva dallo spazio che lo circondava, uno spazio ristretto che lo racchiudeva come un guscio protettivo. Rimase a lungo immobile, prendendo lentamente il controllo delle sue funzioni vitali, finché la gelatina si ridusse ad un semplice strato dallo spessore irregolare che lo copriva da capo a piedi. Allora, con una certa esitazione, tese un braccio in avanti, poi l’altro, e con la punta delle dita sfiorò il materiale che lo imprigionava. Era tiepido, morbido eppure resistente. Obbedendo ad un impulso spinse con forza e aprì uno squarcio. Afferrò i lembi tirando ancora di più fino a quando riuscì a mettere fuori la testa, poi il busto, ed infine si ritrovò all’aperto. Fece un lento giro su se stesso osservando con attenzione ogni cosa, poi tornò a guardare la parete in cui erano incastonati i bozzoli. Ne rimaneva ancora uno, chiuso. Si avvicinò e scrutò il visetto circondato da una massa di riccioli biondi chiaramente visibile attraverso la membrana translucida. Attese per un poco ma non successe nulla, così s’incamminò verso lo stretto tunnel la cui imboccatura si trovava proprio davanti a lui ed uscì dalla caverna. C’era una immensa distesa desolata, rischiarata dalla luce argentea della luna piena che brillava bassa all’orizzonte, e su tutto un velo nero disseminato di puntini luminosi. Rimase per qualche istante immobile, disorientato, poi avvertì un richiamo mentale e cominciò a camminare con cautela finché trovò qualcuno. Qualcuno che riconobbe dal profondo del suo essere, e lentamente gli si accostò. Si guardarono negli occhi per lunghi istanti prima di riprendere ad avanzare cercando ancora. Finalmente lo trovarono e tesero una mano per invitarlo ad unirsi a loro, ma proprio in quel momento un forte rombo ruppe il silenzio della notte e apparvero due sottili lame di luce dorata.
Colta da un inspiegabile senso di panico la terza creatura fece un passo indietro. Non dovevano andare verso quella luce, dovevano restare nel buio! Dovevano allontanarsi, trovare un riparo e aspettare che la luce sparisse! Cercò di spiegarlo ai suoi compagni, si concentrò con tutte le sue forze per convincerli a seguirla, poi, visto inutile ogni tentativo, fuggì via.
Gli altri due la guardarono sparire nel nulla avvertendo un profondo senso di perdita, poi si presero per mano come a volersi fare coraggio l’uno con l’altro e ripresero a camminare in direzione della luce.
Quando furono abbastanza vicini alla sorgente del rumore e delle lame luminose sulla loro pelle non vi era più traccia di gelatina, e ciò che gli occupanti della macchina si trovarono davanti furono un bambino ed una bambina nudi che si tenevano per mano, un’espressione smarrita negli occhi.

Joe e Clara Steamboldt erano un’anziana coppia originaria dell’Oregon. Non molto tempo prima si erano trasferiti nel Texas, e quel giorno avevano deciso di recarsi a Roswell per far visita ad alcuni amici. Non essendo pratici della zona avevano finito con lo sbagliare strada e si erano ritrovati a percorrere un sentiero accidentato privo di segnaletica. Dopo l’ennesima sosta per studiare la cartina stradale avevano deciso di proseguire nella speranza di reimmettersi, prima o poi, sulla statale.
- Giuro che non prenderò mai più scorciatoie, in questo dannato deserto! - brontolò l’uomo riuscendo per un pelo a schivare un’enorme buca.
- Veramente mi sembra che ci siano un sacco di alberi... - fu il pacato commento della moglie.
- Già, e anche con la luna piena non riesco a vedere un accidenti! -
Clara Steamboldt scrollò le spalle. - A me pare che laggiù il percorso si allarghi... -
- Sarebbe anche ora! -
Lei sorrise. Conosceva fin troppo bene i suoi modi bruschi, ma sapeva anche che era un uomo abbastanza ragionevole e così decise di rimanere in silenzio finché si fosse calmato.
- Ehi, ma che diavolo...! - Joe frenò di colpo e rimase a fissare sbigottito i due bambini.
- Oh mio dio... Cosa ci fanno a quest’ora di notte, da soli, nel bosco? - Clara si chinò in avanti, preoccupata. - Guarda! Non hanno niente addosso! Poverini, chissà cosa gli è capitato?! - Fece per precipitarsi fuori dalla macchina ma il marito la prese per il braccio bloccandola. - Aspetta! Magari è tutta una montatura! Forse là fuori c’è qualcuno che sta aspettando proprio che noi usciamo per aggredirci e rubarci l’auto! -
- Sì, certo, e chissà da quanto tempo stanno lì, in attesa che qualche imbranato come noi prenda la deviazione sbagliata e arrivi proprio quaggiù! Non essere sciocco, Joe! Quei bambini devono essere rimasti vittima di un incidente e hanno bisogno di aiuto! Avanti, fammi scendere! -
L’uomo esitò ancora per qualche secondo poi annuì. - D’accordo, ma vado io: tu rimani qui, mi hai capito? Non si sa mai... -
- Ok. - concesse lei.
- Bene - Joe Steamboldt serrò le labbra e finalmente si decise ad aprire lo sportello. In quel momento i due bambini si volsero a fissare qualcosa dietro di loro e lui s’immobilizzò, sospettoso. Cercò di vedere se ci fossero altre persone, protette dall’oscurità, ma non vide nessuno. Allora, un po’ più tranquillo, scese e si avvicinò guardingo.
I due bambini non si mossero, continuando a fissarlo come ipnotizzati.
- Ciao... - disse piano, sforzandosi di usare un tono amichevole. Non ottenne alcuna reazione così tese la mano verso di loro. - Non voglio farvi del male... - mormorò nel vederli irrigidirsi ed arretrare di un passo. Accennò un sorriso prima di muovere lentamente il braccio in avanti fino a toccare con delicatezza la spalla del maschietto. - Venite, vi porto al sicuro! E’ molto tardi e comincia a far freddo: non potete restare qui da soli... - Li guardò entrambi negli occhi, cercando un qualche segno di reazione che non arrivò. Allora raddrizzò la schiena e si grattò pensieroso la nuca. - Ok, ragazzi, sapete cosa facciamo? Venite con noi fino a Roswell, sempre ammesso che riusciamo ad arrivarci, e domattina andiamo a fare due chiacchiere con lo sceriffo. Forse lui potrà aiutarvi a ritrovare i vostri genitori, eh? Che ne dite? - Il silenzio fu l’unica risposta che ottenne, così fece una spallucciata e prese i bambini per mano.
Nel vederli arrivare Clara si affrettò ad uscire dall’automobile per recuperare la coperta che tenevano sempre nel bagagliaio e vi avvolse i piccoli. - Poveri tesori, dovete essere proprio spaventati! Su, venite, salite a bordo, svelti... - Controllò che il plaid non scivolasse via poi aprì lo sportello posteriore e li aiutò ad entrare, dopodiché rivolse uno sguardo perplesso al marito. - Sembrano sotto choc - bisbigliò.
- Cerchiamo di arrivare a Roswell, e domani vedremo di chiarire la faccenda con lo sceriffo. Oramai è tardi, sono le dieci passate, e l’unica cosa che possiamo fare è ritrovare la strada, sperando che la città non disti molto. Non credo che Gregory e Francine si rifiuteranno di ospitarli per la notte... -
- No, non lo credo neanch’io. - La donna scosse il capo. - Fanno una tenerezza... Guardali, devono essere spaventati a morte! -
Joe si chinò verso il finestrino. I due bambini sedevano rigidi, quasi riluttanti a lasciare quel luogo. “Mah...” Riguadagnò il suo posto dietro il volante, allacciò la cintura e fece per mettere in moto. - Ehi, ragazzi, e voi? -
Incuriosita, Clara si volse e corrugò la fronte. Con un sospiro si contorse fino a raggiungere le cinture di dietro ed assicurarle intorno ai due bambini poi tornò a sedere compostamente, sempre più preoccupata. Adesso possiamo andare... - disse piano.
Cercando di evitare per quanto possibile ogni sobbalzo Steamboldt riprese la strada e meno di mezz’ora dopo, con sua grande sorpresa, trovò l’incrocio con la statale. - Ci siamo quasi! - esclamò soddisfatto.
Percorrere di nuovo il nastro asfaltato contribuì ad attenuare la tensione e la signora Steamboldt si voltò sorridendo. - Tra poco potrete mangiare qualcosa di caldo, fare un bel bagno e dormire nel letto più comodo che possiate immaginare! - disse, aspettando con segreta ansia un qualche accenno di risposta ma i bambini si limitarono a restituirle uno sguardo blandamente incuriosito.
Sospirando rassegnata la donna lanciò un’occhiata dubbiosa al marito poi, leggendo il cartello che indicava che mancavano solo dieci miglia per arrivare a Roswell, si ravviò i capelli e si abbandonò contro lo schienale. Era stata una giornata davvero lunga e anche lei desiderava mangiare un boccone e infilarsi sotto le lenzuola!
Joe le diede una leggera pacca sul ginocchio. - Coraggio... - mormorò senza distogliere l’attenzione dalla strada, quasi le avesse letto nel pensiero.
Quando finalmente raggiunsero la loro meta erano passate da poco le undici e Gregory li accolse ridendo bonario. Venite, venite! Sarete stanchi morti! Avete sbagliato strada, vero? -
- Non ne parliamo, ti prego! Volevo provare a fare una scorciatoia, e ci siamo ritrovati in mezzo al nulla! - Joe scrollò con filosofia una spalla. - Domani andrò come prima cosa a comprare uno di quei telefoni portatili. Anzi, sarà la seconda. Prima di tutto dovrò andare dallo sceriffo... - E davanti all’espressione sconcertata dell’amico fece un gesto col mento ad indicare i piccoli che, in silenzio, se ne stavano quieti accanto a Clara.
- Oh santo cielo! - Indietreggiò di scatto per lasciar entrare tutti quanti poi diede una voce alla moglie, che si affrettò a raggiungerlo e nel vedere i bambini sgranò gli occhi. - E voi chi siete?! -
- Li abbiamo trovati lungo la strada. Credo siano rimasti vittima di qualche incidente, anche se non sono feriti e non abbiamo visto macchine ribaltate o cose del genere... Magari avranno camminato per miglia e miglia, prima che li incontrassimo... -
- Beh, andiamo in cucina: vi ho tenuto la cena in caldo, e ce n’è a sufficienza per tutti! - La donna li precedette fino alla grande stanza dalle pareti arredate da una incredibile quantità di pensili e piani di lavoro, con al centro un tavolo di legno massiccio e solide sedie impagliate. Era alta e magra, con lunghi capelli grigi annodati in una crocchia, e un’aria terribilmente efficiente. In pochi minuti apparecchiò e dispose una serie di piatti da portata da cui si levava un fantastico profumino.
Nel frattempo Gregory aveva preso un paio di morbide camicie di cotone e le aveva date a Clara perché le facesse indossare ai due bambini. - Purtroppo non ho niente di adatto, ma queste dovrebbero coprirli a sufficienza... -
- Certo, ti ringrazio! - La donna dovette faticare un poco per vestirli dal momento che avevano deciso di non collaborare, ma poi riuscì ad allacciare l’ultimo bottone e li fece sedere vicini prima di accomodarsi a sua volta. - Mm... ho già l’acquolina in bocca! Francine, sei davvero una cuoca straordinaria! - esclamò estasiata mentre l’amica distribuiva lo stufato di vitella con contorno di patate e pisellini dolci. Attese che ognuno fosse servito prima di cominciare a mangiare, ma dopo pochi bocconi si fermò con la forchetta a mezz’aria. - Avanti, su, è buono! - disse rivolgendosi ai piccoli, i quali non avevano fatto neppure il gesto di prendere una posata in mano.
- Non preoccuparti, ci penso io. Tu continua a mangiare prima che si raffreddi... - Francine prese una sedia e si inserì fra i due bambini. - Ok, avete deciso di fare i capricci, a quanto pare! Ma siccome sono certa che avete una fame da lupi, e mi dispiacerebbe davvero vedere sprecato tutto questo ben di dio, mi vedo costretta ad insistere. Mangiate almeno un pochino, poi potrete fare una doccia e andare a dormire, d’accordo? Ecco, vi do una mano - Così dicendo prese una forchetta e vi infilzò un pezzetto di carne che avvicinò alla bocca della femminuccia. - Prima le signore... - disse con tenerezza. Quella bambina aveva due occhi così belli...
Poiché lei non reagiva le prese il mento fra le dita e tirò piano verso il basso. Dai, fai un piccolo sforzo! - Continuò ad insistere finché la piccola cedette e il boccone di carne sparì oltre i candidi dentini.
Non successe altro.
Perplessa, Francine le diede un buffetto sotto il mento. - Brava, ma adesso devi staccarlo via dalla forchetta, masticarlo e poi inghiottirlo. Forza! -
La bambina continuò a fissarla senza apparentemente capire, poi con lo sguardo cercò il suo compagno e dopo alcuni secondi serrò le labbra lasciando che la carne si sfilasse dai rebbi mentre Francine tirava indietro la posata sorridendo contenta. - Ecco fatto! Hai visto com’è facile? - Si girò allora verso il maschietto e fece altrettanto. Questa volta non ebbe alcun problema a far mandare giù il boccone, tuttavia entrambi i bambini ne accettarono solamente tre o quattro prima di rifiutarsi con caparbietà di aprire ancora la bocca.
Decidendo di non insistere oltre Francine aspettò che Joe e Clara finissero di cenare dopodiché li fecero accomodare nella stanza degli ospiti. - Mi occupo io di lavare e mettere a dormire i piccoli. Voi andate a letto: sarete stravolti dalla stanchezza!... -
Joe si strinse nelle spalle senza obiettare, in effetti si sentiva esausto, tuttavia insisté per stendersi sul divano del soggiorno. - Per una notte posso stare lì, mentre i bambini dormiranno in un vero letto. Clara glielo ha promesso... - aggiunse dando un’affettuosa stretta alla spalla della moglie. - Vero, ma’? -
- Infatti. Però, Fran, questa volta voglio aiutarti! -
- Non se ne parla proprio! Tu va’ a farti un bel sonno: di loro ci prendiamo cura io e Greg. Buona notte! E sta’ tranquilla: faremo così piano che non te ne accorgerai neppure quando metteremo a letto questi bimbi!... -
- Ah, temo che neanche le cannonate mi sveglieranno, una volta che avrò posato la testa sul cuscino! A domani, allora, e grazie di tutto! -
- A domani -
Se far mangiare qualcosa a quei bambini era stata un’impresa, far loro la doccia si rivelò un’operazione impossibile. Non appena le prime gocce d’acqua gli bagnarono la pelle entrambi schizzarono fuori dalla cabina facendo quasi cadere Francine, inginocchiata lì accanto con una morbida spugna in una mano e un flacone di schiuma da bagno nell’altra, e non ci fu verso di farli tornare indietro. Sembravano angosciati, quasi spaventati, e la donna decise di lasciar perdere. Li asciugò tamponandoli gentilmente con un grande telo azzurro poi gli rinfilò le camicie e li prese per mano. - Forse è meglio andare a nanna, adesso... -
L’indomani mattina, quando aprì gli occhi, Clara Steamboldt trovò i piccoli in piedi accanto alla finestra, lo sguardo fisso su qualcosa che lei non poteva vedere. Per un attimo ebbe la stranissima impressione che desiderassero uscire, andar via, nonostante non ci fosse nulla là fuori se non qualche acro di terreno disseminato di rocce brulle e vegetazione inaridita dal caldo torrido dell’estate, e si sentì triste per loro. In punta di piedi per non spaventarli uscì dalla stanza e andò in soggiorno. Tese un braccio a scuotere piano la spalla del marito, ancora steso sul divano. - Joe, svegliati! Dobbiamo andare il prima possibile in città per parlare con lo sceriffo. Magari lui riuscirà a scoprire che fine hanno fatto i genitori di quelle povere creature... - mormorò.
L’uomo si agitò un poco, non ancora del tutto sveglio. - Sì, sì, certo... - bofonchiò, e con un certo sforzo si mise a sedere guardandosi intorno con le palpebre gonfie per il sonno. - Ho dormito malissimo... -
- Beh, anch’io, se è per questo. Non ho fatto che pensare ai bambini. Credo che abbiano passato buona parte della notte a guardare fuori della finestra: il letto è rimasto pressocché intatto... -
Con un sospiro Joe si alzò e andò a raggiungerli. - Come vi sentite? - Poi scosse la testa accennando un sorriso. - Perché il vostro silenzio non mi sorprende? Su, avanti, è ora di colazione! - Li prese per mano e li guidò fino in cucina mentre Clara li seguiva un po’ a fatica. La mattina era per lei il momento peggiore della giornata. Problemi di circolazione le rendevano sempre doloroso alzarsi dal letto, e certo il lungo viaggio da Fort Worth non aveva facilitato le cose...
Quando si ritrovarono seduti davanti ad una tazza di caffè bollente Gregory propose di andare tutti insieme a Roswell. - Conosco lo sceriffo da molti anni, è una gran brava persona, e sicuramente saprà cosa è meglio fare per voi, giovanotti... - aggiunse rivolgendosi direttamente ai suoi piccoli ospiti.
Anche stavolta non ci fu alcuna reazione da parte loro, e l’uomo guardò preoccupato sua moglie e poi gli Steamboldt. Quei bambini dovevano aver vissuto un’esperienza davvero traumatica!
Vedendo che non sembravano intenzionati a bere il latte che Francine aveva preparato per loro, Clara alzò gli occhi al cielo. - Ok, adesso filate in bagno a lavarvi, così poi andiamo in città. E pazienza per i vestiti... - Del resto, i tre nipoti della sua amica erano ormai adolescenti e l’unico paio di jeans che avevano dimenticato era davvero troppo grande!
- Lascia stare il bagno, è inutile! Avessi visto che scene, ieri sera... - Davanti alla sua espressione incuriosita la donna si strinse nelle spalle. - A quanto pare non amano l’acqua. Andate tu e Joe, a fare la doccia, mentre io riordino qui. Prendetevela comoda: lo sceriffo non arriva mai in ufficio prima delle dieci e mezza! -
In effetti quando vennero fatti accomodare nella piccola stanza ingombra di scaffali e schedari l’uomo aveva l’aria di chi si è appena svegliato, ciononostante ascoltò con grande attenzione il racconto degli amici di Gregory. Aveva dato un’occhiata breve ma acuta ai due bambini fermi accanto a Francine, in corridoio, ed era certo che non fossero del posto. Alla fine si passò entrambe le mani tra i radi capelli bianchi. - Non ci sono state denunce di incidenti stradali, finora, ma è trascorso troppo poco tempo... specialmente se è successo in un bosco isolato... Peccato che non siate in grado di essere più precisi: l’area che avete indicato è molto vasta e non sarà semplice esplorarla tutta... -
- Cosa ci consiglia di fare, allora? Quei bambini sembrano... sotto choc, anche se non sono feriti. Io non... non so come comportarmi con loro... - disse Clara sconsolata.
- Beh, per quello non ci sono problemi. C’è un centro di accoglienza, una specie di orfanotrofio, a dire la verità, e credo sia il luogo più adatto, almeno finché non saremo riusciti a scoprire qualcosa della loro famiglia. Se volete me ne occupo io... -
- Grazie, lei è molto gentile! Ma... possiamo venire anche noi? Le confesso che mi spiace un po’ l’idea di separarmi da loro... -
- Certo, lo capisco. Bene, allora andiamo! -
L’edificio che ospitava il centro era una vecchia palazzina di mattoni a due piani, con finestre alte e strette e un piccolo giardino dove l’erba stentava a crescere sotto i raggi spietati del sole. La direttrice era una donna dall’aria materna, il viso segnato dal tempo e gli occhi verdi messi in risalto da una massa di capelli scuri raccolti in un morbido nodo sulla nuca. A volte sentiva il peso di quel lavoro gravarle pesantemente sulle spalle, soprattutto quando si trovava davanti bambini maltrattati, feriti, terrorizzati, e allora si domandava se non fosse il caso di andarsene in pensione, di passare il suo fardello a qualcun altro, qualcuno più giovane e forte di lei. Ma non era facile trovare un sostituto adatto, e così continuava a prendersi cura delle fragili vite affidatele dal destino. E ora quei due bambini smarriti e confusi, sconvolti al punto di non riuscire a parlare... Annotò sull’apposita scheda le osservazioni degli Steamboldt e dei loro amici e pregò lo sceriffo di tenerla al corrente degli sviluppi delle indagini. Sorrise comprensiva nel vedere la tenerezza con cui le persone che avevano accompagnato i bimbi li abbracciarono prima di accomiatarsi.
- Spero che presto possiate rivedere i vostri genitori. Fate i bravi, mi raccomando... - Clara Steamboldt diede loro un bacio sulla fronte e si raddrizzò a malincuore. Non voleva lasciarli, le sembrava di abbandonarli, di tradirli. Si diede della sciocca. Aveva sessantacinque anni, e Joe stava per compierne sessantanove. Non avevano certo l’età per occuparsi di due bambini così piccoli, ma le sarebbe piaciuto molto... Con un sospiro li accarezzò sulla testa poi prese il marito sottobraccio e uscì dalla stanza. Per un folle attimo sperò che le corressero dietro, che le afferrassero le mani, che le chiedessero di portarli via con lei. Si volse per guardarli un’ultima volta e rimase sconcertata dall’espressione dei loro volti. Sembrava quasi che... non capissero. Che non avessero alcuna idea di quello che stava succedendo... Ma poi il bambino girò il visetto e per un attimo i loro occhi si incontrarono. In quelli nocciola di lui c’era una tale desolazione che rabbrividì e, di colpo, sentì il bisogno di andarsene. Di allontanarsi da tutte quelle cose strane che si erano susseguite da quando avevano deciso di lasciare l’interstatale perdendosi in un intrico di strade secondarie.
Lo sceriffo salutò ancora una volta la direttrice del centro ed uscì seguendo da presso gli Steamboldt e i Kearny. - Quanto vi trattenete qui a Roswell? -
- Una settimana, poi torneremo in Texas. Crede che riuscirà a scoprire qualcosa prima della nostra partenza? - chiese Joe.
- Beh, io e i miei uomini faremo del nostro meglio ma ritrovare l’auto dei loro genitori sarà un po’ come cercare un ago in un pagliaio... Comunque conosco Rose Marton da molti anni e posso assicurarvi che sa trattare con i bambini, anche con i più difficili. Vedrete, staranno bene con lei... -
- Lo spero. Santo cielo, sembravano così... così tristi... -
Clara guardò di sottecchi Francine. Sì, era vero, quei due bambini avevano l’aria triste, ma era normale con quello che avevano passato... Ritrovarsi soli nel deserto doveva essere stato terrificante, per non parlare poi del buio... Perfino lei si era sentita sopraffare dallo scoramento quando Joe aveva ammesso di essersi perduto... Ma... perché erano nudi? Che fine avevano fatto i loro vestiti? Suo malgrado sentì un certo sollievo nel sapere che non erano più una sua responsabilità...
Nei giorni che seguirono le due coppie fecero molte escursioni nei dintorni di Roswell, e un paio di volte passarono anche dall’ufficio dello sceriffo per sapere se ci fossero delle novità ma non erano state trovate tracce di incidenti nell’intera contea e l’uomo li informò che aveva deciso di sospendere le ricerche.
Poi gli Steamboldt ripartirono per Fort Worth, e Greg e Francine andarono con loro.
Rose Marton non aveva avuto il coraggio di confessare al suo vecchio amico il proprio fallimento con i bimbi che le aveva dato in custodia. Non era riuscita a stabilire un contatto con loro, non aveva saputo infrangere la barriera dietro cui sembravano essersi rifugiati fin da quando Clara Steamboldt era uscita dal suo ufficio. Dopo essere stati accompagnati in una delle tante piccole stanze allegramente decorate, infatti, i due fratellini si erano avvicinati alla finestra e non si erano più mossi da lì. Né per andare a mangiare alla mensa comune e nemmeno per dormire, preferendo sdraiarsi sul nudo pavimento.
Ogni giorno la donna, con l’aiuto dello psicologo del centro, aveva tentato di comunicare tuttavia i piccoli continuavano ad ignorarla, limitandosi a guardare fuori dal vetro con un’espressione dolorosamente intensa. Quasi cercassero qualcosa, qualcuno. I genitori, senza alcun dubbio. Il guaio era che lo sceriffo l’aveva avvertita della totale inutilità dei suoi sforzi, e lei non sapeva più cosa fare. Non era neppure riuscita a fargli indossare degli abiti decenti. I bambini opponevano una resistenza passiva a qualsiasi tentativo di aiuto, con un’ostinazione degna di miglior causa. Tenevano le braccia strette lungo i fianchi quando si cercava di sfilargli l’enorme camicia maschile con cui erano arrivati, non aprivano la bocca quando l’assistente provava ad imboccarli, puntavano i piedi se qualcuno accennava ad allontanarli dalla finestra. Una volta un corpulento infermiere, esasperato, aveva fatto il gesto di sollevare di peso la bambina ma il maschietto gli si era gettato addosso con uno slancio tale da costringerlo a lasciarla andare, e da allora nessuno li aveva più infastiditi.
Alla fine, con un insolito miscuglio di rammarico e speranza, cominciò a preparare la documentazione per rendere possibile l’affidamento dei bimbi.

Era una splendida giornata estiva quella in cui l’avvocato Evans, accompagnato dalla moglie, si recò al centro d’accoglienza per l’infanzia in risposta alla chiamata della direttrice.
L’aria era particolarmente tersa dopo il temporale notturno che aveva portato via ogni particella di polvere, e il verde degli alberi, l’azzurro del cielo, tutto aveva assunto una particolare lucentezza.
Come sempre affacciati alla finestra della loro stanza, i due bambini scrutavano in lontananza con disperata bramosia. Non sapevano esattamente cosa dovessero cercare, cosa stessero aspettando. Sapevano soltanto di trovarsi in un posto sconosciuto, e per di più avevano perduto un fratello. Come avrebbero fatto a rintracciarlo?
Poi, una macchina si fermò poco distante e ne scese una donna che indossava qualcosa di un vivace color giallo che attrasse come una calamita lo sguardo malinconico della bambina. Il suo volto s’illuminò all’improvviso e stringendo ancora più forte la mano del suo compagno corse verso la porta e via, lungo il corridoio, fino ad arrivare davanti all’ingresso proprio mentre la donna e l’uomo che era con lei venivano accolti da Rose Marton.
La direttrice spalancò gli occhi sorpresa nel vedere i piccoli. - Ecco, avvocato, sono loro i bambini di cui le parlavo... Io credo davvero che soltanto all’interno di una famiglia riusciranno a riprendersi dalle conseguenze dell’incidente di cui sono rimasti vittime... Ma la prego, mi segua nel mio ufficio, dove potremo parlare più comodamente... -
Nel frattempo la signora Evans si era piegata fino ad incontrare gli occhi di un marrone scuro e brillante della bimbetta. Con un gesto affettuoso le accarezzò i morbidi capelli biondi che le sfioravano appena le spalle. Ciao, come ti chiami? -
La piccola la guardò incantata per un attimo, poi sorrise e le passò un braccio intorno al collo, costringendo in tal modo il fratellino ad avvicinarsi a sua volta, dal momento che continuava a tenerlo per mano.
Sopraffatta dalla commozione la donna alzò il capo verso il marito. - Non potremmo prenderli noi? - chiese con voce sommessa.
Phillip Evans fissò la moglie e la bambina stretta a lei, e sentì un nodo stringergli la gola. Sia lui che Diane erano rimasti terribilmente delusi quando avevano scoperto di non poter avere figli, e qualche volta avevano pensato di adottarne uno. Non ne avevano mai fatto nulla, però, per un motivo o per l’altro, ma a quanto pareva quel giorno il destino aveva deciso per loro. Fece un piccolo cenno con la testa ottenendo in risposta un timido sorriso. - Vieni, dobbiamo fare una bella chiacchierata con la signora Marton, e a questo punto è il caso che ci sia anche tu! -
Un po’ a malincuore la donna allontanò da sé la bimba. Le sfiorò la guancia pallida e si sentì morire dentro per l’incredibile fiducia che vide nei suoi occhi. - Tornerò presto, stai tranquilla... - mormorò, prima di voltarsi a guardare il piccolo fermo al suo fianco. - Ciao, tesoro. - Sentì una lacrima tremarle sulle ciglia. Dio mio, quei bambini erano così belli, così teneri... Così bisognosi di affetto... Voleva prendersi cura di loro, voleva portarli a casa con sé e amarli, coccolarli, renderli felici come ogni bimbo dovrebbe avere il diritto di essere... Si affrettò a seguire il marito, sapendo nel suo intimo che lui avrebbe fatto di tutto per ottenerne l’affidamento.
Rose Marton fu molto sincera con loro, espose con estrema chiarezza le circostanze che avevano condotto fin lì i due bambini e le insormontabili difficoltà che aveva incontrato nel gestirli. Non parlavano, non mangiavano, dormivano per terra anziché nei loro lettini, non era stato possibile lavarli né vestirli. Non erano mai voluti uscire dalla stanza in cui erano stati sistemati, limitandosi a passare tutto il tempo a guardare dalla finestra.
Diane ascoltò attenta eppure non poté impedirsi di pensare che, con molto amore e pazienza, sarebbe riuscita ad aiutare quei due poveri bambini e non volle dar peso alle parole della direttrice. - Phillip, ti prego, prendiamoli noi... - disse di nuovo guardando il marito negli occhi dopo che la donna ebbe finito di spiegare la situazione.
L’uomo emise un profondo sospiro. Certo, la faccenda era tutt’altro che semplice anche se i piccoli avevano dato l’impressione di gradire la presenza di Diane, o perlomeno così era stato per la femminuccia. Comunque, il maschietto non si era tirato indietro e questo, a ben guardare, era un segno positivo. Se non altro non aveva aggredito sua moglie come invece aveva fatto con l’infermiere che, stando al racconto della direttrice, aveva commesso l’imperdonabile errore di cercare di prendere in braccio la sorellina... Bene, non sarebbe stato un compito facile, sicuramente, ma anche lui era rimasto colpito dalla desolata solitudine di quei due bambini così comunicò alla signora Marton che si sarebbe dato da fare per preparare tutte le carte necessarie nel più breve tempo possibile.
- Possiamo portarli a casa fin da adesso? - domandò speranzosa Diane Evans, tuttavia l’uomo scosse la testa. - No, non è possibile. Però potresti andare a vedere un po’ di negozi. Serviranno parecchie cose, non credi? - disse dolcemente, per attenuare l’effetto della risposta negativa.
Come previsto, la moglie sorrise con entusiasmo. - E’ vero, hai ragione! Santo cielo, devo darmi da fare se voglio che sia tutto pronto per quando verremo a prenderli! - Si alzò in piedi e strinse con cordialità la mano di Rose Marton. - Signora, è stato un vero piacere conoscerla! -
La donna tenne saggiamente per sé i suoi dubbi in merito a quella precipitosa decisione limitandosi a restituire il saluto e poi scortò i suoi ospiti fino all’ingresso, dove erano rimasti ad aspettare i due piccoli, incuranti del viavai degli altri bambini. - Che ne direste di andare a mangiare qualcosa? - provò a suggerire approfittando del fatto che, per la prima volta, erano fuori della loro stanza.
A quelle parole Diane si curvò di nuovo davanti ai bimbi. - Adesso devo andare via ma fra qualche giorno tornerò e vi porterò a casa con me. Intanto, però, dovreste fare i bravi e obbedire alla signora Marton. Non avete fame? Non volete fare merenda con gli altri? -
L’unica risposta che ottenne fu un altro breve abbraccio da parte della femminuccia, prima che corresse via tirandosi dietro il fratellino.
Con un sospiro si raddrizzò. - Oh, Phillip, cerca di fare più in fretta che puoi... -
E Phillip Evans, come promesso, si diede da fare in modo rapido ed efficace, stilando tutti gli atti che avrebbero reso legale l’affidamento dei due bambini e mettendosi in contatto con un giudice che conosceva molto bene perché si occupasse della registrazione dei documenti in tribunale nel più breve tempo possibile.
Ci vollero tuttavia quattro giorni, e quando finalmente gli Evans si presentarono di nuovo al centro diretto dalla signora Marton la situazione si era fatta molto tesa.
I due piccoli orfani, di cui ancora non si era riusciti a sapere il nome, erano caduti in una specie di depressione. La notte si poteva sentirli spesso piangere, e il prolungato digiuno li aveva privati di ogni forza. Se ne stavano ore e ore seduti sotto la finestra tenendosi per mano, gli occhi chiusi, le testoline poggiate contro il muro. Ogni volta che sentivano il rumore di una macchina e di sportelli che sbattevano la bimba si alzava in piedi e guardava di fuori. Ogni volta le sue labbra si serravano, e tornava ad accovacciarsi accanto al fratello.
Finché un pomeriggio arrivò la vettura giusta, da cui scese la persona giusta, e di nuovo la bambina strinse più forte la mano del suo compagno prima di correre via dalla stanza verso l’ingresso.
Ridendo e piangendo allo stesso tempo Diane Evans si strinse al petto i bimbi cullandoli contro di sé. Ciao, piccolini... Mi siete mancati tantissimo, sapete? Ma ora è tutto a posto, ora avete una nuova casa...
Dietro di lei, suo marito sfiorò con una carezza i morbidi capelli di quelle due creature innocenti e sentì di aver fatto la cosa giusta. Con un sospiro si diresse all’ufficio della direttrice e consegnò la pratica relativa all’affidamento, cui mancava solo la firma di Rose Marton. - Ecco, queste sono le carte. Ci prenderemo cura di loro nel miglior modo possibile, glielo posso assicurare... - disse porgendole la cartellina.
- Ne sono certa. Sua moglie sembra perfettamente in grado di occuparsi di quei bambini... Ah, e... per quel che riguarda i loro nomi, mi dispiace ma ancora niente da fare... -
- Non importa. Ci abbiamo pensato noi, e il giudice non ha avuto nulla da obiettare. -
- Bene, perfetto! Allora... possiamo andare! - La direttrice appose le necessarie firme dopodiché richiuse la cartellina ed accompagnò il signor Evans fuori della stanza. Stava per guidarlo verso il lato dell’edificio dove si trovavano le stanze dei bambini quando si accorse del gruppetto davanti all’ingresso. - Oh, vedo che sono già pronti per venire con voi... - mormorò un poco stupita.
- Grazie di tutto - L’uomo la salutò con una calorosa stretta di mano, poi si avvicinò alla moglie e si chinò a prendere in braccio il maschietto. - Avanti, è ora di andare! - disse.
Con un sorriso smagliante Diane si strinse al collo la bambina ed uscì camminando con orgoglio al fianco del marito.

Non appena entrati in casa la donna li accompagnò a vedere le loro camerette. Per i primi tempi, comunque, lei e Phillip avevano pensato di farli dormire insieme e così avevano spostato il secondo letto nella stanza più grande, che era quella destinata alla femminuccia.
Fatti sedere entrambi i bimbi su un letto, la coppia si inginocchiò davanti a loro e due paia di occhi scuri e intelligenti li fissarono con intensità.
Phillip fu il primo a parlare. - Lo sceriffo non è riuscito a ritrovare la macchina dei vostri genitori, e in nessuno degli ospedali della contea sono state ricoverate di recente vittime di incidenti stradali. Questo significa che, almeno per il momento, resterete con noi. Se e quando qualcuno segnalerà la vostra scomparsa, allora verranno fatti dei controlli e, se tutto risulterà in ordine, tornerete con la vostra vera famiglia. Ma fino ad allora sarete... sarete i nostri bambini... - Tacque, in preda ad una forte emozione. Era indescrivibile quello che stava provando, dinnanzi a quei volti seri e smunti. Per una settimana, per un mese, magari per un anno, quei piccoli sarebbero stati i suoi figli...
Diane accarezzò gentilmente le loro ginocchia. - Volete dirci quali sono i vostri nomi? La direttrice ci ha spiegato che, fino ad oggi, non avete mai parlato, ma forse adesso vi va di farlo? Come vi chiamate? - Rimase in paziente attesa poi, visto che non otteneva risposta, batté piano un dito sotto il mento di entrambi. - Allora vi daremo noi dei nomi, e se non vi piacciono sentitevi liberi di farcelo sapere, ok? Bene, dunque tu ti chiamerai Isabel, e tu Max. Che ve ne pare? -
Ancora silenzio. Ma negli occhi marrone scuro di Isabel vide brillare per un attimo una luce di gioia, e per lei fu sufficiente. Si protese ad abbracciarla forte, poi fece lo stesso con Max, che per una volta ricacciò indietro la sua riservatezza e si lasciò andare contro la donna.
Commossa, Diane strinse quel corpicino sottile e tiepido e si ripromise di fare l’impossibile per far capire a quei bambini spaventati che, a dispetto di tutto, avevano trovato una nuova famiglia.
- Ora credo sia meglio andare a tavola, a lavarci ci penseremo poi, eh? - La voce le uscì strozzata. Non poteva capacitarsi del fatto che per dodici giorni non avessero mangiato o bevuto. Sentiva le piccole ossa premere dolorosamente sotto la pelle, e desiderò rimanere per sempre così, con quei bambini stretti al petto, dando e ricevendo calore...
Poi Phillip si schiarì la gola richiamandola alla realtà. - Bene, andiamo! - disse alzandosi con un certo sforzo.
Diane Evans si era prodigata in cucina preparando il sugo per gli spaghetti, il pollo al forno con le patatine, una grande ciotola di insalata mista e una crostata alle ciliegie, nella speranza che il profumo di tutte quelle cose buone avrebbe invogliato i bambini a mangiare, per cui rimase perplessa quando, dopo averli fatti accomodare sulle sedie che Phillip aveva scostato per loro, Isabel e Max si limitarono a guardare con attenzione i due adulti.
- Coraggio, cominciate pure! Sapete usare le posate, no? Siete abbastanza grandi per aver imparato a mangiare da soli... - osservò l’uomo.
Davanti alla loro immobilità Diane corrugò la fronte. - Io... non ne sarei così sicura... - mormorò, prima di lasciare il proprio posto e andare vicino alla bambina. - Guarda, tesoro, si fa in questo modo... - Ruotò la forchetta raccogliendo alcuni spaghetti e l’accostò alla sua bocca. - Dai, apri... -
La piccola fissò la posata con curiosità, ricordando la volta in cui un’altra persona, in un altro posto, aveva fatto la stessa cosa. Allora parve capire e, obbediente, aprì la bocca. Dopo una brevissima incertezza cominciò a masticare. Era strano, come strano era il sapore, ma alla fine riuscì ad inghiottire il boccone e fece un impercettibile respiro di sollievo.
Solo in quel momento Diane si accorse della mano di Max delicatamente stretta su quella della bambina, quasi a volersi assicurare che stesse bene. “Oh, tesoro... sei preoccupato per lei?...” Si costrinse a concentrarsi su Isabel. Prese un altro po’ di spaghetti, mise la forchetta fra le dita della bimba e le guidò il polso fino ad avvicinare la pasta alle sue labbra. - Così, brava, hai visto com’è facile? -
Sconvolto, Phillip osservò la moglie spostarsi verso Max e mostrargli l’uso corretto della posata. - Non è possibile! Non sanno... non sanno come si fa! Non stanno facendo i capricci, non hanno davvero idea di come si tenga la forchetta! - esclamò a bassa voce, non volendo impaurirli.
- Già. Sembra impossibile, ma è così... - fu l’altrettanto sommessa risposta di lei.
La cena andò avanti per un tempo infinito. I due bambini mangiarono solo la metà di quello che venne loro messo davanti, ma dopo il lungo digiuno autoinflitto era comunque un enorme passo avanti.
Per questo, quando infine si alzarono, fuori era ormai calato il crepuscolo, e Diane si sentiva sfinita. Emotivamente e fisicamente. Tuttavia era decisa a vincere la sfida rappresentata da quei piccoli, e con risolutezza si diresse verso il bagno.
Nel momento stesso in cui aprì il rubinetto e dal diffusore della doccia venne giù lo scroscio d’acqua i bimbi si divincolarono e corsero nell’angolo più lontano, gli occhi sbarrati per l’angoscia.
- Ehi, avanti! É soltanto acqua! E calda, per di più! E’ piacevole e molto rilassante, posso assicurarvelo! -
Davanti alla loro ostinazione Diane sospirò. - Phillip, ti spiace uscire? Credo che dovrò spogliarmi e lavarmi anch’io. Forse così capiranno che non voglio fargli del male... -
- Diane, forse... -
- No! - La donna lo interruppe subito, intuendo cosa stesse per dire. Non avevano sbagliato a prendere in casa quei due angioletti... Semplicemente, avevano bisogno di imparare a conoscersi, a fidarsi, e questo richiedeva tempo. E loro avevano tutto il tempo del mondo!
Rimasti soli, Diane si tolse la camicetta e la gonna a fiori che aveva indossato nel pomeriggio, poi si curvò a sfilare le camicie ormai sudicie dei bambini e con gentilezza li prese per mano dirigendosi verso la doccia. Intanto continuava a parlare dolcemente, spiegando quello che avrebbero fatto, cercando di convincerli che non c’era nulla da temere.
Vedendo che l’acqua stava per colpire la sorellina il bambino si slanciò verso di lei spingendola indietro tuttavia, in quel modo, finì lui stesso sotto il getto tiepido.
Sui visetti di entrambi apparve un’identica espressione di terrore ma poi il bimbo alzò un poco la mano voltandola col palmo verso l’alto e guardò le gocce rimbalzare sulla pelle. Era... diverso... Non era la stessa sostanza che li aveva protetti e nutriti prima dell’uscita dai bozzoli... Forse... forse non gli avrebbe fatto del male... L’istinto lo avvertiva che tornare nel liquido dei bozzoli sarebbe stato pericoloso, ma quello... aveva una consistenza differente... Sforzandosi di non tremare fece un passo avanti e sentì l’acqua cadergli sulla testa, scivolare lungo le guance e il naso, toccargli le labbra, mentre l’aria continuava ad entrargli nei polmoni. Provò un senso di sollievo così forte che quasi svenne. Lentamente si girò a guardare la sorella e, dopo alcuni secondi, tese la mano libera verso di lei attirandola un poco alla volta accanto a sé.
Rassicurata, la bambina gli si avvicinò e Diane, decisa a non porsi domande, prese un flacone e si versò addosso un po’ di latte da bagno mostrando loro la soffice schiuma bianca che si andava formando dopodiché cominciò a strofinarli lievemente con le mani.
Quando furono tutti e tre ben puliti la donna chiuse il rubinetto e prese dei morbidi teli colorati con cui li asciugò facendo attenzione a non compiere movimenti bruschi. Sentiva, infatti, che i bambini continuavano a stare sul chi vive e non voleva distruggere quel poco di fiducia che aveva cominciato a conquistarsi.
Una volta fatti indossare i bei pigiamini che aveva comprato proprio quella mattina, Diane accompagnò i bimbi in salotto e li mostrò fiera al marito. - Guardali! Non sono due tesori? -
L’uomo, seduto sul divano intento a sorseggiare del caffè, posò la tazza sul tavolino e tese le braccia verso di loro. - Sì, siete davvero splendidi! Tutti e tre! -
Diane si avvicinò ancora di più e rise felice mentre il marito li stringeva in un unico grande abbraccio.
La mattina successiva la donna andò a chiamare i bambini e sentì gli occhi inumidirlesi nel trovarli distesi uno accanto all’altro nello stesso letto. Stavano ancora dormendo, abbracciati, quasi a volersi proteggere vicendevolmente. Da cosa, forse non l’avrebbe mai saputo. Provò una grande tenerezza e non riuscì a trattenersi dal chinarsi su di loro e baciargli la fronte. - Buon giorno... - disse piano.
Max fu il primo a svegliarsi e, come per un riflesso condizionato, si avvicinò ancora di più alla sorellina, che sbatté assonnata le palpebre.
- Ciao, che ne dite di alzarvi e venire a fare colazione? -
Un po’ disorientata davanti allo sguardo inespressivo del bambino, Diane si sedette sul bordo del materasso. - Mi viene il dubbio che non capiate quello che dico... - mormorò. Chinandosi un poco verso di loro gli scostò i capelli dal volto, su cui poteva ancora vedere tracce di lacrime. - Oh, piccoli miei, come posso farvi capire che vi voglio bene? Che Phillip ed io vi proteggeremo sempre e non dovrete più avere paura? Io non so cosa vi è successo, come mai siete stati abbandonati nel deserto, ma adesso potete stare tranquilli... Avete una nuova casa, una nuova famiglia... Noi non vi lasceremo soli... - Prese le loro piccole mani nelle proprie e le strinse con affetto. - Forse un giorno lo sceriffo riuscirà a trovare i vostri parenti, ma fino ad allora io mi prenderò cura di voi, ve lo prometto! - Piegò il capo a baciare quelle dita sottili e fredde, poi se li attirò al petto abbracciandoli teneramente, e si sentì morire quando, dopo una breve incertezza, venne circondata da quattro braccine. “Dio del cielo, ti ringrazio per avermi dato questi tesori...” Li cullò a lungo, cercando di trasmettergli amore e sicurezza, finché credette di udire un leggero borbottìo proveniente dal pancino di Isabel. Allora sorrise e si tirò indietro per guardarli in viso. Su, coraggio, vi ho preparato le frittelle e sono sicura che vi piaceranno! -
Si alzò dal letto e tese le mani verso i due bimbi, che automaticamente le presero e la seguirono in cucina.
Sul tavolo troneggiavano una brocca di succo d’arancia, una di latte freddo, due scatole di differenti tipi di cereali, un piatto con una pila di frittelle ancora calde, un barattolo di marmellata e uno di miele, burro e sciroppo d’acero. - Se lo preferite, posso tostarvi un po’ di pane... - disse Diane, aspettando paziente un qualche segno di reazione che, come al solito, non venne.
Lentamente, consultandosi di continuo con lo sguardo, Isabel e Max si sedettero e rimasero in silenzio a guardare la loro nuova mamma.
“Cosa dobbiamo fare?” sembravano chiedere i loro occhioni scuri, e con un sospiro la donna versò nei bicchieri il latte e il succo d’arancia. - Ecco, assaggiate entrambi e ditemi cosa preferite. Intanto spalmerò ogni frittella in maniera diversa, così potrete provare un po’ di tutto... Ah, dimenticavo questi! - Prese le scatole di cereali e ne tirò fuori una piccola manciata di sfogliette croccanti. - Assaggiateli, e se vi piacciono metteteli in queste ciotole e aggiungetevi il latte, così. - Con un cucchiaio mangiò i fiocchi d’avena, poi sospinse le due scatole vicino a loro. - Avanti, iniziate pure!... -
Max ed Isabel, esitanti ma incuriositi, studiarono attentamente ogni cosa dopodiché si portarono alla bocca minuscole quantità di tutto quel che Diane aveva indicato. Mangiarono anche le frittelle, sia pure con una certa riluttanza, e la donna fece una smorfia. - Non vi sono piaciute... Allora, domani vi farò provare le uova al bacon: forse preferite fare colazione con il salato... - Con un sospiro si mise a rigovernare la cucina mentre i due bambini esploravano la casa. Quando ebbe terminato li portò in bagno e li aiutò a fare la doccia e a lavarsi i denti dopodiché li condusse dapprima nella stanza di Isabel e poi in quella di Max per vestirli, e infine mostrò loro i giocattoli che lei e Phillip avevano scelto in uno dei migliori negozi di tutta la città. - Adesso dovete avere qualche minuto di pazienza perché devo lavarmi e vestirmi anch’io, e dopo andremo al parco. Purtroppo Phillip è dovuto uscire di casa molto presto, stamattina, e non ha voluto svegliarvi per salutarvi, ma ha promesso di rientrare per pranzo così potremo stare tutti insieme... - Si era inginocchiata davanti a loro per poterli guardare negli occhi e aveva parlato lentamente per dargli modo di assimilare quello che diceva, o almeno lo sperava, ma non era certa che avessero compreso le sue parole. - E’ difficile, più di quanto avessi immaginato, ma... ce la faremo, vedrete! - Li strinse in un rapido abbraccio e li baciò sulle guance prima di uscire dalla stanza, lasciando dietro di sé la porta aperta perché capissero che non li stava abbandonando.

La passeggiata fu una rivelazione, per Diane Evans. Max ed Isabel tenevano obbedienti la mano in quelle grandi e calde della donna, come ad accettare la sua guida, mentre si guardavano attorno quasi intimoriti eppure, allo stesso tempo, assorbendo ogni particolare, controllando tutto quello che vedevano. La normale curiosità di un bambino, ma moltiplicata per mille! Era più una... fame. Fame di scoprire, di imparare. Nulla sembrava sfuggire ai loro occhi attenti e fu certa che, se solo ne fossero stati in grado, l’avrebbero subissata di domande. Al parco c’erano altre mamme coi loro bimbi, alcuni poco più che neonati, e Diane rimase sorpresa per il senso di soddisfazione che provò nel trovarsi lì, per la prima volta, insieme a due piccole creature che, dentro di sé, considerava già suoi figli. Li portò all’angolo dei giochi, dove c’erano due scivoli e diverse altalene, e si divertì ad osservarli mentre l’espressione seria spariva dai loro visetti per essere sostituita da una cauta animazione. Li guardò aggirarsi fra le strutture di sostegno fino a quando, un po’ trepidanti, imitarono gli altri bambini e si arrampicarono sulle scale per poi scivolare lungo l’ampia fascia di metallo dai bordi rialzati.
Sembrava proprio che non avessero mai giocato in quel modo, prima di allora, ma scrollò le spalle e si rifiutò di soffermarsi a riflettere su quell’ennesimo mistero. Max ed Isabel erano con lei, adesso, e avrebbero avuto la loro infanzia. Almeno finché la direttrice dell’orfanotrofio l’avesse chiamata per comunicarle che erano stati rintracciati i parenti. Ma non voleva pensare a quel momento. Non poteva immaginare che qualcuno le portasse via i suoi bambini...
Circa un’ora più tardi li chiamò ad alta voce e sorrise nel vederli arrivare correndo. Li prese di nuovo per mano ed insieme si diressero verso il centro commerciale. Doveva fare un po’ di spesa prima di tornare a casa, poi avrebbe preparato qualcosa di speciale per pranzo. Magari anche una bella crostata di more, che era il dolce preferito di Phillip...
Max ed Isabel rimasero in cucina a guardare Diane affaccendarsi tra i fornelli. Il loro interesse sembrava inesauribile, con gran divertimento della donna, che più di una volta gli fece assaggiare gli ingredienti che andava man mano usando. Vide lo stupore dipingersi sui loro visi quando leccarono prima il sale e poi lo zucchero, e un evidente piacere quando fu la volta del pepe. - Ehi, adesso basta! - esclamò riprendendo il barattolino e mettendolo a posto. - Si usa per insaporire le pietanze, non per mangiarlo così, da solo... -
Quando Phillip arrivò i bambini stavano in piedi accanto a Diane e lo guardarono con curiosità. L’uomo posò la cartella a terra e si piegò tendendo le braccia verso di loro. - Su, venite qui a salutarmi, giovanotti! Sorrideva intenerito, e i due fratelli si avvicinarono lasciandosi abbracciare. Era piacevole sentire sotto la guancia quel delicato tepore, il sordo battito rassicurante nella sua regolarità, e il maschietto mosse piano il viso contro il tessuto della camicia.
- Oh, Max... - Phillip baciò i capelli scuri del bimbo, che emise un piccolo sospiro. “Max...” Sapeva che quella parola stava ad indicare se stesso. L’aveva già sentita pronunciare, ma solo in quel momento ebbe la piena consapevolezza della sua entità come Max. Sbirciò la sorella, anche lei accoccolata contro l’ampio torace dell’uomo. “Isabel” Per un attimo il dolore gli serrò il petto. Poteva percepire l’assenza di qualcosa. Tutto ciò era... sbagliato... Quel posto, quelle persone... Sbagliato... Ma come? Perché? E lui... che fine aveva fatto? Lo avrebbero ritrovato? Lasciò che Phillip si raddrizzasse e, prendendoli per mano, li conducesse in bagno. - Scommetto che la mamma ha preparato uno squisito pranzetto, vero? Adesso ci laviamo le mani così potremo andare a tavola!... -
Poco prima di lasciare l’ufficio Phillip aveva telefonato allo sceriffo, che gli aveva confermato la totale assenza di indizi per quello che riguardava l’incidente che doveva aver coinvolto la famigliola. Certo, l’uomo era molto anziano e stava per andare in pensione, tuttavia aveva sempre svolto il suo lavoro con grande cura e lui non aveva alcun motivo per dubitare delle sue capacità. Era molto triste, ma quello non sarebbe stato certo il primo caso in cui un intero nucleo familiare scompariva nel nulla... Gli Steamboldt avevano fatto del loro meglio per delimitare l’area delle ricerche, eppure gli agenti non erano riusciti a trovare niente. E di sicuro né Max né Isabel sarebbero stati in grado di aiutarli. Sembravano tranquilli, sereni, eppure non parlavano e pareva avessero dimenticato tutto il loro passato. Quella notte sia lui che Diane li avevano sentiti piangere. Un pianto quieto, non convulso, che li aveva colmati di tristezza. Quei bambini dovevano aver sofferto le pene dell’inferno, ne era certo, ma lentamente, con le incredibili risorse tipiche della loro età, ne sarebbero venuti fuori. E loro li avrebbero aiutati.
Entrambi i coniugi rimasero gradevolmente stupiti nel notare la compostezza con cui Max ed Isabel stavano a tavola. A quanto pareva ricordavano alla perfezione quel che gli era stato insegnato in precedenza, anche se sembrava non trovassero il cibo troppo appetitoso.
Poi Diane sembrò rammentare qualcosa e si alzò per prendere il sale e il pepe, sorridendo soddisfatta nel vedere Max tendere la manina verso di lei. - Tieni, ma non esagerare, capito? - disse.
Phillip sgranò gli occhi nel notare la quantità di pepe che il bambino sparse sulla zuppa di verdure ma non fiatò, in attesa di vedere cosa sarebbe successo.
Anche Isabel guardò attenta il fratello, e quando lui riprese a mangiare con gusto si affrettò ad imitarlo.
- Non gli farà male tutto quel pepe? - bisbigliò l’uomo alla moglie, che si strinse nelle spalle. In effetti il contenuto della pepiera era diminuito di quasi la metà, ma dato che i piatti erano stati letteralmente ripuliti la donna preferì lasciar perdere.
- Senti, visto che gli piace il piccante, che ne dici di fargli provare il tabasco? E’ di sicuro meno dannoso del pepe... -
La donna corrugò la fronte. - Beh, forse quello è un po’ troppo forte... ma... perché no? -
Poco dopo tornò con in mano una bottiglietta di vetro. Quando vide Isabel fare il gesto di mettere il pepe sui piselli la fermò toccandole il polso. - Aspetta, dimmi cosa ne pensi di questo... - e versò una goccia di liquido rosso nel piatto.
Incerta, la bimba prese una cucchiaiata di piselli e se la portò alla bocca, sotto lo sguardo ansioso di Diane. Il visetto di Isabel s’illuminò di piacere, e con un sorriso estatico mise un po’ di tabasco nel piatto di Max.
- Non riesco a crederci... - Phillip rimase a guardare i due piccoli aggiungere la salsa piccante a tutto ciò che venne dato loro da mangiare, dolce compreso.
- L’importante è che si nutrano. Per quel che mi riguarda, possono metterlo anche nel latte, purché perdano quell’aspetto emaciato il più in fretta possibile!... -
Quando ebbero finito di pranzare Phillip andò a baciare le testoline dei bimbi e poi strinse Diane in un rapido abbraccio. - Cercherò di non far tardi, stasera. Mi piacerebbe giocare un po’ con questi due angioletti... Cosa farete, oggi pomeriggio? -
- Mah, non so... Magari un salto in libreria. Vorrei cercare un abbecedario e provare ad insegnargli a leggere. Secondo il dottore del centro di accoglienza dovrebbero avere fra i cinque e i sei anni, e quindi... chissà, in autunno potrebbero andare a scuola... -
- Vacci piano, tesoro. Sembrano molto svegli ma non dimenticare che sono solamente dei bambini che hanno subìto una terribile esperienza, e non devono essere forzati. Neanche per mangiare. Lasciali andare avanti un poco alla volta, secondo il loro ritmo... -
- Certo, stai tranquillo. Cercherò di fare del mio meglio - Diane gli sorrise con aria biricchina, ma si vedeva che moriva dalla voglia di prendere quei cuccioli e stringerli in un abbraccio senza fine. Sorrise a sua volta poi, scuotendo la testa, prese la cartella e se ne andò.
Rimasta sola, la donna accompagnò i bambini in bagno perché si lavassero i denti poi andò a mettere in ordine la cucina canticchiando allegramente.
Quando ebbero finito Max ed Isabel, vedendola ancora affaccendata, si avvicinarono alla porta sul retro ed uscirono nel giardinetto. Scrutarono in ogni dove a lungo, senza bisogno di parlare fra di loro, cercando la stessa cosa. La stessa persona. Ma non riuscirono a percepire nulla, e una profonda mestizia si dipinse sui loro volti.
Rientrarono soltanto al richiamo di Diane, che li stava cercando preoccupata per tutta la casa, e si lasciarono abbracciare senza comprendere il motivo del suo evidente sollievo.
Come programmato, più tardi si recarono in una libreria specializzata per l’infanzia e insieme cominciarono a curiosare fra gli scaffali fin quando la donna trovò quel che cercava. - Ecco, bambini, che ne dite di questo? - Mise nelle loro manine il libro poi riprese a frugare tra la miriade di testi finché ne vide un paio che sembravano fare al caso suo. Tornò a guardare i bimbi. - Allora? Vi piace? Lo prendiamo, d’accordo? - Andò alla cassa per pagare, dopodiché li condusse in un bar poco distante. - Qui fanno dei frappè davvero squisiti! -
Max ed Isabel entrarono con lei e sedettero ad uno dei tanti tavoli sparsi nell’ampio locale, affollato da gente in cerca di refrigerio dal caldo soffocante di quella giornata.
Una ragazza con un corto abito verde acqua ed un buffo grembiulino argentato andò subito da loro per prendere le ordinazioni.
Gli occhi nocciola di Max seguirono affascinati il dondolìo delle palline alle estremità di due sottili bastoncini che sporgevano dalla testa della ragazza.
- Ciao, piccolo, ti piacciono le mie antenne, eh? - disse Marjorie chinandosi verso di lui e facendo, in tal modo, muovere ancora di più le piccole sfere attaccate al cerchietto che portava tra i folti capelli ricci. Cosa vuoi prendere? Abbiamo frappè, gelati, torte... Ecco, questo è il menu... - Porse un foglio plastificato a Diane, che scorse rapidamente i fantasiosi nomi dell’elenco prima di optare per un frappè alla cioccolata, un gelato alla crema e una fetta di torta ai mirtilli. Sperava, così, di riuscire ad offrire ai due fratellini qualcosa di loro gradimento. Voleva tanto farli felici, vederli sorridere, sentirli scherzare come ogni altro bambino. - Ah, le spiace portare anche una bottiglia di tabasco, se è possibile? -
La ragazza sollevò le sopracciglia con fare interrogativo ma si limitò a segnare qualcosa sul suo blocchetto e ad allontanarsi per passare l’ordine al banco.
Quando furono serviti Diane invitò i bambini ad assaggiare i vari tipi di dolce che aveva scelto aggiungendo lei stessa una goccia di tabasco sui cucchiaini. Sorrise soddisfatta quando, dopo una brevissima incertezza, ognuno di loro avvicinò a sé il cibo preferito e si accinse a gustare la torta ai mirtilli lasciata al centro del tavolo.
Una volta a casa si mise a sedere coi piccoli sul divano e iniziò a sfogliare uno dei libri appena acquistati. Dunque, qui c’è una figura per ciascuna lettera dell’alfabeto. In questo modo potete imparare non solo la pronuncia e la grafia, ma anche il nome delle cose disegnate. Vogliamo provare? -
Max ed Isabel guardarono incerti da lei alle pagine illustrate poi, quando Diane cominciò a sillabare indicando contemporaneamente le singole figure, sembrarono comprendere e si concentrarono al massimo per memorizzare tutto.
La donna fu molto compiaciuta quando sentì le loro limpide vocette ripetere ogni cosa senza mai sbagliare. - Bravi! Siete davvero bravi! - Li baciò entrambi sulla fronte prima di chiudere il libro. - Andate pure a giocare, adesso, mentre io preparo il pranzo... -
Verso le cinque Phillip Evans tornò a casa e rimase piacevolmente sorpreso nel vedere Isabel che, alzata di scatto la testolina nel sentire la sua voce, scese dal divano e corse verso di lui. La sollevò in aria ridendo. Ehi, come sta la mia piccola principessa? - Se la strinse al petto sentendosi commuovere fino alle lacrime quando lei ricambiò il suo bacio, poi, mentre la metteva giù, si accorse del bimbo fermo davanti a lui. Max, tesoro, tutto bene? - mormorò piegando un ginocchio a terra per poterlo guardare meglio.
Isabel era rimasta con un braccino intorno al suo collo e la testa poggiata contro il forte torace, lo sguardo implorante fisso sul fratello.
Max si sentiva come paralizzato. Vedeva sua sorella stringersi fiduciosa a quell’uomo, e questo lo faceva sentire tremendamente solo. Avrebbe voluto avere la sua stessa certezza che lì sarebbero stati al sicuro ma non poteva impedirsi di pensare che quello non era il posto giusto, non era la loro vera casa. Tuttavia non sapeva dove cercare, dove andare, e questo lo faceva star male. Però lei... lei sembrava pregarlo di accettare tutto quello che li circondava, eppure era consapevole del fatto che lo avrebbe seguito sempre e ovunque, qualsiasi cosa avesse deciso di fare. Solo che... non sapeva cosa fare. Guardò gli occhi lucidi dell’uomo accovacciato davanti a lui, poi sollevò il capo e incontrò quelli di Diane, colmi di timida speranza, tornò a fissare Phillip. E con un sospiro di rassegnazione mista a sollievo per aver fatto infine la sua scelta fece un passo in avanti e lo abbracciò forte.
Tuttavia quella notte la donna lo sentì singhiozzare a lungo, desolatamente, e rimase per un bel pezzo sveglia in attesa che quei gemiti sommessi cessassero e Max potesse infine riposare tranquillo.
L’indomani era sabato e i coniugi Evans trascorsero l’intera giornata giocando coi due bambini, che avevano portato fuori per un picnic. Erano andati verso il fiume Hondo, in un punto molto suggestivo dove c’erano tavolini e panche di legno e tutto quello che serviva per fare il barbecue.
Max ed Isabel sembrarono gradire molto l’esperienza, con grande gioia di Diane, ciononostante, o forse proprio a causa di quello, si addormentarono piangendo. Per ciò che avevano perduto, per un fratello con cui non potevano condividere quel che avevano trovato.
La mattina successiva la donna entrò cautamente nella stanza dove dormivano e trovò Max rannicchiato in posizione fetale, il visetto bagnato di lacrime. Isabel, che stava seduta con le ginocchia strette al petto e gli occhi fissi sul fratellino, si volse a guardarla con una muta richiesta di aiuto nei begli occhioni scuri.
Sentendosi quasi male davanti all’evidente sofferenza del bimbo Diane fece il giro del letto e si sistemò accanto a lui prendendolo fra le proprie braccia per cullarlo finché si fosse calmato. “Tesoro, vorrei poter cancellare tutto il tuo dolore...” pensò tristemente. Rimase a lungo in quella posizione, finché Isabel si spostò andando a rannicchiarsi contro il suo fianco. Allora emise un sospiro e tese un braccio per stringere a sé la bambina. Vorrei poter fare di più, per voi... - mormorò sconsolata.
La piccola premette il visetto contro di lei. Le faceva male vedere il fratello così triste, sapendo che quello che desiderava era irraggiungibile. Avevano trovato un posto dove stare, delle persone che li avrebbero protetti. Per il momento non erano in grado di fare altro che aspettare. Ma lui sembrava incapace di accettarlo e continuava a lottare contro se stesso. Voleva con tutte le sue forze rimanere lì, con Diane e Phillip, e voleva che... Max... capisse che era la cosa migliore per loro. Timidamente, paventando di venire respinta, tese una manina e la poggiò sulla sua gamba. Cercò di trasmettergli l’affetto e la preoccupazione che provava per lui, e dopo un tempo interminabile il bimbo tirò su col naso e la guardò negli occhi. Sorridendo trepidante Isabel sentì la tensione abbandonarlo e annuì.
Nel pomeriggio, mentre Phillip insegnava ai bambini a lanciare la palla nel canestro recentemente attaccato alla parete del garage, Diane uscì per fare degli acquisti. Quando venne l’ora di andare a dormire aiutò come sempre i piccoli a prepararsi per la notte poi, dopo aver consegnato ad Isabel un bellissimo orsetto di peluche, si avvicinò a Max e gli porse una casa giocattolo. - Questa è una casa magica - spiegò sottovoce, come se stesse svelando un segreto molto importante. - Se la terrai stretta a te, quando dormi, lei ti porterà nella tua vera casa... -
Il bimbo la fissò come trasognato poi prese il giocattolo e, dopo averlo osservato con cura, se lo premette al cuore e chiuse gli occhi sospirando piano.
Accecata da un velo di lacrime, la donna lo baciò sulla fronte e si ritirò senza far rumore.
Nei giorni che seguirono Diane si scoprì spesso a studiare ogni minima sfumatura dell’espressione di quei giovani volti, ma alla fine si tranquillizzò. Entrambi sembravano adattarsi sempre di più alla loro nuova famiglia, anche se ogni tanto Max aveva la tendenza a ritirarsi in un mondo tutto suo.
E ascoltavano sempre con grande attenzione, apprendendo con estrema rapidità ogni cosa che veniva loro spiegata, al punto che la donna si ritrovò ad affrontare di nuovo col marito il discorso della scuola. - Sono così svegli... Sono sicura che per settembre saranno in grado di seguire i corsi... -
L’uomo non poté che convenire con lei. In effetti sia Max che Isabel sembravano dotati di un’intelligenza non comune e certamente non avrebbero incontrato difficoltà nel frequentare la scuola.
- Allora? Che ne pensi? - Diane era certa che stare coi loro coetanei avrebbe fatto un gran bene ai due bambini. Avevano bisogno di condurre una vita il più normale possibile, e lei sperava di essere in grado di offrirgliela. Almeno, finché qualcuno non fosse venuto a portarglieli via. Però... forse, anche in quel caso, Phillip sarebbe riuscito a convincere il giudice a lasciarli affidati a loro per non sottoporli al trauma di un nuovo cambiamento. In fin dei conti se ci fossero stati dei parenti, questi avrebbero dovuto essersi già fatti sentire, no? Dovevano sapere dove fossero diretti i genitori di quei due angioletti, e avrebbero potuto rivolgersi agli sceriffi di tutte le città della zona... Quindi... quindi c’era la possibilità che Max ed Isabel... No, non osava neppure pensarlo, nel timore che così facendo si verificasse l’esatto contrario! Ma poi si diede una decisa scrollata mentale. E invece sì, voleva farlo! Max ed Isabel sarebbero potuti rimanere per sempre con lei! Avrebbe potuto adottarli definitivamente! Guardò il marito sorridendo. Sono certa che gli piacerà. La loro curiosità sembra insaziabile, e a scuola potranno imparare un mucchio di cose... -
- Sì, probabilmente hai ragione. Il guaio è che non parlano ancora - obiettò lui un po’ preoccupato.
La donna si sollevò sul gomito. - Beh, ripetono quello che gli insegno a leggere, e qualcosa mi dice che non dovremo aspettare molto perché comincino a parlare normalmente... - Si volse di lato per spegnere l’abat-jour.
- Cioè? - chiese lui sconcertato.
- Hanno continuato a leggere da soli, dopo che li ho lasciati per preparare la cena. Scommetto che già da domani cominceranno a fare domande! - Rise piano poi, con un sospiro, si strinse al marito e iniziò a tentarlo con piccoli baci maliziosi.
Phillip Evans emise un borbottìo fintamente seccato mentre la sospingeva all’indietro e rotolava su di lei schiacciandola col proprio peso. - Tipo... come nascono i bambini? - mormorò prima di baciarla.
L’indomani mattina, quando andò a svegliarli, Diane trovò Isabel seduta sul materasso intenta a stropicciarsi con forza gli occhi gonfi di sonno.
- Ciao, tesoro, buon giorno! - la salutò allegra.
- Ciao, mamma -
Il cuore della donna ebbe un sobbalzo. - Oddio, Isabel! - Corse ad abbracciarla stringendola con forza, ancora nelle orecchie il suono argentino di quella voce infantile. - Isabel... piccola mia... - Non riuscì a trattenere le lacrime. - Oh, tesoro, sono così felice... - La cullò a lungo contro di sé, poi vide Max aprire a sua volta gli occhi e gli sorrise dolcemente. - Ciao, amore. - disse piano.
Lui la guardò un po’ insonnolito. - Ciao... - bisbigliò prima di scendere dal letto e avvicinarlesi tendendo le braccia verso di lei.
Tremando per l’emozione Diane gli passò un braccio intorno alla schiena e lo premette contro di sé baciandolo sulla testolina. - Vi voglio tanto bene... - Li tenne così ancora per qualche minuto poi si alzò invitandoli a fare altrettanto. - Vado a prepararvi la colazione. Sbrigatevi, mi raccomando... - Li baciò di nuovo, questa volta sulla fronte. Santo cielo, non riusciva a fare a meno di riempirli di baci! Erano così piccoli, così vulnerabili...
Mancavano ancora tre settimane all’inizio della scuola, e durante quel periodo gli Evans videro letteralmente sbocciare i due bambini. Pur mantenendo un certo riserbo, infatti, Max ed Isabel si affidarono in modo quasi commovente alla loro guida imparando a muoversi con sempre maggiore sicurezza sia in casa che fuori, mentre il loro vocabolario diventava ogni giorno più ricco.
Diane sapeva che Max era meno espansivo della sorella, ma quando le capitava di vederlo immobile vicino alla finestra, assorto in chissà quali pensieri, un’espressione un poco triste sul bel visetto illuminato da due splendidi occhi nocciola che sfumavano nell’ambra con tante pagliuzze verdi da rendere impossibile, alla luce del giorno, stabilire l’esatto colore delle iridi, aveva l’impressione che serbasse un segreto, dentro di sé, che lo rodeva, nonostante gli sforzi per nasconderlo. In quelle occasioni Isabel, immancabilmente, lasciava perdere qualsiasi cosa stesse facendo e andava da lui, lo prendeva per mano e restava in silenzio ad aspettare che gli passasse. Era incredibile vedere quanto fossero legati, quanto tenessero ciascuno al benessere dell’altro. Nessuno, tra i figli dei loro conoscenti, era così unito... Decise che, prima dell’inizio della scuola, avrebbe organizzato una piccola festa e avrebbe invitato un po’ di gente. Avevano tutti bisogno di rilassarsi, e stare con gli amici era la giusta cura!
Stranamente, quei giorni sembrarono dilatarsi all’infinito per i coniugi Evans, che insieme ai due fratellini scoprirono un mondo nuovo. Fatto di domande a volte ingenue e a volte fin troppo acute, di fiabe, di giochi, di film alla televisione guardati stando abbracciati tutti insieme. E, ogni tanto, c’erano i silenzi. Lunghi, tristi, opprimenti silenzi davanti ai quali Diane e Phillip si trovavano disarmati. Più volte avevano provato ad infrangerli senza però riuscire ad ottenere nulla, e alla fine avevano deciso di lasciare in pace i bambini, intuendo che quella doveva essere la maniera con cui cercavano di venire a patti con la nuova realtà in cui si erano ritrovati. Tuttavia Max continuava a preoccuparli. Era così sensibile, così serio... Temevano che, per lui, affrontare la vita sarebbe stato più difficile rispetto ad Isabel, al contrario aperta e socievole.
Poi un giorno, ritenendo giunto il momento, Diane preparò tutto il necessario per la festicciola che aveva in mente e accolse gli amici con un sorriso felice sul volto. Erano colleghi di Phillip, vecchi compagni di università con i quali erano rimasti in contatto pur vivendo in città diverse, e i cui figli avevano età variabili dai cinque ai dodici anni. Quattro coppie e sette bambini, più Max ed Isabel. Naturalmente ben presto si scatenò un piccolo inferno né ci si poteva aspettare altro da quell’orda di scalmanati, e lei si scoprì a seguire con occhi ansiosi i suoi figli adottivi. Stavano giocando con gli altri? Correvano, ridevano con loro? Si divertivano?
- Sono due splendidi bambini, Diane! Davvero! Era ora che tu e Phillip vi decideste! -
- Sì, lo credo anch’io, Lindsey. Oh, tu non hai idea... non puoi sapere quanto siano teneri... -
La donna sorrise divertita davanti all’espressione dell’amica. - Parli come tutte le mamme del mondo, per ognuna delle quali il proprio figlio è l’essere più perfetto che esista sulla terra! Comunque non posso biasimarti: sembrano veramente bravi... Sebastian non si è ancora azzuffato con loro, e questo vuol dire che devono essere molto intelligenti per non cedere alle sue provocazioni! -
- Hai ragione, dovresti insegnare un po’ di educazione a quel ragazzaccio! - esclamò il marito, che aveva sentito il suo commento mentre stava sorseggiando una birra ghiacciata provvidenzialmente offerta da Phillip.
- Guarda che sei tu che gliele dai tutte vinte! - lo rimbeccò lei mentre Diane faceva uno sforzo per non mettersi a ridere. Tutti sapevano che Rudy viziava terribilmente il figlio.
Il pomeriggio trascorse in maniera piacevole ed era quasi il crepuscolo quando i coniugi Evans salutarono i loro amici.
Quando fu di nuovo tutto calmo e silenzioso Isabel si avvicinò alla donna, che la prese in braccio ridendo. - Mia piccola cara, ti sei divertita? Hai visto com’è bello giocare con altri bambini? -
La bimba reclinò la testa sulla sua spalla, non del tutto convinta.
Max le seguì con lo sguardo mentre rientravano in casa. Aveva lasciato che gli altri lo coinvolgessero nei loro giochi, ma non si era sentito completamente a suo agio come invece succedeva quando stava con Phillip e Diane. Poi si sentì sollevare in aria e un sorriso involontario gli incurvò le labbra.
- Ehi, Max, scommetto che non avevi mai corso così tanto prima d’ora! - Phillip se lo portò al petto e gli diede un bacio sonoro sulla guancia. - Però hai mangiato un po’ poco. Non hai fame? -
Il piccolo scosse la testa, e l’uomo si fece serio. Si era accorto che Max tendeva a mangiare di meno quando attraversava i suoi momenti di introversione, però quel giorno gli era sembrato che partecipasse volentieri alle varie attività organizzate per i bambini. Forse gli era sfuggito qualcosa? Oppure... era solo la reazione di un bimbo di sei anni ancora provato dal trauma della perdita della propria famiglia?, si chiese dandosi dello stupido. Come poteva pensare che Max e Isabel avessero cancellato dai loro ricordi tutto il passato soltanto perché lui e Diane gli avevano offerto una nuova vita? Ci sarebbe voluto di sicuro molto tempo prima che quei bambini tornassero ad essere allegri e spensierati! Con un sospiro sistemò meglio contro di sé quel corpicino magro e tiepido stringendolo con tenerezza e si sentì sciogliere dentro quando Max gli passò le braccia intorno al collo. “Oh, tesoro, sapessi quanto ti voglio bene...” pensò avviandosi verso casa.
Quella notte Max dormì stringendo fra le mani la casa magica regalatagli da Diane. Forse pianse anche un poco, ma Isabel, che ora stava da sola nella propria cameretta, non lo sentì e non andò da lui per consolarlo. Fu solo verso l’alba che la bambina avvertì la profonda tristezza del fratello e, senza esitare, scese dal letto e lo raggiunse. Lo trovò in piedi accanto alla finestra, il visetto premuto contro il vetro.
- Siamo soli... - bisbigliò Max continuando a guardare fuori.
Isabel lo fissò per un attimo prima di girarsi a sua volta ad osservare il pezzetto di mondo racchiuso nello spazio della finestra. - Lui è là, da qualche parte, e ora ci sono la mamma e il papà. Non siamo soli. -
- E’ diverso - obiettò lui, dopo un lungo silenzio.
- E’ quello che abbiamo. -
Max non rispose. Non c’era altro da dire. Era la verità. Ma almeno loro due erano insieme, e questa era la cosa più importante.

- Eccoci arrivati. Questa è la vostra scuola. Da domani potrete venire col pullmino, ma oggi volevo accompagnarvi io. Sapete, credo di essere più emozionata di voi! - Diane sorrise e ravviò una ciocca di capelli ad Isabel. - Andiamo... - Scese dall’auto e ne fece il giro per aprire lo sportello posteriore. Aspettò che entrambi i bambini scendessero dopodiché richiuse lo sportello e li prese per mano.
C’erano diversi genitori, davanti all’ingresso della scuola elementare Del Norte, che come lei avevano scelto di accompagnare i figli per quel primo giorno.
Max ed Isabel camminavano tranquilli al suo fianco, guardandosi intorno con blanda curiosità, e quando lei si fermò davanti alla porta della loro aula la scrutarono con attenzione.
- Fate tutto quello che dice la maestra, e a mezzogiorno e mezza verrò a riprendervi. E’ inutile che vi dica di comportarvi come si deve: siete due veri angioletti! - La donna si chinò a baciarli e gli sfiorò le guance morbide con una carezza. - Sono sicura che andrà tutto bene... - mormorò, più per rassicurare se stessa che loro.
- Ciao, mamma - la salutarono entrambi, e ancora una volta sentirsi chiamare così le fece inumidire gli occhi. - Ciao, miei piccoli tesori... - rispose, dando loro un altro bacio. Poi se ne andò, prima che finisse con lo scoppiare in lacrime come una stupida. Si era così abituata ad averli attorno in ogni momento della giornata che l’idea di non vederli per quattro ore e mezza la faceva stare male. Forse aveva sbagliato ad iscriverli, forse avrebbe dovuto seguire il consiglio di Phillip e aspettare ancora qualche mese, se non un anno... Scosse decisa la testa. No, Max ed Isabel avevano bisogno di quello che poteva dar loro la scuola, e lei non aveva alcun diritto di negarglielo solo perché avrebbe voluto tenerli sempre con sé! Uscì dall’edificio scolastico col cuore pesante, ma quando passò davanti al supermercato gli occhi le brillarono. “Ho trovato! Preparerò un pranzo speciale, e dirò a Phillip di cancellare ogni appuntamento e venire a mangiare a casa! Oggi dobbiamo festeggiare!”
Quando si trovò davanti alla tavola imbandita Phillip Evans sgranò gli occhi. - Diane! E come faccio a tornare al lavoro, dopo questo banchetto?!? -
- Ti darò un thermos di caffè, non preoccuparti! - lo prese in giro la moglie mentre cominciava a riempire i piatti. - Allora, bambini, raccontateci tutto quello che avete fatto! -
Come al solito fu Isabel la prima a parlare. Il primo giorno di scuola l’aveva evidentemente entusiasmata e aveva mille cose da dire. Max, dal canto suo, si limitò a rispondere a monosillabi alle domande dei genitori ma dallo scintillìo dei suoi occhi si capiva che anche lui si era trovato bene.
Diane e Phillip si guardarono di sfuggita, comprendendosi al volo. Nonostante i loro timori, avevano fatto la cosa giusta...
L’indomani, come previsto, i due piccoli presero il pullmino e sedettero quieti mentre tutto intorno a loro era un’allegra esplosione di chiacchiere e schiamazzi infantili.
Quando scesero dal veicolo Isabel prese il fratello per mano e s’incamminò verso il portone della scuola. Max la seguì distrattamente, incuriosito da un gruppetto di bambine che stava giocando lì vicino. Poi la sua attenzione si focalizzò su una di loro, e senza rendersene conto si fermò. Era bellissima. Aveva lunghi capelli scuri e la fronte coperta da una folta frangia. Sorrideva, gli occhi abbassati sulle mani impegnate in misteriosi movimenti, ed il suo viso sembrava scintillare sotto la luce del sole. Per un attimo eterno non avvertì nulla. Né le voci degli altri bambini, né la mano di Isabel che lo tirava. C’era soltanto lei... La sensazione durò solo pochi secondi perché la sorella continuò a trascinarlo e lui non poté più vederla, ma ne era rimasto così colpito che gli bastava ripensare al suo viso per sentirsi meglio.
Nei giorni che seguirono cercò ansiosamente di vederla di nuovo, purtroppo non frequentavano le stesse lezioni e così dovette accontentarsi degli incontri fortuiti prima di entrare in classe. Tuttavia aveva scoperto il suo nome, quando una delle sue amiche l’aveva chiamata da lontano. Liz. Un suono così dolce... Lo ripeteva spesso nella sua mente, e ogni volta rivedeva quel sorriso. Liz...
Non ebbe mai modo di parlarle, di conoscerla, né osò rivelare ad Isabel quel che sentiva quando pensava a lei. Quello era il suo segreto e lo avrebbe custodito con la massima cura, come un tesoro.
Forse, un giorno si sarebbero ritrovati in classe insieme, e allora avrebbe potuto sapere qualcosa di lei.
Avrebbe aspettato con pazienza quel momento, sperando che potessero diventare amici.

Max era in preda ad una grandissima emozione. Non riusciva ancora a crederci! Quell’anno, in terza elementare, Liz era in classe con lui! Adesso conosceva anche il suo cognome. Parker. Liz Parker. Non aveva ancora avuto la possibilità di scambiare qualche parola con lei, ma solo sentire la sua voce quando era interrogata gli dava un piacere grandissimo. Aveva notato che preferiva le materie scientifiche, ma era molto brava in tutto. Era... era semplicemente perfetta! La sua Liz...
Era incantato da lei, avrebbe voluto trascorrere ore ed ore a guardarla, e allo stesso tempo si sentiva morire dentro perché sapeva che non avrebbe mai potuto esserle amico per via del suo segreto, quello spaventoso segreto che condivideva con Isabel.
Era successo poche settimane prima dell’inizio della scuola. Lui e Isabel stavano andando in bicicletta quando lei era caduta procurandosi un profondo graffio sul polpaccio. Preoccupato, si era inginocchiato al suo fianco e le aveva toccato la gamba per capire quanto fosse grave il danno. Sotto la sua mano la ferita si era rimarginata quasi istantaneamente. A quel punto Isabel, sorridendo fra le lacrime, lo aveva abbracciato ringraziandolo. - Nessuna bambina ha un fratello come te! -
Il commento, lì per lì, gli aveva fatto solo piacere. Voleva molto bene alla sorella ed era felice di essere importante per lei. Ma poi, quando si era ritirato nella propria stanza per la notte, quelle parole gli erano tornate in mente, e con loro altri ricordi. In preda ad una sorta di ansia febbrile era andato da Isabel e le aveva raccontato ogni cosa.
Lei lo aveva ascoltato con una certa preoccupazione ed aveva risposto alle sue domande sforzandosi di essere il più precisa possibile, e un poco alla volta avevano messo insieme tutti i pezzi. Fino ad allora non avevano mai parlato neppure fra di loro di quanto era successo prima di essere accolti in quella casa, e col tempo i particolari erano sbiaditi fino a scomparire. Ma le cose più importanti, come l’essere stati trovati a vagare soli nella notte, senza vestiti addosso e incapaci di spiegare cosa fosse successo, il ricordo del fratello fuggito da loro, il senso di perdita che li aveva tormentati a lungo, erano ancora lì. E poi altri dettagli, fatti accaduti quando già vivevano coi loro genitori adottivi, cui fino a quel momento non avevano prestato attenzione ma che invece, riesaminati con cura, risultarono di fondamentale importanza per cercare di comprendere la verità.
Avevano discusso ogni aspetto della faccenda fino all’alba e alla fine avevano raggiunto la conclusione che c’erano delle cose che solamente loro erano in grado di fare, che possedevano capacità che gli altri non avevano. Erano diversi. Lo erano in un modo che ancora non capivano, ma l’istinto li avvertì di non farne parola con nessuno, neppure con i genitori, e Max fece giurare solennemente alla sorella di non rivelare mai quello che avevano scoperto.
Adesso che la scuola era ricominciata, però, e aveva scoperto che Liz avrebbe frequentato la sua stessa classe, si sentì crollare sulle spalle la piena consapevolezza del significato di quel segreto. Loro non erano come le altre persone, non lo sarebbero mai stati, e avrebbero dovuto stare attenti a non tradirsi. E Liz... Liz era perduta, per lui. Non avrebbe mai potuto diventare suo amico. Non avrebbe mai potuto aprirle il proprio cuore. Liz sarebbe rimasta per sempre il sogno della sua vita. Solamente un sogno...
§ § §
Era troppo stanco perfino per provare fastidio al contatto della ruvida corteccia dell’albero contro cui poggiava con la schiena, le gambe strette al petto in un patetico tentativo di difendersi dal freddo e dalla fame. In realtà non aveva un nome da dare al profondo disagio che avvertiva in tutto il corpo. Non era in grado di capire che gli effetti del liquido nutritivo del bozzolo che lo aveva custodito per tanti anni si erano ormai esauriti e il suo organismo reclamava nuove risorse di energia. Aveva vagato a lungo tra i radi alberi, sostituiti a poco a poco da polverosi cespugli di piante capaci di sopravvivere in quelle terre aride, passando da momenti in cui il caldo minacciava di soffocarlo ad altri in cui l’aria diveniva così gelida da fargli battere i denti. Allo stesso modo si alternavano luce abbagliante e fitta oscurità. Per sua fortuna era in grado di vedere abbastanza bene anche di notte, così aveva potuto camminare ogni volta che ne aveva avuto le forze, ma ora non ce la faceva davvero più e rimpianse amaramente di non aver seguito i suoi compagni. Sentiva che avrebbe dovuto farlo, ma allo stesso tempo sapeva che era molto pericoloso. Non riusciva a comprendere dove si trovassero, aveva la strana sensazione che le cose non fossero... giuste. Forse lui e gli altri non avrebbero dovuto allontanarsi, né tantomeno separarsi, eppure... aveva sentito prepotente il bisogno di mantenere una distanza di sicurezza da ciò che si stava avvicinando. Adesso, però, era solo e ignorava cosa fosse successo agli altri. Con un moto di rabbia si rialzò in piedi, lottando contro la debolezza che lo aveva assalito per il brusco movimento, e riprese a camminare.
Non si rese subito conto della differenza del suolo che stava calpestando ciononostante, quando realizzò come fosse più facile avanzare, decise di seguire quel nuovo sentiero. Si trattava, in realtà, della strada statale 285, e continuò a percorrerla finché i primi raggi del sole schiarirono la volta del cielo.
Si trascinò stancamente per oltre un’ora immerso in una specie di torpore, desideroso di ritrovare i suoi compagni, ricongiungersi a loro. Poi lo sferragliare ansimante di una vettura che si avvicinava lo ricondusse alla realtà e, senza neppure guardarsi attorno, fece uno scatto degno di un primatista nel tentativo di raggiungere il nascondiglio offerto da alcuni enormi massi, ma con sua grande costernazione inciampò e finì lungo disteso a terra, il cuore che batteva come impazzito per l’enorme sforzo cui era stato sottoposto.
Dalla sgangherata macchina, fermatasi a pochi metri da lui, scese un uomo basso e tarchiato con un sudicio berretto da baseball calzato alla rovescia. - Ehi, ragazzino, tutto bene? - Si chinò ansimando sul piccolo corpo nudo e smagrito. - Accidenti, figliolo, ma cosa diavolo ti è successo? - Con insospettata delicatezza lo girò sulla schiena e si grattò pensoso la guancia coperta da una fitta peluria ispida. - Ti sei sbucciato le ginocchia... - borbottò.
Il bambino fece del suo meglio per sollevarsi sui gomiti e indietreggiare ma l’uomo non comprese il lampo di paura che gli attraversò gli occhi scuri e, senza starci troppo a pensare, lo sollevò tra le sue forti braccia. - Vieni, ti porto in città con me. E’ il caso che ti veda un dottore... -
Forse, se avesse saputo che stavano andando nella direzione opposta a quella presa dall’altro veicolo, si sarebbe ribellato con quel poco di forze che gli restavano, invece si lasciò avvolgere in una pesante felpa grande il doppio di lui e cadde addormentato ancora prima che avessero percorso due miglia.
Arrivarono a Vaughn poco prima di mezzogiorno e l’anziano medico della piccola città, dopo una breve visita, non poté che confermare lo stato di debilitazione del bimbo.
L’uomo s’infilò imbarazzato le mani in tasca. - Io devo tornare alla fattoria, e lì ho molto da fare. Non posso occuparmi di lui... -
- Non preoccuparti, Vernon, ci penso io. Fra due giorni devo andare a Santa Rosa, e lì lo affiderò ai servizi sociali. Per ora è meglio che resti con me, così potrò intervenire se dovessero esserci problemi. -
- Oh, grazie, dottore! E’... è fantastico! -
Il medico gli sorrise con simpatia. - Ti ha detto come si chiama? - chiese accennando alla porta che dava nell’ambulatorio vero e proprio, dove aveva sistemato il piccolo.
- Non ha detto una sola parola fin da quando l’ho caricato. Secondo me era troppo sfinito per parlare... -
- Va bene, vai pure, adesso. Sei stato grande... -
Vernon fece una spallucciata e se ne andò senza dire altro. Aveva sempre condotto una vita solitaria e stare a contatto con la gente lo metteva a disagio. Il dottore era una brava persona e con lui riusciva talvolta a scambiare quattro chiacchiere, ma adesso il pensiero delle sue oche, delle galline e del mulo lo faceva stare in ansia e voleva rientrare. Mancava da casa da troppe ore e non poteva perdere altro tempo...
Intanto il bambino si era svegliato e stava studiando con attenzione l’ambiente in cui si trovava. Era stanchissimo tuttavia non poteva fare a meno di esaminare, elaborare, cercare di capire. I suoi occhi di un nocciola scuro, dove brillava una vivace intelligenza, seguirono come calamitati l’ingresso dell’uomo. Non era la stessa persona che lo aveva raccolto quando era caduto, e attese incuriosito di vedere cos’avrebbe fatto.
Il medico lo sottopose ad un accurato controllo e alla fine gli diede un leggero buffetto sulla guancia. - A parte la denutrizione non hai nient’altro. Quindi, che ne diresti di cominciare con qualcosa di leggero, magari una minestrina con brodo di verdure? - Senza attendere risposta si avvicinò al telefono e chiamò la tavola calda dove consumava di solito il pranzo, poi tornò a sedersi accanto a lui. - Ecco fatto, fra pochi minuti potrai mangiare la minestra più deliziosa di tutta la città! La prepara una mia cara amica, e vedrai che ti piacerà moltissimo! -
Come promesso, dopo circa un quarto d’ora arrivò un ragazzo con un contenitore thermos e Jules Grove si mise ad imboccare il suo giovane paziente. - Coraggio, su, senti com’è buona! -
Il piccolo alieno fissò incerto il cucchiaio fermo davanti a lui, senza capire, poi l’uomo si piegò ancora più in avanti avvicinandogli la posata alle labbra. - Avanti, apri la bocca... - lo invitò sorridendo. Poiché il bambino continuava a tenere le labbra strette corrugò perplesso la fronte. - Forse è troppo calda? - si domandò prima di assaggiare la minestra. - No, non scotta. Puoi mangiarla tranquillo. - Riempì di nuovo il cucchiaio e lo avvicinò alla bocca del piccolo, che aveva seguito ogni sua mossa. - Provala, è davvero squisita! -
Stavolta lui aprì le labbra e inghiottì avidamente tutto il cibo, poi si addormentò di nuovo. Il suo fu un sonno abbastanza irrequieto e l’uomo andò spesso a verificare che non avesse la febbre. Alle quattro e mezza, orario di chiusura dell’ambulatorio, girò il cartello appeso alla porta a vetri dell’ingresso e si sfilò il camice con un sospiro di sollievo. Vaughn era solo un grande paese e di norma i suoi abitanti godevano di ottima salute ma quel pomeriggio sembrava che avessero deciso di infrangere la tradizione e nel suo studio c’era stato un insolito viavai di persone. Lui amava fare il medico, e i casi trattati erano stati in realtà alquanto banali, ma aveva settantadue anni e cominciava a sentire la fatica. Per fortuna di lì a due settimane sarebbe arrivato suo nipote, che aveva da poco terminato gli studi, e avrebbe potuto affidargli l’ambulatorio.
Trovò il bimbo sveglio e lo invitò a seguirlo al piano di sopra, dove si trovava l’appartamentino in cui viveva. - Mi sarebbe piaciuto portarti su in braccio, purtroppo devo ammettere di non averne la forza... Sono soltanto pochi scalini, stai tranquillo, e poi ti potrai stendere di nuovo. Spero non ti spiaccia stare sul divano, che comunque è molto comodo, perché le mie vecchie ossa hanno bisogno di riposare sul materasso duro del letto. - Si girò a guardarlo mentre salivano lentamente le scale. - Non sei di molte parole, eh, ragazzo? Come ti chiami? -
Il piccolo lo guardò attento. Non comprendeva nulla di quel che l’uomo diceva ma di una cosa era certo. Finché non avesse imparato a muoversi in quel posto così strano doveva restare con le persone. Poi, si sarebbe dato da fare per cercare i suoi compagni.
Dopo aver disteso le lenzuola pulite sul divano ed aver recuperato un cuscino in un cassettone che apriva così di rado da aver dimenticato cosa contenesse, il dottor Grove si mise a preparare la cena.
Quando fu tutto pronto prese un vassoio e vi mise sopra due piatti, uno per sé ed uno per il bambino. - Ho riscaldato un po’ di polpettone avanzato da ieri e ho fatto il purè istantaneo. Ma non lo dire a Brenda, altrimenti si arrabbia. Sai, lei odia questi cibi liofilizzati, e si ostina a non capire che certe volte fanno molto comodo... - Avvicinò una sedia al divano e gli posò sulle ginocchia il piatto. - Ecco, mangia piano, con calma, o potresti sentirti male. Qui c’è anche un bel bicchiere di latte. Finisci tutto e vedrai che domani sarai di nuovo in forze! - Gli sorrise con dolcezza e, guardandolo con una certa curiosità, cominciò a mangiare a sua volta. Quel bambino era come un pulcino spaurito, sempre sulla difensiva, e continuava a rifiutarsi di dirgli il suo nome.
Il giorno successivo fu una replica del primo, solo che stavolta l’uomo ricevette la visita di un paio di signore molto annoiate e molto chiacchierone, che cercavano semplicemente un po’ di compagnia, poi arrivò il giovedì e, come programmato, partì per Santa Rosa. Aveva fatto indossare al suo giovane compagno di viaggio un paio di calzoncini ed una maglietta di cotone che aveva acquistato la mattina precedente in uno dei due empori di Vaughn e lui stesso si era vestito con particolare cura. Di solito non badava a quello che metteva, purché fosse comodo, ma quando andava in città gli faceva piacere tirar fuori dall’armadio gli abiti migliori che possedeva. Niente di particolare, a dire il vero, ma lo facevano sentire più a suo agio.
Aveva anticipato di quasi due ore la partenza per avere tutto il tempo di recarsi all’ufficio dei servizi sociali e spiegare la situazione del bimbo che aveva con sé, sperando che trovassero presto una famiglia che lo adottasse. Aveva preparato anche una scheda clinica su cui aveva riportato tutto quel che era emerso dalla visita cui aveva sottoposto quel piccolino, a dire il vero nulla di nulla a parte un leggero stato di debilitazione dovuta a mancanza di cibo e un paio di graffi sulle ginocchia, tra l’altro guariti molto in fretta.
L’assistente cui era stato indirizzato era un giovanotto sui trentacinque anni, baffi sottili e occhiali tondi dalla montatura di metallo, che ascoltò con grande attenzione il breve resoconto di Jules Grove. - Ehm... ha già segnalato la cosa allo sceriffo? - chiese alla fine.
- Veramente no. Sono venuto qui non appena arrivato in città, e in effetti non ci ho neppure pensato. - L’uomo mise una mano sulla testa del bimbo. - Le uniche cose che mi sono venute in mente sono state prendermi cura di lui e poi portarlo qui da voi. Può dare allo sceriffo una copia della dichiarazione che le ho appena firmato: è tutto quello che so a proposito di questo bambino... La prego, faccia del suo meglio per trovare una famiglia come si deve che si occupi di lui. -
- E’ quello che facciamo sempre - fu la risposta un po’ piccata dell’assistente.
- Ottimo. Allora, se non c’è altro, io dovrei andare... -
- No, non c’è altro. -
- Bene - Grove si chinò un poco per dare un buffetto sulla guancia tenera del piccolo. - Dunque, ragazzo, ti affido a questo signore. Resterai qui fino a quando arriveranno un papà e una mamma per te. Mi raccomando, fai il bravo e vedrai che andrà tutto bene! - Per un attimo sentì un nodo stringergli la gola ma si fece forza e sorrise prima di voltarsi e sparire per sempre dalla sua vita.
Il bambino lo guardò allontanarsi, un’espressione malinconica sul visetto pallido.
Con fare rassegnato l’assistente lo prese per mano e lo condusse fino ad una stanza dove c’erano quattro letti. Gli mostrò quello più vicino alla finestra. - Ecco, qui è dove dormirai. I vestiti puoi metterli in questa cassapanca. - Così dicendo alzò il coperchio del piccolo mobile ai piedi del letto - Non preoccuparti per il cambio e il pigiama, te li procureremo noi. Il bagno è là, in fondo al corridoio, mentre la sala mensa è da quell’altra parte - Fece un cenno col braccio ad indicare l’estremità opposta, dove una porta a doppia anta, aperta, lasciava intravedere un lungo tavolo blu di plastica. - Una campanella suona per avvertire quando è pronto da mangiare. Mi raccomando, puntualità e mani ben lavate! - Abbassò lo sguardo su di lui e sorrise allegramente nel notare la sua espressione perplessa. - Non preoccuparti, ti ci abituerai subito: è molto semplice! E adesso ti porto in cortile a conoscere gli altri bambini. Sono un po’ più grandi di te ma sono sicuro che andrete d’accordo... -
Il cortile si rivelò un grande quadrato di terra battuta con un ciuffo di alberi, alla cui ombra una ragazzina si divertiva a saltare la corda che altre due femminucce vestite pressocché in maniera identica facevano abilmente ruotare. A poca distanza da loro un paio di bambini giocavano con un gatto dal bellissimo pelo fulvo.
Inginocchiata nella polvere una giovane donna era intenta a pulire il naso ad un bimbetto di tre anni, che sembrava non gradire troppo l’operazione.
- Ciao, Myrna, ti ho portato un nuovo ospite. -
Myrna distolse per un attimo lo sguardo dal nasino sporco del piccolo e sorrise incoraggiante al bimbo tenuto per mano dal suo collega. - Ciao. Come ti chiami? - Non ottenendo risposta alzò gli occhi sull’assistente, che si limitò a fare una spallucciata. - Finora non ha detto una parola. Per adesso l’ho registrato come Michael, ma se tu riesci a farti dire il suo vero nome avvertimi, d’accordo? -
- Ok. Bene, Michael, io sono Myrna, e questo qui è Louis. Vuoi venire a giocare con noi? - Tese la mano verso di lui e, poiché non si muoveva, lo prese gentilmente per il polso tirandolo verso di sé. - Su, non sarai mica timido?! -
Considerando ormai esaurito il suo compito l’assistente tornò dentro e si mise a riordinare lo scarno fascicolo del bambino.
Nel frattempo il piccolo alieno aveva seguito Myrna senza battere ciglio ma dopo pochi minuti la sua attenzione era concentrata interamente sullo spazio che lo circondava, nella speranza di trovare il modo di andarsene di lì e riprendere la ricerca dei compagni perduti.
Rimase un po’ in disparte dando l’impressione di osservare i giochi cui erano intenti gli altri bimbi tuttavia, nel momento in cui la ragazza si distrasse di nuovo dietro il più piccolo, fu pronto ad approfittarne e si arrampicò sulla rete che recingeva il cortile. Mancava solo mezzo metro alla sua libertà quando qualcosa lo afferrò con forza alle ginocchia e venne tirato giù senza troppi complimenti.
- Ehi, dove credi di andare, tu? - Myrna se lo strinse al petto, incurante dei calci disperati che lui tirò come una furia. - Mi dispiace ma sei stato affidato a me e non ho nessuna intenzione di permetterti di filartela! Su, avanti, si torna dentro: è l’ora della merenda... - Si piegò un poco di lato per prendere la mano di Louis e fece un fischio acuto. - Coraggio, ragazzi, correte a lavarvi le mani: appuntamento fra cinque minuti in sala! - Rafforzò la stretta intorno al torace magro di Michael e aspettò di essersi ben chiusa la porta alle spalle prima di mettere giù quella piccola tigre scatenata. Si piegò su di lui per guardarlo dritto negli occhi. - Senti, Michael, mi rendo conto che non deve essere facile per te trovarti qui, con persone che non conosci in una casa che non è la tua, ma cerca di capire che in questo posto c’è gente che vuole prendersi cura di te. Aiutaci ad aiutarti, ok? - Gli diede una leggera carezza sul viso. - Su, vai in bagno, adesso. Ti aspettano un bel panino e un bicchierone di latte!... - Vedendo che lui non si muoveva sorrise divertita. - D’accordo, per questa volta ti accompagno io... Ma cerca di imparare presto la strada: sei un ometto, in fin dei conti! -
Dopo aver fatto svogliatamente merenda il bimbo andò nella sua stanza e si mise a sedere sul letto, lo sguardo fisso fuori della finestra. Voleva uscire, voleva andare via, ma la verità era che non sapeva come fare per ritrovare gli altri. Dal momento in cui era tornato indietro per scoprire cosa gli fosse successo non aveva fatto altro che camminare, camminare, e ancora camminare, senza però riuscire a ritrovarli. Dove erano, adesso? Cosa stavano facendo? Sentivano la sua mancanza così come lui sentiva la loro?
Non si mosse da lì quando la campanella suonò di nuovo per il pranzo, né quando Myrna andò a cercarlo perché tornasse in cortile a giocare con lei e gli altri bambini, né tantomento per la merenda. Ma all’ora di cena decise di recarsi alla sala mensa. Non doveva indebolirsi di nuovo, non sarebbe stato prudente. Lui doveva essere forte. E prima o poi sarebbe riuscito nel suo intento.
L’indomani pensò di andare ovunque la ragazza avesse scelto di portarlo. Aveva bisogno di imparare tante cose, di conoscere quello strano mondo, e non poteva farlo stando chiuso in una stanza.
Dopo due giorni non ne poteva più. Ormai capiva qualcosa, quando gli parlavano, ma per il resto non c’era molto altro che potesse apprendere rimanendo lì. Si sentiva irrequieto, aveva bisogno di... di muoversi.

- Salve, signor Guerin, la stavamo aspettando! - Il responsabile del centro invitò l’uomo ad accomodarsi. Sua moglie non c’è? -
- No, oggi non è potuta venire. -
- Oh, bene, allora forse preferisce tornare un’altra volta, con lei? Immagino che vogliate essere tutti e due presenti per decidere chi prendere in affidamento... -
Hank Guerin si passò il palmo della mano sui pantaloni. In realtà sua moglie se n’era andata di casa una settimana prima, portandosi via tutti i suoi vestiti e i pochi gioielli che possedeva, e lui era rimasto con un migliaio di dollari in banca e la vecchia Chevrolet che, miracolosamente, quel giorno si era messa in moto al primo tentativo. Non aveva certo bisogno di un moccioso fra i piedi, ma i soldi che gli avrebbero dato per la custodia gli facevano molto comodo e così aveva deciso di recarsi lo stesso all’appuntamento a Santa Rosa. Da lì, poi, sarebbe andato a cercare lavoro in qualche cantiere. Magari, vedendolo arrivare con un bambino, lo avrebbero assunto senza fare troppe storie...
Quando venne accompagnato nel cortile dove i giovanissimi ospiti del centro stavano giocando riconobbe i più grandicelli, decisamente troppo difficili da gestire e che quindi lui e Joan avevano già scartato, e poi vide il maschietto dall’aria seria fermo in un angolo.
Notando la direzione del suo sguardo il responsabile annuì. - Si chiama Michael, ha all’incirca cinque-sei anni. E’ stato trovato che vagava nei pressi di Vaughn, e il medico che lo ha visitato per accertarsi che stesse bene lo ha portato qui al centro lunedì scorso. E’ un bambino molto tranquillo, e di sicuro ha bisogno di tanto affetto. Allora? Che ne pensa? Vuole parlargli? L’avverto che finora non siamo riusciti a sentire la sua voce, però... - Fece una risatina un po’ imbarazzata. A dire il vero Myrna gli aveva confidato di temere che fosse muto, ma dal momento che non lo sapevano con certezza... - Venga, andiamo da lui! -
L’alieno rimase perfettamente immobile e in silenzio mentre il responsabile gli faceva qualche domanda, dato che l’altro non diceva una parola, poi li guardò allontanarsi e un filo di speranza gli riscaldò il cuore. Forse quella persona lo avrebbe portato via da lì...
Guerin si era sentito molto stupido a stare davanti ad un ragazzino che non aveva fatto altro che fissarlo negli occhi, senza fiatare, ma si convinse che quella fosse la situazione ideale. Tranquillo, silenzioso... No, non ideale: perfetta!
Una volta di nuovo nell’ufficio della direzione confermò la propria decisione di prendere Michael in affidamento e firmò senza esitare tutti i documenti che l’altro gli mise davanti. - Ah, forse lei ha bisogno di tenersi in contatto col bambino, magari mandando qualcuno a controllare che stia bene... Ma... ecco, io... - Si schiarì la voce mentre radunava i vari fogli sparsi sulla scrivania. - Io sto per trasferirmi e... Posso chiamarla quando ci saremo sistemati e darle il nuovo recapito, che ne dice? -
- D’accordo, non ci sono problemi. Buongiorno, signor Guerin, lei e sua moglie avete fatto una cosa bellissima, per questo bimbo... Tutti noi gliene siamo grati... -
L’uomo strinse la mano che gli veniva porta e, preso Michael per una spalla, lo guidò fuori dell’edificio. Ecco fatto, giovanotto, da oggi starai con me! -
Una volta a bordo della vettura Hank Guerin si diresse verso la periferia ed entrò in un grande rivenditore di mezzi usati. - Grazie, Todd, come vedi sono stato puntuale! - Si avvicinò al titolare e gli porse le chiavi della Chevrolet e un fascio di banconote. - E con questo il conto è saldato! Dov’è il mio camper? -
Poco dopo erano di nuovo in viaggio, lungo una strada che attraversava il deserto arroventato dal sole. Sono sicuro che io e te ce la intenderemo alla grande, vero? - disse scoppiando in una risata quasi sinistra.
Rannicchiato nel suo cantuccio, lo sguardo rivolto al paesaggio brullo che si estendeva fino all’orizzonte, il bambino non diede segno di aver sentito. Nella sua mente c’era un solo pensiero. Ritrovare i suoi fratelli.
Ma sarebbero trascorsi tre anni prima che il caso conducesse il sempre più malandato camper di Hank alle porte di Roswell, in un campo attrezzato.

La vita accanto a Guerin aveva insegnato a Michael a contare esclusivamente su se stesso, chiudendo il proprio cuore ad ogni cosa. Hank era un uomo duro, incattivito dall’abuso di alcol, capace di lavorare solo in cave e miniere, dove l’unica cosa richiesta era la forza fisica. Non si era mai preoccupato che il bambino mangiasse in maniera adeguata, giocasse con ragazzi della sua età, o perfino andasse a scuola.
Dopo il quarto cambio di lavoro, e conseguentemente di domicilio, i servizi sociali di Santa Rosa avevano smesso di cercare di mandare un assistente a controllare la situazione limitandosi a spedire per corriere la quota di sostegno, e così non era rimasto più nessuno a preoccuparsi delle condizioni in cui viveva.
Per la verità Hank aveva sempre fatto in modo che Michael e gli assistenti sociali non si incontrassero e la cosa era stata, tutto sommato, abbastanza semplice perché il bambino cercava di stare il più lontano possibile da lui.
Poi erano arrivati in quella cittadina, la cui sola attrattiva degna di nota era rappresentata dal convincimento di parte della popolazione che, nell’estate del 1947, in una zona desertica ai confini della contea fosse precipitato un disco volante.
L’uomo era stato assunto in un cantiere edile a Dexter e stava fuori dalla mattina alla sera e Michael, più riservato e ombroso che mai, trascorreva come al solito gran parte della giornata ad esplorare i dintorni nella speranza di riuscire a trovare qualche traccia che potesse condurlo fino ai suoi compagni ma fino a quel momento le sue ricerche non avevano dato alcun risultato.
La sua frustrazione cresceva ogni giorno di più così come l’insofferenza nei confronti di Guerin, il quale gli rivolgeva la parola solamente per rimproverarlo per il modo in cui aveva svolto i compiti che gli aveva assegnato. In realtà lui faceva del suo meglio per tenere pulito e in ordine il camper, era anche in grado di preparare dei pasti molto semplici, ma Hank non era mai soddisfatto. Disprezzava quell’uomo, lo disprezzava con tutte le sue forze, e se soltanto avesse saputo dove altro andare sarebbe fuggito già da tempo. Si era infatti reso conto che non era semplice muoversi, almeno per un bambino della sua età. C’era sempre qualcuno che lo fermava e gli faceva qualche domanda, come si chiamasse, se si fosse perduto, come mai non stesse a scuola... Soprattutto i poliziotti. Quando li vedeva cambiava subito strada cercando di non farsi vedere. Era stato così, per sfuggire a uno di loro, che un giorno aveva casualmente svoltato un angolo e aveva sentito una stranissima sensazione. Si era bloccato di colpo poi, quasi guidato da un filo invisibile, aveva girato la testa di lato e li aveva visti. Una donna e due bambini, sul marciapiedi opposto. Aveva trattenuto per un attimo il fiato, incredulo. Possibile che fossero loro? Erano un po’ cambiati, dopo tanto tempo, però c’era qualcosa... In quel momento la ragazzina, con una lunga coda bionda che ondeggiava al ritmo del suo passo, si volse per parlare alla madre e lui non ebbe più alcun dubbio. Sì! Li aveva ritrovati! Si mise a seguirli, incerto su come agire, poi salirono su una macchina e si fermò sospirando. Non importa, si disse, ormai li ho trovati e posso prendermela calma. Un giorno in più o in meno non fa alcuna differenza... Con grande soddisfazione riprese la strada per il campo delle roulottes.
Tornato al camper Michael cominciò a preparare qualcosa per la cena e quando Hank tornò dal lavoro sedette al microscopico tavolo che usavano per mangiare. - Voglio andare a scuola - disse con voce ferma. Aveva già controllato, a Roswell c’erano quindici scuole elementari. Sarebbe stato difficile scoprire quale frequentassero i suoi compagni, ma lui aveva tutte le intenzioni di stare con loro. Loro erano la sua famiglia, non l’uomo brutale con cui viveva...
Hank Guerin fece una smorfia. - A scuola? Eh, in effetti sarebbe ora che ci andassi. Ormai sei troppo grande per restartene a gironzolare qui attorno come un fannullone... - Non gli venne neppure in mente che se Michael non era mai andato a scuola la colpa non era certo sua, e con una scrollata del capo ricominciò a mangiare. - Va bene, cercherò di trovare il tempo per andare a iscriverti. A proposito, ma tu sai leggere e scrivere? -
- Sì, certo - “E di sicuro non per merito tuo...” commentò fra sé e sé.
- Bene. Allora ne riparliamo fra qualche giorno, ok? Ma adesso piantala: ho fame e voglio cenare in santa pace! -
L’indomani Michael fece in modo di trovarsi nei pressi della prima scuola elementare della sua lista intorno all’orario di uscita e studiò con attenzione i bambini che sciamarono fuori ridendo e salutandosi a voce alta. Si sentì molto depresso quando non li vide. Aveva sperato... Comunque, non aveva importanza: avrebbe provato di nuovo l’indomani, con un’altra scuola. Non poteva permettersi di sbagliare...
Il sesto tentativo fu quello fortunato. Vide quasi subito lui e sorrise senza volerlo. Sì, era cresciuto, ma quegli occhi li avrebbe riconosciuti ovunque. Perfetto, adesso sapeva cosa doveva fare!
Una settimana più tardi Hank si decise ad andare alla scuola indicatagli dal ragazzo e spiegò che, a causa del suo lavoro, non si era mai fermato abbastanza a lungo nello stesso posto da poterlo iscrivere. - Però è molto sveglio e impara presto. E poi... è previsto dalla legge che vada a scuola, no? -
- Sì, infatti. - La donna lo scrutò con diffidenza. Non le piaceva, quell’uomo, ma di certo per il bambino sarebbe stato meglio studiare. L’istruzione era l’unico mezzo per costruirsi una vita decente... Per quanto qualcosa, nel discorso di Guerin, non la convincesse decise di non indagare e gli diede alcuni moduli da compilare. Può farlo anche qui, se vuole, e già da domani Michael potrà venire a lezione. I corsi sono iniziati da più di un mese ed è opportuno che non perda altro tempo. -
- Giusto, giusto! - Senza soffermarsi troppo a leggere si limitò a vergare una firma simile ad uno scarabocchio e riconsegnò il tutto alla direttrice. - Bene, allora il ragazzo sarà qui domani alle 8 in punto. Buongiorno, signora, e grazie... -
- Buongiorno. - La donna attese che i due fossero usciti e poi sbuffò. “Che razza di gente! A nove anni quel ragazzino non è mai andato a scuola! Certe persone non dovrebbero proprio avere figli...”

Michael si agitò nervosamente sulla sedia. Si era alzato prestissimo, quel giorno, eppure era riuscito a non far tardi solo per pochi minuti perché Hank aveva rovesciato la caffettiera e aveva preteso che lui ripulisse tutto e preparasse del caffè fresco, così non aveva avuto il tempo di fare le sue ricerche prima che cominciassero le lezioni. Ormai erano quasi due ore che stava in quell’aula a sentire l’insegnante parlare di cose che non lo interessavano, e non ne poteva davvero più! Lui era venuto lì per i suoi fratelli non per quella donna che lo stava annoiando a morte, e purtroppo loro erano in una classe diversa! Quando se n’era reso conto avrebbe voluto gridare per la rabbia ma si era costretto a trattenersi, a restare buono buono al proprio posto senza attirare l’attenzione su di sé, aspettando il momento giusto per schizzare fuori da quella maledetta stanza. Ma quel momento sarebbe mai arrivato?!?
Finalmente suonò la campanella e poté uscire in corridoio. Si guardò attorno scrutando ogni volto ma c’erano così tanti bambini che non era facile controllarli tutti, eppure doveva trovarli, aveva bisogno di vederli, di sapere che non si era sbagliato... Continuò a camminare sentendo il cuore battergli sempre più forte. Erano vicini, lo sapeva. Erano lì, a pochi passi da lui, eppure non riusciva a... No, eccoli! Eccoli... I suoi fratelli... Avvertì un brivido lungo la schiena. Lo avrebbero riconosciuto? Oppure... si erano dimenticati di lui? In preda all’ansia fece dietrofront e tornò in classe. Aveva la fronte coperta di sudore freddo e continuava ad aprire e chiudere le mani così forte da lasciare i segni delle unghie impressi nei palmi. “Più tardi... Gli parlerò più tardi...”
Quando suonò la campanella che segnava la fine dell’ultima ora si precipitò a riprendere i libri e i quaderni che aveva lasciato nell’armadietto, ansioso di raggiungere il prima possibile il portone. Sbatté con forza lo sportello e fece ruotare la manopola della combinazione dopodiché si girò, e s’immobilizzò.
- Ciao - disse esitante.
Il ragazzino continuò a guardarlo con intensità, quasi affascinato, finché venne raggiunto dalla sorella.
- Devo parlarvi - Michael sentì un brivido scorrergli lungo la schiena. Perché non dicevano niente? Perché non si avvicinavano? Avevano forse paura di lui? Si mosse a disagio, chiedendosi quale avrebbe dovuto essere la sua prossima mossa.
- Ok -
La risposta della bambina lo colse di sorpresa. Bene, ora toccava a lui. Senza dire altro precedette i due fino all’uscita e si diresse verso un angolo tranquillo del giardino che circondava la scuola. Lasciò cadere il proprio zaino sull’erba e s’infilò le mani in tasca. - Vi ricordate di me? - chiese con voce insicura.
Sia Isabel che Max lo fissarono intenti, senza parlare, e decidendo di rischiare il tutto per tutto si affrettò a continuare. - E’ successo tanto tempo fa... Eravamo insieme, poi io me ne andai e quando decisi di tornare indietro voi non c’eravate più. Vi ho cercato a lungo, e cominciavo a temere di non riuscire a ritrovarvi... Ora mi chiamo Michael e vivo con Hank Guerin -
Max annuì. - Ci portarono qui a Roswell, e fummo adottati dagli Evans. Io sono Max e lei Isabel. -
- Siete... siete i miei fratelli? -
Isabel guardò speranzosa Max, che sorrise timidamente stringendosi nelle spalle. - Forse. Non lo sappiamo con certezza. Ma abbiamo sempre pensato a te come a nostro fratello... - Esitò, incerto su come continuare. - Tu... ricordi qualcosa? Voglio dire, prima di quella notte? -
Michael scosse piano la testa. - No, però... so di saper fare cose che gli altri bambini non riescono a fare. E neppure gli adulti, credo. O perlomeno Hank non ne è capace... -
- E’ vero, anche noi siamo in grado di fare... delle cose... Però non ne abbiamo parlato con nessuno, neanche coi nostri genitori. Pensiamo che... che sia più sicuro così... -
- Sì, certo. Credo anch’io che sia meglio... - Il ragazzino si mosse un poco, a disagio. - Allora, ci vediamo domani... -
A quel punto Max ed Isabel gettarono i loro zaini a terra e tesero le mani verso di lui. - No, aspetta! - esclamarono all’unisono. Isabel fu la prima ad abbracciarlo. - Ci sei mancato da morire! - bisbigliò stringendolo forte.
I suoi occhi incontrarono quelli color ambra di Max, e si sentì rimescolare. C’era qualcosa, qualcosa di indefinibile, che lo attirava verso di lui. Un senso profondo di amicizia, fiducia, lealtà... Si lasciò serrare dalle loro braccia, sentendosi bene per la prima volta da quando era in grado di ricordare.
- Non te ne andrai di nuovo, vero? - chiese Isabel con voce sottile, in preda ad una forte commozione.
- No, non vi lascerò più - fu la sommessa risposta di Michael. Finalmente la sua solitudine era finita.

Scritta da Elisa


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