Roswell.it - Fanfiction
SPECIALE

IL FIGLIO DI NESSUNO (Nobody Son)

Capitoli 25-30


Riassunto: Questa storia, in 37 capitoli, è la prima di cinque fanfiction collegate tra loro. La vicenda ha luogo dopo 17 anni dall'episodio "Four Aliens and a Baby".

Valutazione contenuto: non adatto ai bambini.

Disclaimer: Ogni riferimento a Roswell appartiene alla WB e alla UPN. Tutti gli attori protagonisti del racconto e citati appartengono a loro stessi.

Introduzione dell'autrice: Amo il personaggio di Max e le dolci sfaccettature del suo carattere: la sua insicurezza, il suo senso di responsabilità, la sua generosità nel pensare sempre prima agli altri. Lui non sarà il protagonista di questa ff, ma sarà presente al pari di tutti gli altri personaggi che abbiamo imparato ad amare, così da non fare torto a nessuno. I protagonisti saranno Nate e Alyssa. Non voglio anticiparvi nulla, per non togliervi il gusto della scoperta ma, come dice l'autrice, questa storia ha luogo dopo 17 anni da ‘Four Aliens and a Baby’ e con questa informazione non ci vuole uno scienziato spaziale per capite chi è Nate, mentre sarà più difficile immaginare perché avrà vita difficile col futuro suocero. Quello che abbiamo visto in ‘Graduation’ non è mai accaduto.


Capitoli 1-6
Capitoli 7-12
Capitoli 13-18
Capitoli 19-24

Capitolo 25

Per un momento che gli sembrò lunghissimo, Nate fu terrorizzato dalla consapevolezza che nella stessa stanza c'era qualcuno che, senza nemmeno toccarlo, poteva fermargli il cuore, cosa che il padre di Annie gli aveva garantito se non avesse cooperato.
Ma appena quel momento fu passato, Nate si rese conto che era solo fumo negli occhi. Se l'avessero ucciso, non avrebbero mai avuto le risposte che volevano così disperatamente. Per come la vedeva lui, l'FBI pensava che lui fosse solo un ragazzo spaventato – cosa che in realtà era vera – e che avrebbe creduto a tutto quello che gli avessero detto – cosa che in realtà non era vera.
"No." disse Nate con disprezzo "Non risponderò a nessuna delle vostre domande. Invece sarete voi a rispondere alle mie."
L'agente O'Donnell si raddrizzò lentamente, con un leggero sguardo di sorpresa negli occhi.
Dentro di sé, Nate sentì crescere la sicurezza. "Voglio sapere dove sono e voglio sapere perché un alieno lavora per l'FBI. Voglio sapere perché vi interessate così tanto a Max Evans. Voglio sapere per quanto tempo pensate di tenermi qui. Voglio sapere perché vi arrogate il diritto di tenermi prigioniero senza che abbia fatto nulla. Ma più di tutto, voglio sapere quanti anni aveva tua figlia quando l'hai venduta ai i tuoi sanguinosi propositi."
La reazione di O'Donnell fu rapida, il suo pugno si scontrò direttamente con la mascella di Nate, colpendogli il labbro nello stesso punto in cui era stato colpito da Michael Guerin. Mentre il sangue cominciava a colare, fu scagliato verso la parete colpendola con un tonfo sordo. Un attimo dopo, sentì un dolore agonizzante alla mano destra e abbassò gli occhi per vedere che il suo pollice ferito era intrappolato sotto il piede dell'agente O'Donnell, che vi premeva sopra con tutto il suo peso. Il viso di Nate si contorse dalla sofferenza, mentre cercava inutilmente di liberare la mano ferita.
"Sentimi bene, piccolo bastardo." sibilò O'Donnell all'orecchio di Nate, il suo comportamento riservato scomparso definitivamente. "Ti dirò dove sei – sei nell'Area 51. Ne hai sentito parlare, vero? Bene, posso garantirti questo – niente di quello che succede qui, trapela nel mondo esterno. Nessuno entra e nessuno esce. E' chiaro? Questa ora è la tua casa, ragazzo – la tua casa definitiva. Speravo di non dover ricorrere a metodi sgradevoli, ma mi sbagliavo. Sei un ragazzo stupido e arrogante, Nate. Lo pagherai, alla fine." Sollevando la testa, O'Donnell sbraitò verso Darmon. "Falli entrare."
Nate si dimenò, cercando ancora di liberare la sua mano, mentre la porta si apriva lentamente e l'uomo con la scatola degli attrezzi rientrava nella stanza seguito dai due uomini che già prima l'avevano bloccato a terra.
Un ricordo doloroso strinse il pollice di Nate e lui cercò disperatamente di sottrarsi all'agente. Non c'erano dubbi su quello che sarebbe successo ora.
I due uomini rimpiazzarono velocemente l'agente O'Donnell, tenendo Nate steso per terra. Uno di loro afferrò il suo pollice ferito e lo strinse girandolo e suscitando lamenti angosciosi da parte della sua vittima. L'Uomo degli Attrezzi, posò la sua scatola sul pavimento e cominciò a rovistarvi dentro, la sua espressioni indifferente come se stesse leggendo il giornale del mattino. Nate lo vide con orrore che tirava fuori una fiala ed una siringa.
L'agente O'Donnell era in piedi, a poca distanza da lui, e lo osservava con le mani dietro la schiena e la padronanza di sé completamente ristabilita.
"Ci sono altri metodi." disse a Nate, mentre l'uomo cominciava a riempire la siringa. "Non amo usare le droghe, ma visto che tu non vuoi cooperare spontaneamente, credo che dovrò farlo."
L'Uomo degli Attrezzi si avvicinò a Nate e lui cominciò a dimenarsi selvaggiamente, spaventato da quello che poteva esserci nella siringa. Era qualcosa che l'avrebbe veramente ucciso? Era qualcosa che avrebbero usato per abituarlo alla droga, per tenerlo in pugno e convincerlo a parlare per ottenere la dose successiva? Nate spalancò gli occhi, mentre l'ago si avvicinava al suo braccio.
"No." gridò. "Nooo."
L'ago gli perforò la pelle e lui lottò inutilmente per liberarsi. In brevissimo tempo, sentì i suoi arti indebolirsi e non ebbe più la forza per ribellarsi. Ebbe la sensazione che gli uomini che lo avevano trattenuto, l'avessero lasciato andare, ma lui non voleva provare a muoversi.
"Pentotal." la voce dell'agente O'Donnell gli arrivò da molto lontano. "Bella sensazione, vero?"
Gli occhi di Nate fissavano il soffitto, l'apparecchiatura luminosa proprio sopra la sua testa. Si sentiva così rilassato, così contento, non aveva paura di niente. Sarebbe potuto restare lì tutto il giorno – solo a guardare la brillante luce sopra di lui.
"Nate, puoi sentirmi?"
Qualcuno stava parlando con lui. Le sopracciglia si contrassero, mentre cercava di ricordare cosa fosse successo poco prima.
"Nate, rispondimi."
Lui batté gli occhi e cercò di accennare con la testa.
"Dimmi come ti chiami."
Fece un sospiro assonnato. "Nathan Spencer." disse indistintamente.
"Bene. Vuoi cooperare con me, vero Nate?"
Lui annuì intontito.
"Dimmi chi sono i tuoi genitori."
I suoi genitori. Cosa stavano facendo in quel momento? Nate ebbe la visione di suo padre che immagazzinava le provviste per l'inverno, parlando con i locali della stagione turistica estiva appena finita e riponendo la sua attrezzatura da pesca. Sua madre, probabilmente, stava cuocendo qualcosa nel forno. Oh, quanto piaceva ad Emma Spencer usare il forno. Torte, pane e il dolce preferito di Nate – biscotti al cioccolato. Preparava i migliori biscotti in assoluto.
"Nate, concentrati. Chi sono i tuoi genitori?"
"Emma ..."
"Si, si, va avanti."
"Emma e Jon Spencer."
Nate cominciò a pensare a loro, a quelle due meravigliose persone che conducevano una vita semplice, ma piena d'amore e si sentì all'improvviso molto triste. Lui non avrebbe mai più vissuto quella vita – la sua attuale condizione ne era una prova. Incapace di fermarsi, lasciò andare un piccolo singulto.
"Nathan." questa volta la voce fu più dura. "Emma e Jonathan Spencer non sono i tuoi genitori."
"Mi hanno cresciuto loro." rispose lentamente.
"Ma questo non ne fa i tuoi genitori."
E invece si. Qualcun altro aveva dato a Nate la vita, ma gli Spencer gli avevano dato una famiglia. Per questo, lui li avrebbe considerati sempre i suoi genitori.
"Dimentica gli Spencer." Ora nella voce c'era anche disgusto. "Dimmi chi sono gli altri."
Gli altri? Quali altri? L'immagine di un viso passò per la mente di Nate, una giovane ragazza con uno spirito acuto. Sorrise a quel ricordo.
"Dove sono, Nate?"
"Nel deserto." sospirò lui, desiderando dormire più di ogni altra cosa.
"Dove? Nel deserto, dove, Nate?"
"Nel deserto." ripeté lui, poi, lentamente, perse conoscenza …
La ragazza ondeggiava davanti a lui, in un equilibrio instabile. Nate la prese per un braccio, ma lei perse la stabilità e cadde sul sedere. Sembrando nauseata, lei si portò una mano davanti alla bocca.
"Oh, mio Dio." si lamentò "Ti hanno drogato, vero?"
Lui non ne fu sicuro. Lo avevano drogato?
"Non riesco a stare in piedi." gli disse lei. "Siediti con me, Nate"
Lui fece quello che lei gli aveva chiesto, felice di vederla. Quella graziosa ragazza era come un raggio di sole. Solo perché lo desiderava, lui le mise un braccio sulle spalle e la strinse forte a sé.
"Penso che tu sia bellissima." le disse, sottolineando il complimento con una risata.
"Oh, grazie, amico." rispose lei a disagio.
"E hai il seno più grande della ragazza che avevo prima."
La ragazza sembrò confusa per un momento, poi scosse la testa. "Una cosa carina da dire, Nate, ma non sono venuta qui per parlare del mio seno. Ho bisogno di sapere dove sei, Nate. Sono già passati due giorni e se non ti portiamo via subito, abbiamo paura di quello che potrebbe succederti." Lei fece una pausa, come per ricomporsi. "Hai trovato qualche indizio su dove ti tengono?"
Lui rifletté per un momento, quanto glielo permise la droga. "Un numero."
"Un numero?"
"Cinquanta … cinquanta qualcosa."
"Oh, maledizione. Area 51? E' lì che sei, Nate?"
Lui fece una risatina. "Si. E' così."
Lei apparve contrariata, ma passò subito. "Ora devo andare." gli disse. "Devo uscire dalla tua testa e dire agli altri quello che hai scoperto."
"Alieni."
"Si, Nate, sono alieni. Ora devo veramente andare."
Lui scosse la testa. "No. Quelli dell'FBI hanno degli alieni che lavorano per loro."
La ragazza rimase a bocca aperta, incredula. "Ne sei sicuro?"
Nate annuì e si mise la mano sul petto. "Lui ha fermato il mio cuore. Senza nemmeno toccarmi."
Paura ed allarme corsero sul viso della ragazza. "Devo andare, Nate. Sii forte. Stiamo venendo a liberarti."
Detto questo, lei se ne andò e Nate fu lasciato a fluttuare da solo.
Quando si svegliò, sentì un freddo incredibile e non riuscì a smettere di tremare. La bile gli risalì in gola e lui la represse.
"Ti piacciono i film, vero, Nate?"
Lui voltò debolmente la testa, per vedere l'agente O'Donnell appollaiato sulla sua sedia. Sullo schermo dietro di lui, non c'erano più le immagini dell'hangar, non c'era nessuna immagine.
"Credo che tu abbia bisogno di un sussidio visivo." decise O'Donnell. "Sono molto convincenti. Sapevi che Max Evans una volta è stato preso in custodia della vecchia Unità Speciale dell'FBI?"
Gli occhi azzurri di Nate si posarono sullo schermo bianco, poi di nuovo sull'agente. Sentiva così freddo …
"E' vero." confermò l'agente. "Per due fantastici giorni, l'FBI lo ha avuto in pugno. Credo che avesse pressappoco la tua età. Abbiamo conservato una registrazione di quella vacanza qui, nel caso che volessimo ricordare i vecchi tempi."
Con questo, premette un bottone dell'onnipresente telecomando e lo schermo prese vita.
Nate strinse gli occhi, cercando di mettere a fuoco, ancora una volta; le immagini sembravano essere state riprese da una telecamera di sicurezza, solo che questa volta erano a colori. C'era un ragazzo dai capelli scuri, con indosso un paio di pantaloni da ospedale, che girava in una stanza completamente bianca. Se Nate avesse fatto uno sforzo, avrebbe potuto riconoscere che quella persona era un giovanissimo e glabro Max Evans. La paura sul suo viso era paralizzante.
"Piuttosto noioso, vero?" disse O'Donnell, spingendo il bottone per far avanzare velocemente il nastro. "Solo un ragazzo che cammina in cerchio in una stanza bianca. Arriviamo alle cose interessanti."
Quello che Nate vide gli riportò la bile alla gola. Lui conosceva la persona che stavano torturando e quello che lo colpì di più fu che una persona forte come Max, aveva dovuto sopportare tutto quello. Nate vide Max drogato, sottoposto a scariche elettriche e tagliato con un bisturi, mentre era sveglio o pienamente cosciente.
Ma non fu quello che fece più male a Nate.
La cosa peggiore fu vedere due uomini che ripetutamente spingevano Max in una vasca di acqua gelata, tenendogli la testa sotto la superficie abbastanza a lungo per farlo affogare, lasciandolo andare solo per riprendere fiato, prima di spingere di nuovo la sua testa sott'acqua. I ricordi di Nate tornarono penosamente al lago Chautauqua, al bambino che era sfuggito alla sua presa, scivolando dentro l'acqua gelida per incontrare la sua morte.
Nate cominciò a tremare, incontrollabilmente.
L'agente O'Donnel si alzò dalla sua sedia e si accovacciò davanti a lui. Nate non ebbe né la forza né la volontà di allontanarsi.
"Io e te dobbiamo parlare, Nate." La sua voce era fredda, fredda come non lo era mai stata da quando Nate era arrivato lì. "Credo che tu abbia visto dal nastro quello che potrebbe succederti. Si, Max Evans è fuggito. Ma lui non è umano, lo sai? Invece tu decisamente lo sei." L'agente spostò lentamente la testa da un lato. "Tu hai bisogno di un amico, Nate. Più di quanto possa avere bisogno di una coperta calda per mandare via quei brividi."
Nate chiuse la sua mente al pensiero della trapunta calda di casa sua – la negazione di un bisogno così primario era troppo difficile da sopportare.
"Hai bisogno di un amico, perché sei molto vicino a fare una brutta fine." continuò l'agente O'Donnel. "Potrei essere in grado di negoziare per farti uscire da qui, se tu accetti di aiutarmi. E se mi dici quello che mi serve di sapere, posso essere in grado di aiutarti con l'accusa di omicidio."
Gli occhi di Nate si spalancarono e lui fissò interrogativamente l'agente.
"A quanto pare, Annie è stata vittima di un omicidio." L'agente O'Donnel gli diede la notizia, con lo stesso tono con cui avrebbe potuto comunicargli le previsioni del tempo. "Il suo corpo è stato trovato nel deserto un paio d'ore fa."

Capitolo 26

"Allora, secondo te, quale dei tuoi amici potrebbe aver ucciso mia figlia, Nate?"
Nate non poteva – non voleva – credere alle sue orecchie. Annie non poteva essere morta e nessuna delle persone che aveva incontrato a Roswell gli era sembrata capace di ucciderla. Si, quel Michael sembrava piuttosto pericoloso, ma più sul genere attaccabrighe della scuola che sul genere alieno assassino.
"Leggo il dubbio nei tuoi occhi." osservò l'agente O'Donnel, con uno sguardo sorprendentemente indifferente. "Va bene, ti capisco – vedere per credere." Cliccò il telecomando e immediatamente gli occhi di Nate si posarono sullo schermo.
Una serie di diapositive si susseguì, immagini che sembravano essere state prese con un obiettivo molto sensibile. C'erano immagini del deserto e di auto della polizia, poi quella di un corpo che giaceva su un fianco, il viso coperto da una tenda di capelli rosso fragola. Lo stomaco di Nate si strinse quando riconobbe i vestiti che Annie indossava l'ultima volta che l'aveva vista.
"Vedi?" disse O'Donnel con voce piatta. "Questa è lei. La cosa strana è che non c'è segno apparente di quello che ha causato la sua morte – nessuna ferita d'arma da fuoco, nessun livido, niente. Per come la vedo io, troveremo tracce del tuo DNA su di lei, insieme alle fibre dei vestiti che ti abbiamo confiscato. Sembra che sia un caso chiuso, prima ancora di essere aperto, Nate, anche se io non ti credo capace di uccidere qualcuno. Così, o tu mi dici quale dei tuoi compagni può averlo fatto, o sei condannato."
Le immagini sullo schermo smisero di scorrere e lo sguardo di Nate si fermò sull'ultima immagine – paramedici che infilavano il sacco con il corpo di Annie nella macchina del medico legale. Il vicesceriffo che stava al lato dell'auto aveva un aspetto familiare, ma Nate non si curò del fatto che Kyle Valenti fosse sulla scena del probabile omicidio.
Non se ne curò perché il dolore aveva cominciato a formare una palla nel suo addome vuoto, attorcigliandosi e dimenandosi come un indesiderato parassita. Era vero, Annie lo aveva tradito e ora Nate non ne avrebbe mai saputo il motivo. Lei aveva dovuto avere una ragione per comportarsi in quel modo – Nate si rifiutava di credere che Annie fosse stata così crudele, come sembrava dai fatti. Suo padre le aveva fatto pressione, l'aveva minacciata, manipolata? Aveva provato rimorso per quello che aveva fatto? Avrebbe voluto chiedere, un giorno, perdono a Nate per le sue azioni?
Nate voleva concederle i benefici del dubbio, basandosi semplicemente su quello che aveva significato per lui.
Annie O'Donnel era stata il suo primo amore, la sola persona dalla quale aveva creduto di poter essere attratto. Aveva diviso con lei molte prime volte – il primo bacio, il primo ballo, la prima esperienza sessuale. Avrebbe fatto per sempre parte di lui, indipendentemente dal suo apparente tradimento.
Sentendo un vuoto desolato farsi largo dentro di lui, Nate si voltò su un fianco e si portò le ginocchia contro il petto. "Lasciami stare." disse all'agente O'Donnel.
L'agente sbuffò. "E' questo che tu non vuoi capire, Nate. Io non posso lasciarti stare." Si chinò, in modo che la sua faccia fosse vicina a quella del prigioniero. "Tu non sei uno stupido, lo so per certo. Sono sicuro che hai già capito che noi non possiamo ucciderti. Sono sicuro che hai capito che vogliamo studiarti. Noi sappiamo cosa sei – tu sei l'unico umano nato al di fuori dell'atmosfera terrestre. Per quello che ne sappiamo, tu sei l'unico bambino nato da due ibridi alieni. Da quello che ci ha detto Annie, sappiamo che hai la capacità di accedere a ricordi remoti, risalenti al tempo della primissima infanzia. Non capisci quanto sia importante tutto questo, Nate? Hai idea di che grande passo avanti sarebbe scoprire come il tuo cervello sia capace a fare simili cose?
Nate si limitò a guardare nel vuoto, il suo corpo sempre più debole e stanco.
L'agente O'Donnel fece un respiro, le mascelle strette in modo autoritario. "Ormai la tua vita è questa. Non uscirai mai più fuori da qui. Puoi collaborare, e vivere abbastanza confortevolmente – potremmo anche decidere di farti avere cibo e vestiti – o puoi scegliere di intraprendere la strada più dura e vivere l'inferno. Tocca a te, ma posso assicurarti questo – se non cooperi, ti augurerai mille volte di morire, ma noi non ti uccideremo e non ti daremo alcun modo per farlo da solo." Fece una breve pausa, poi ripeté "Dove sono gli alieni, Nate? E chi di loro ha ucciso mia figlia?"
Gli occhi azzurri di Nate si spostarono lentamente dal punto che stava fissando e guardò l'agente direttamente in volto. "Va' al diavolo." gli disse.
Gli occhi di O'Donnel si restrinsero, poi sbraitò qualcosa in direzione della porta. Nate voltò la testa e si rese conto che l'Uomo degli Attrezzi era entrato nella stanza, senza che lui se ne fosse reso conto e stava ancora una volta cercando qualcosa nella sua scatola di amenità. Nate deglutì, la sua vista si annebbiò e le orecchie cominciarono a ronzargli. Bruscamente l'uomo gli mostrò un piccolo dispositivo, non dissimile da un transistor, con un piccolo ago ad una estremità.
Mentre l'uomo si avvicinava, Nate lanciò un'occhiata terrorizzata all'agente O'Donnel.
L' agente si alzò in piedi, facendo posto ai soliti due uomini, che erano ormai diventati i personali dispositivi di contenimento di Nate. "Speravo di non dover arrivare a questo, ma eccoci qui." gli disse.
Gli uomini afferrarono Nate per le braccia e lo fecero distendere sullo stomaco. Provò a lottare contro di loro, ma la privazione di cibo, l'uso delle droghe e il continuo dolore alla mano, lo avevano indebolito notevolmente. Continuando a contorcersi, cercò di girare la testa da un lato, ma qualcuno gliela afferrò e la tenne dritta, così che il suo naso toccasse il pavimento.
"Avanti, fallo!" disse O'Donnel e Nate si rese conto che era stato lui a bloccargli la testa.
Qualcosa di appuntito penetrò nella nuca di Nate, facendolo urlare di protesta. Ma l'oggetto non si fermò, una volta perforata la pelle – fu spinto avanti fino ad arrivare dolorosamente tra due vertebre del collo di Nate, procurando al suo corpo contrazioni involontarie. Nate si rese conto troppo tardi che avevano impiantato il transistor sulla sua colonna spinale. Realizzò allora, disperato, quali fossero il loro piani …
Lo avrebbero paralizzato, così che non avrebbe potuto fuggire.
"No." gridò Nate, stringendo gli occhi contro la sofferenza accecante. "Vi prego! NOOOO!"
Gli uomini gli lasciarono libere le braccia, ma ormai il dispositivo era fermamente posizionato. Nate rotolò via da loro e cercò di arrivare alla sua nuca per rimuoverlo.
"Io non lo farei." disse casualmente l'agente O'Donnel. "Se lo tiri via dall'angolo sbagliato, resterai tetraplegico per il resto della tua vita. Così, se fossi in te, non lo farei."
Nate smise di agitarsi, il suo respiro trasformato in ansiti di stanchezza e di terrore. "Che cos'è questo? Cosa mi avete fatto?"
L'agente O'Donnel si strinse nelle spalle. "E' simile al collare di repressione che qualcuno usa per i cani. Niente più di questo."
Nate lo guardò confuso.
"Vuoi una dimostrazione?"
Prima ancora che Nate potesse dire di no, gli mostrò un piccolo telecomando, di quelli usati per aprire le porte dei garage, e premette un bottone. Immediatamente, scariche elettriche corsero attraverso il sistema nervoso di Nate, contraendo i suoi muscoli e lacerandogli il cervello. Nate gridò, le stesse grida degli ammalati e dei moribondi.
L'agente si accovacciò accanto a lui, dopo aver rilasciato il pulsante, e il dolore nel corpo di Nate sparì rapidamente, lasciandolo svuotato delle poche forze che gli erano rimaste.
"Vedi, Nate" gli disse freddamente O'Donnel. "Era questo di cui ti stavo parlando. Questo intendevo, quando parlavo della mancanza di collaborazione. Questo dispositivo nella tua nuca, è ora una parte permanente del tuo corpo. Ogni volta che voglio, posso farti quello che ti ho appena fatto. E non mi spiacerà affatto farlo."
Tutto e tutti hanno un punto di rottura. E alla fine, in quel momento, Nate incontrò il suo. La giornata di abusi che aveva sopportato, la negazione dei bisogni minimi per la sopravvivenza umana e la perdita della vita che era stata sua e che aveva goduto, alla fine spezzarono la sua volontà. Incapace di fermarsi, cominciò a piangere, un uomo spezzato e senza speranza.
L'agente O'Donnell lo guardò con un sorriso soddisfatto. Non ci sarebbe voluto molto tempo perché Nate cominciasse a dargli le informazioni che aveva salvaguardato così gelosamente.
"So che questi giorni sono stati molto lunghi per te, vero?" gli chiese comprensivo, nonostante la sua compassione fosse tutto fuorché sincera.
Giorni? Nate si rese conto che non sapeva quanto tempo fosse passato da quando l'avevano portato li. Per quello che ne sapeva, avrebbero potuto essere settimane.
"Ma credo che forse ora hai capito qual è il genere di vita che non vorresti fare." continuò O'Donnell. " Vuoi stare al caldo e mangiare, vero?"
Asciugandosi le lacrime, Nate annuì contro il pavimento.
"Io posso darti tutto questo." promise l'agente. "Ma tu devi cooperare. Se non lo farai, dovrò usare ancora questo e non vorrei farlo." Fece una pausa, poi si alzò in piedi. "Ti lascerò da solo per un po', così potrai pensarci su. La scelta sta a te, Nate"
L'agente se ne andò e Nate sentì chiudersi la porta dietro di lui.
Rimase per molto tempo steso sul pavimento, fissando semplicemente la parete opposta della stanza. Il suo stomaco cominciava a bruciare, perché i succhi acidi erano stati troppo tempo senza nulla da fare e avevano cominciato invece a corrodere le pareti del suo stomaco. Era una presenza costante, che cercava di mandare segnali al suo cervello per avvertirlo che stava morendo d'inedia.
Lui non voleva aiutarli, ma non avrebbe avuto altra scelta se non gli davano subito qualcosa da mangiare. E cosa non avrebbe fatto per abiti puliti e caldi, e cuscini e coperte …
Appena ebbe pensato a quelle cose confortanti, si rese conto che per averle avrebbe dovuto consegnare delle persone che fino ad ora si erano dimostrate innocenti, nel grande schema delle cose. Erano persone che non aveva ancora conosciuto bene – come era possibile conoscere qualcuno in pochi giorni? Ed ancora, si sentiva obbligato a proteggerli, come se fossero parte di lui.
Avvicinando di nuovo le ginocchia al petto, per ritenere quanto più calore fosse possibile, Nate aspettò il ritorno dell'agente O'Donnell. Si guardò il pollice rotto, che ora era due volte la dimensione normale ed aveva un colore tra il porpora e il nero; gli faceva male, ma non come la nuca.
Con amarezza, Nate pensò che l'agente era stato assolutamente preciso – l'impianto nel collo di Nate l'aveva ridotto ad essere il cane dell'FBI, per così dire, un animale domestico. Forse anche una cavia da laboratorio, che aspettava di ricevere una scossa se faceva la cosa sbagliata. E la sua vita non aveva ancora toccato il fondo.
Alla fine, le luci si affievolirono e Nate realizzò che la base si stava preparando alla notte - aveva visto succedere la stessa cosa diverse volte, le luci si spegnevano e tutti i movimenti fuori della sua prigione cessavano. In apparenza, l'agente non aveva altri progetti di tortura per lui quella sera.
Solo, nel buio, i pensieri di Nate corsero ad Annie e sentì una fitta di dolore. Sapeva che avrebbe dovuto odiarla, che qualcuno come Michael Guerin e probabilmente anche Isabel, la sorella di Max, l'avrebbero disprezzata per quello che aveva fatto. Ma loro non avevano conosciuto Annie, loro non erano praticamente cresciuti con lei e Nate si rese conto che non avrebbe mai potuto odiarla.
E così quella era la fine. L'immagine che O'Donnell gli aveva mostrato della scena del delitto, gli era sembrata abbastanza autentica – specie se si considerava il fatto che Kyle Valenti era lì. Sembrava improbabile che l'agente sapesse che Kyle aveva incontrato Nate e che avesse per questo, sovraimpresso la sua immagine sulle foto. No, Nate era quasi certo che quello che aveva visto era vero, che Annie era morta veramente.
Incapace di fermarle, le lacrime riempirono ancora gli occhi di Nate. Nella sua mente, vedeva un montaggio di tutti i ricordi di Annie – il suo sorriso, la sua risata, il sole che le brillava nei capelli, lei nella casa sull'albero che guardava i suoi seni reagire al freddo dell'autunno, poco prima che lui fosse partito per il suo viaggio. Quella era l'Annie che lui aveva conosciuto – non la Benedict Arnold, non la vile traditrice.
E lui la voleva ricordare così.
Il pensiero di Annie, la paralisi e lo stomaco vuoto, trattennero Nate dal crollare addormentato, quella notte. Gli mancava la forza per muoversi, così rimase semplicemente in posizione fetale sul pavimento, gli occhi fissi sulla confortante linea di luce sotto la porta. Era il segno che c'era vita fuori dalla sua prigione. Finché brillava la luce, il mondo avrebbe continuato ad andare avanti.
Gli occhi di Nate si spalancarono quando la striscia di luce si allargò in uno spicchio, poi in un triangolo mentre la porta si apriva silenziosamente. Stando al livello del pavimento, i suoi occhi videro per prime un paio di scarpe lucide, che camminavano ad una incredibile altezza, mentre una forma massiccia occupava la soglia della porta.
Immediatamente, il cuore di Nate accelerò i battiti nel suo petto, come se il solo ricordo fosse sufficiente a scatenare quella reazione. L'uomo sulla porta era l'agente Darmon e Nate si rese conto che i suoi propositi non erano certamente buoni. C'era un senso in tutto quello – l'agente O'Donnell non era più tornato, probabilmente perché si era incontrato con quell'alieno minaccioso per programmare quale tortura infliggergli.
Ansimando per la paura, mentre l'alieno entrava nella stanza, Nate cercò di rifugiarsi in un angolo. Darmon chiuse la porta dietro di lui e la stanza ripiombò nell'oscurità. La paura lo stava lacerando e Nate cercò di raccogliere gli ultimi residui della sua forza. Il suo sguardo vagò per la stanza, cercando disperatamente di sfuggire all'alieno.
"Stai zitto." sussurrò Darmon con un tono baritonale che fece sobbalzare Nate. Era più vicino di quello che si era aspettato.
"Ti prego, non farmi male." pregò Nate, chiudendo gli occhi e supplicandolo per tutto quello che aveva di più caro. Inconsciamente, si era portato una mano sul petto a coprirsi il cuore, cosa assurda visto che Darmon poteva fargli male senza nemmeno toccarlo.
Ma le parole che l'alieno pronunciò subito dopo, sorpresero Nate e gli fecero realizzare che lui non era quello che sembrava …
"Devi fidarti di me, se vuoi continuare a vivere."

Capitolo 27

Fidarsi di lui?! Nate cercò di rifugiarsi ancora più lontano nell'angolo, ma la sua schiena fu fermata dalla parete. Era nel buio più completo, con una creatura che aveva tutta l'aria di muoversi a suo agio nell'oscurità – la stessa creatura che lo aveva quasi ucciso non molto tempo prima. E lui pretendeva che Nate si fidasse si lui?
"Ascoltami." disse Darmon, con voce autoritaria. "Ho solo pochi minuti. Stanotte succederà qualcosa. Tieniti pronto."
Nate strinse le sopracciglia, cercando di vedere nel buio il suo visitatore. "Cosa succederà?"
"Limitati a tenerti pronto, Io sto dalla tua parte."
Nate fece una smorfia incredula. Nessuno che fosse stato dalla sua parte gli avrebbe fatto quello che gli aveva fatto quell'essere.
"Avrei potuto ucciderti, ma non l'ho fatto." disse Darmon senza mezzi termini. "Fidati di me. Allunga la mano."
Anche se non poteva vedere l'agente, Nate scosse la testa. Non gli avrebbe dato modo di avere accesso al suo corpo un'altra volta.
La voce di Darmon fu dura, quando parlò di nuovo. "Allunga la mano."
Ingoiando la sua paura, Nate tese la sua mano sana, ma tenne il gomito vicino al corpo, pronto a ritirarla se Darmon gli avesse fatto male. Qualcosa di pesante e liscio si posò sul suo palmo, la sua superficie fredda.
"Ricordati." disse Darmon, mentre la sua voce si allontanava. "Tieniti pronto."
Nate vide la porta aprirsi e chiudersi di nuovo, dopo che il gigante se ne fu andato. Rimase seduto nel buio per un lungo momento, le dita strette intorno all'oggetto che Darmon gli aveva dato, attento a qualsiasi altro movimento. Quando non sentì niente, prese l'oggetto con entrambe le mani per cercare di capire cosa fosse. Un arma di qualche tipo? Non gli sembrò – aveva una forma strana e un corto bastoncino che spuntava da una parte. Curioso, Nate si portò l'oggetto sotto il naso.
Immediatamente la saliva gli bagnò la bocca e il suo stomaco si strinse, dandogli ironicamente il bisogno di vomitare. Era una mela. Era così affamato che pensò immediatamente di darle un morso, ma la prudenza lo fece agire diversamente. E se fosse stata avvelenata? E se l'offerta di pace dell'agente Darmon fosse stato un Cavallo di Troia?
Nate era semplicemente troppo affamato per curarsene. Dette un morso alla mela e il succo dolce gli riempì la bocca, facendogli venire quasi le lacrime agli occhi. Si costrinse a mangiare il frutto lentamente, assaporando ogni morso, per timore che mangiandolo troppo in fretta avrebbe potuto rigettare ed avrebbe avuto di nuovo fame.
Alla fine le lacrime arrivarono, quando si rese conto che il primo atto di gentilezza che aveva ricevuto da quando era stato fatto prigioniero, era arrivato dalle mani di un alieno.
Quando ebbe finito la mela – torsolo compreso, per nascondere l'evidenza – Nate si mise in attesa di qualsiasi cosa l'agente Darmon aveva detto che sarebbe successo. Aspettò tanto tempo senza che accadesse nulla e pensò che forse le cose non erano andate come erano state programmate. Forse qualcuno aveva visto l'agente alieno entrare nella cella di Nate e gli aveva fatto qualcosa. Forse non sarebbe successo proprio nulla.
Alla fine Nate si addormentò, i suoi sogni pieni di immagini di Annie morta nel deserto, di Max Evans che veniva fatto a pezzi come un pesce persico del lago Erie. Le immagini si susseguivano nella mente di Nate, qualche volta velocissime, altre dolorosamente lente. Fino a che lei fu di nuovo davanti a lui, quella donna graziosa dai lunghi capelli biondi.
"Sh – non parlare." gli sussurrò. Le sue dita lunghe si posarono sul viso di lui, fermando ogni tentativo di parlare.
Nate socchiuse gli occhi e gli sembrò come se lei stesse tenendo la luce di una torcia sotto il suo mento – il genere di cosa che facevano lui e i suoi amici in campeggio. Fu allora che si rese conto che non stava più sognando e che Isabel era realmente davanti a lui, ordinandogli di fare silenzio.
"Max." sibilò, guardandosi dietro le spalle. "L'ho trovato!"
Immediatamente un'altra sagoma scura apparve dietro di lei. "Bel lavoro, Iz!" disse la voce di Max, pervasa dal sollievo e dall'eccitazione. "Aiutami a sollevarlo."
Nate sentì delle mani avvolgersi intorno ai suoi avambracci e lasciò andare uno strillo di dolore – in apparenza il dispositivo che l'agente O'Donnell gli aveva piantato nella colonna spinale aveva effetti che svanivano molto lentamente. Il dolore gli percorse il braccio, fino ad arrivare alle dita e dalla spalla si allargò fino allo sterno.
"Max, è ferito!" sussurrò Isabel , con la voce piena di pena per il nipote.
"Ho capito." rispose Max, la sua voce vicina all'orecchio di Nate. Fece un sospiro e si fermò per un istante. "Nate, puoi sentirmi?"
Il collo di Nate sembrava incapace a sostenere la sua testa, mentre si girava in direzione della voce di Max. Sembrava che, alla luce della torcia di Isabel, il viso di Max brillasse. Nate annuì stordito.
"Mi dispiace per il tuo dolore figliolo." disse Max. "Ma abbiamo pochissimo tempo per uscire da qui. Puoi mettere il braccio sopra la mia spalla?"
Nate sentì come se cercasse di sollevare il braccio fuori da un recipiente di pece fredda. Impiegando tutta la sua forza, posò il braccio sulla spalla di Max e si appoggiò contro di lui.
"Bene." disse Max, col sorriso nella voce. "Puoi mettere l'altro sulla spalla di Iz?"
Gli ci volle un po' di tempo, ma riuscì a posare il braccio sulla spalla della zia.
"Bene." disse Max. "Ora proveremo ad alzarti. Sei pronta, Iz?"
Insieme Max e Isabel si sollevarono lentamente, sotto il peso morto di Nate. Erano giorni che non si alzava in piedi e il movimento gli fece venire le vertigini – il trio ondeggiava sui piedi, muovendosi insieme come palme durante una tempesta.
"Dai, ce la puoi fare." disse Isabel, poggiandogli una mano sullo stomaco per aiutarlo. "Ci riposeremo un attimo, fino a che avrai recuperato il tuo equilibrio. Okay?"
Si fermarono un paio di secondi, fino a che Max si spinse a muoversi.
"Dobbiamo andare." disse. "Forza, Isabel. Sei pronta?"
Lei annuì. "Andiamo."
Max e Isabel ricominciarono ad andare verso la porta, mentre la luce di Isabel si faceva più fioca – a Nate ricordò una lanterna di Coleman che ha finito il combustibile. Nate trasaliva ad ogni passo che facevano, con il corpo che protestava per i giorni di abusi cui era stato sottoposto.
"Quando saremo fuori da questa stanza," gli sussurrò Max "dovremo camminare più svelti di così. Non ti preoccupare, non ti lasceremo indietro."
"Nessuno entra, nessuno esce." Le parole dell'agente O'Donnell gli risuonarono nella testa.
"Cosa?" sussurrò Isabel.
"Muoviti." replicò, concludendo che in quel momento Nate non era nella sua migliore forma mentale. "Nate, cerca solo di stare zitto, d'accordo?"
Raggiunsero la porta e Max l'aprì lentamente. Isabel sporse la testa nel corridoio e fece un cenno a Max; lui spinse la porta per aprirla del tutto. Immediatamente una luce forte, accecante colpì Nate sul viso e lui indietreggiò dal bagliore.
"Tutto bene." gli sussurrò in fretta Max. "Limitati a seguirci. Andrà tutto bene."
Il gruppo si mosse a fatica lungo il corridoio illuminato, tanto quanto glielo permetteva le condizioni di Nate, praticamente incapace di tenersi in piedi. Per giorni si era chiesto cosa ci fosse oltre la sua cella – c'erano scrivanie e sedie e uffici solo a pochi passi da dove lui veniva tenuto prigioniero?
Quello che scoprì è che non c'era nulla fuori dalla sua cella. Niente di più di una lunga galleria di cemento. Le pareti grigie erano umide di condensa, l'aria pesante che puzzava di muffa. Nate si ricordò di quando aveva visitato le cascate del Niagara ed aveva fatto una gita dietro le cascate – le gallerie che aveva visto erano proprio come quella.
"Speriamo che Michael sia riuscito a mantenere disabilitate le telecamere di controllo." sussurrò Max a Isabel.
"Speriamo." rispose lei, col la voce tesa dallo sforzo fatto per sostenere Nate. "Andiamo, non manca molto."
In lontananza, Nate vide una porta, quasi certamente una porta che dava sul mondo esterno e a quel punto decise che era tutto un sogno. Era impossibile che scappare fosse stato così facile. Tutto quello che mancava era qualcuno che aprisse quella porta e gli mostrasse il mondo esterno? Era questo? No – doveva essere un sogno.
"Dannazione!" disse Max all'improvviso. "Da questa parte!" E con ciò, spinse il gruppo in una piccola rientranza della parete. Nate gemette al movimento improvviso.
Caddero sul pavimento, cercando di togliersi dalla visuale e Isabel prese il viso di Nate tra le mani.
"Ascoltami." gli disse, nonostante non muovesse le labbra – stava parlando nella sua testa? "Ora devi fare silenzio. Se ci prendono, è tutto finito."
Si strinsero l'uno all'altro e Nate sentì un rumore di passi sul pavimento duro della galleria – più di un solo paio di scarpe, pensò. Max aveva gli occhi spalancati, mentre scambiava uno sguardo preoccupato con sua sorella.
"Credo che dovremo provare i test della Serie A per primi." stava dicendo la voce dell'agente O'Donnel, avvicinandosi nella loro direzione. "Non sono troppo invasivi – potrebbe essere meglio per noi se cominciamo con qualcosa di poco doloroso."
Nate deglutì. Stavano parlando di quello che avevano intenzione di fare a lui, alla loro cavia personale. Ed era chiaro che non immaginavano che il loro topo aveva trovato la via di fuga dalla gabbia. Girò stancamente la testa verso Isabel, che si poggiò un dito sulle labbra.
Presto l'agente e i suoi scagnozzi sarebbero passati davanti alla rientranza dove il trio stava tentando di nascondersi. I loro passi erano lenti, non sembravano aver capito di avere perso la loro preziosa vittima. Apparentemente Michael era riuscito a tenere le telecamere disabilitate. Le loro teste si girarono contemporaneamente, per vedere gli uomini dell'FBI che proseguivano nel lungo corridoio. La cosa brutta era che non c'erano curve o angoli sulla parete, era una linea in piena vista tra la porta di uscita e la stanza dove stava Nate.
"Isabel." sussurrò Max. "Dobbiamo andare. Tra un paio di secondi si accorgeranno che lui è sparito e rimarremo intrappolati." Guardò Nate come a volersi scusare. "Dovremo fare una corsa."
Isabel annuì il suo accordo, sebbene Nate potesse vedere l'apprensione nei suoi occhi scuri. "Mi dispiace, Nate." gli disse. "Cerca di fare del tuo meglio – io e Max ti aiuteremo."
I due fratelli rimisero Nate in piedi, poi dettero uno sguardo al corridoio. Max fece un cenno di assenso e saltarono fuori dal loro riparo, dirigendosi verso l'uscita più in fretta possibile. Nel corpo di Nate, tutte le ossa e tutti i muscoli protestarono e per non gridare, lui dovette mordersi le labbra.
"Ci siamo quasi." mormorò Isabel. "Ci siamo quasi."
Mancavano un paio di metri all'uscita, quando all'improvviso la luce si spense. Per alcuni, agonizzanti momenti nella galleria scese un buio assoluto, poi tutto fu avvolto da un riverbero rosso, il colore di allarme per un pericolo imminente.
"Cercate dappertutto." sentirono urlare l'agente O'Donnel, seguito dal rumore di passi nel corridoio.
"Dannazione!" disse Max, cercando di aprire la porta "Muoviamoci."
Si spinsero in avanti, la salvezza quasi a portata di mano. Nate avvertì che dall'altra parte c'era la libertà, poté quasi sentire l'aria fresca e aperta sulla sua faccia. Fuori da lì lo aspettavano protezione, cibo e abiti caldi. La speranza cominciò a farsi strada, come un calciatore che correva verso la rete.
Uno straziante, debilitante dolore passò nella spina dorsale di Nate, causandogli tremende convulsioni, così violente da farlo sfuggire alla presa dei suoi liberatori e cadere in terra.
"Che diavolo …!" urlò Max con la voce piena di incredulità.
"Oh, mio Dio!" disse Isabel, inginocchiandosi accanto a lui. "Max, ha una specie di congegno sulla nuca!"
Il corpo di Nate era sconvolto dall'attacco, gli occhi rovesciati, la spina dorsale piegata ad angolo. Poteva sentire le loro voci, ma non poteva controllare il suo corpo.
Poi tutto finì e lui giacque immobile, fissando il soffitto.
"Oh, Dio." disse Isabel, prendendolo per un braccio. "Portiamolo fuori di qui."
Max annuì, prendendo l'altro braccio di suo figlio. Ma Nate non riuscì a rimettersi in piedi – le sue gambe erano troppo deboli per la scossa che aveva appena ricevuto. Imprecando sottovoce, Max prese Nate all'altezza della vita e lo appoggiò sulla sua spalla.
"Apri la porta, Iz." le ordinò.
Isabel corse verso la porta e l'aprì velocemente – e indietreggiò. Dall'altra parte li aspettavano, con le armi spianate, diversi uomini in abito scuro. Respirò affannosamente e guardò dall'altro lato del corridoio. Nate seguì la linea del suo sguardo e vide O'Donnel e i suoi tirapiedi che si stavano avvicinando velocemente.
Erano in trappola.

Capitolo 28

Isabel fece un paio di passi indietro, per evitare che gli uomini che erano fuori dalla porta si scontrassero con suo fratello, che stava portando Nate sulla spalla, come un sacco di grano.
"Max." gli disse per avvertirlo.
Max si girò per guardare nel corridoio il piccolo esercito dell'agente O'Donnell che si stava avvicinando e il movimento fece agitare lo stomaco di Nate. Dentro di sé si stava arrendendo al suo destino – non sarebbero mai più usciti da lì. Era arrivato a consegnarsi perché l'FBI lasciasse stare Max e gli altri – ma ora sembrava che Max e Isabel si fossero cacciati in trappola.
"Max." ripeté Isabel, con la voce sempre più preoccupata.
Gli uomini alla porta li stavano respingendo, forzandoli ad avvicinarsi al torturatore di Nate e ai suoi scagnozzi. Max chiuse gli occhi, come se stesse contando, poi ci fu uno scoppio di elettricità nell'aria e uno degli uomini che stava attaccando Isabel cadde in terra. Un secondo dopo cadde anche l'altro uomo.
"Vai!" urlò Max.
Isabel si diresse verso l'uscita, ma mentre lo faceva spedì verso l'alto una carica di luce bianca. Gli occhi stanchi di Nate la videro partire, troppo stordito per preoccuparsi di eventuali danni alla retina, e quando toccò il soffitto, migliaia di pezzi di cemento cominciarono a cadere a terra – Isabel aveva cercato di creare una barricata tra loro e gli uomini di O'Donnell.
Una volta fuori, furono accolti da due facce familiari – Liz e Alyssa. Immediatamente, il gruppo si allontanò dall'edificio.
"Baby, l'hai fatto tu?" Max fece una mezza risata, indicando i due uomini dell'FBI caduti a terra.
"Ne ho fatto fuori solo uno." rispose Liz, col disgusto nella voce. "Ma non preoccuparti, mi sono limitata a stordirli, anche se si sarebbero meritati di morire. Maledetti!"
"Liz!" la sgridò Max, continuando a ridere. Apparentemente Max era scioccato dalle imprecazioni di Liz, proprio come lo era stato Nate con Annie.
"E io mi sono occupata dell'altro!" disse Alyssa contenta, camminando con passo veloce accanto a loro. I suoi occhi si posarono su Nate che pendeva sopra la spalla di Max e il suo sorriso svanì. "Sta bene, zio Max?"
"Certamente." rispose Max, ma a Nate sembrò di sentire un senso di falso ottimismo nella voce. "Sbrighiamoci ed usciamo da qui, okay? Non voglio dar loro il tempo di riprenderci."
Mentre il gruppo si muoveva attraverso i cespugli e la recinzione maltenuta, Nate cominciò a chiedersi come fossero arrivati lì. Non vedeva nessun tipo di veicolo militare – nessun elicottero, nessuna jeep, niente – e l'area non gli sembrò così sicura come aveva immaginato dovesse essere l'Area 51. Era possibile che l'agente O'Donnell gli avesse mentito sul posto deve l'aveva portato … eppure Max e la sua squadra erano stati capaci di ritrovarlo.
Dopo una piccola, ma stancante corsa tra i cespugli che arrivavano alle ginocchia, il gruppo arrivò ad un van parcheggiato in una stradina polverosa. Dietro il volante c'era Maria Deluca, con le mani fermamente piantate sulla posizione delle dieci e dieci. Subito dopo averli scorti sul retrovisore, tirò la testa fuori dal finestrino e respirò forte.
"Mio Dio!" squittì. "L'avete preso!"
Liz fece scorrere la portiera e Max depositò Nate sopra un sedile, col corpo dolorante per il movimento.
"Tieniti pronta a partire." Liz ordinò a Maria, che cominciò a girare la chiave d'accensione.
"Sta bene?" chiese Maria, cercando a tentoni l'interruttore dei fari.
"Niente luci." la mise in guardia Isabel.
Maria rigirò e guardò l'aliena con le lunghe gambe, che era saltata su un sedile dell'ultima fila, con Max accanto a lei; Alyssa prese il sedile di mezzo, accanto a Nate, posandosi immediatamente la sua testa dolorante in grembo.
"Non posso guidare al buio!" si lagnò Maria.
Liz balzò sul sedile del passeggero. "Vai, Maria."
Maria si girò con la faccia preoccupata e mise in moto il van. "Dov'è Michael?" chiese, con voce smarrita e spaventata.
"Ci aspetta al cancello." la informò Max, chinandosi sul sedile occupato da Nate e da Alyssa.
Nate aveva chiuso gli occhi, nauseato dal movimento del van.
"Maria, puoi andare più svelta?" chiese Liz, guardando il contachilometri. "Stai andando a 40 chilometri l'ora, Maria! Ti sei dimenticata che siamo inseguiti dall'FBI?"
"Non gridare con me!" si lamentò Maria. "Ti ho già detto che non posso guidare al buio!"
"Oh, Signore, lascia guidare me!" disse Isabel, cominciando a scavalcare il sedile di Alyssa e Nate
Nate vide la sua scarpa sospesa sopra la testa, poi tutto diventò di nuovo confuso. Il dolore ormai familiare cominciò a corrergli per le braccia e le gambe procurandogli nuove convulsioni. Questa volta, sentì Alyssa gridare per l'orrore.
"Cosa c'è?" gridò Maria dal sedile del guidatore con lo stesso tono di voce. "Che sta succedendo?"
"Zio Max!" disse Alyssa, rivolgendosi a Max senza girarsi a guardarlo. "Sta succedendo qualcosa!"
"Dannazione!" disse irosamente Max, spostando Isabel e scavalcando lui stesso il sedile. "Nate! Nate, puoi sentirmi?"
Si, lo sentiva, ma non poteva fare nulla per rispondere. Non poteva fare nulla per controllare il suo corpo, in quel momento.
"Sta bene?" disse la voce di Liz.
"E' quello il cancello?" la domanda venne da Maria.
"Accosta e fa' salire Michael." ordinò Isabel.
Poco dopo che il van si fu fermato, l'attacco epilettico di Nate diminuì e questa volta fece fatica a rimanere cosciente. Sentì Michael ordinare a Maria di lasciarlo guidare, ne seguì una breve discussione, poi la portiera del van si aprì e si richiuse. Dalla velocità con cui il van ripartì, Nate capì che Maria aveva perso.
"Cosa c'è che non va in lui?" chiese Alyssa, con un tono di voce preoccupato e spaventato.
"Ancora non lo so, tesoro." disse Max, mentre la sua mano scivolava sul corpo stremato di Nate
"Puoi guarirlo?" Sembrava una bambina di cinque anni la cui bambola preferita avesse perso un braccio. Continuò ad accarezzare i capelli di Nate, cercando di confortarlo.
"Certo che posso." disse Max sembrando lo zio che stravedeva per la nipotina e che per lei avrebbe fatto tutto. Sottovoce, mormorò "Cosa ti hanno fatto, Nate?"
Nate avrebbe voluto dirglielo. Avrebbe voluto dire che c'era un transistor in miniatura di qualche genere impiantato nella sua colonna spinale e che se qualcuno l'avesse toccato, lui probabilmente sarebbe morto o rimasto paralizzato. Avrebbe voluto dire che, probabilmente, non sarebbe mai più stato in grado di tenere una penna con la sua mano dominante. Avrebbe voluto dire che aveva visto quello che avevano fatto a Max e che lui non avrebbe resistito a tutto quel dolore.
Nate avrebbe voluto dire a Max tutte quelle cose, ma non riusciva a trovare in se stesso la forza per parlare.
"Uh, zio Max?" disse Alyssa.
"Si?"
"C'è … qualcosa nel suo collo."
Dentro di sé Nate cominciò ad urlare. Non toccatelo. Mi ucciderete!
"Cosa c'è?" chiese Max, prendendo cautamente Nate per le spalle e girandolo da un lato.
Fece passare le sue dita sulle vertebre di Nate, fino a che trovò il posto dove era stato impiantato il dispositivo – e appena lo sfiorò, Nate sussultò.
"Iz." disse svelto Max. "Ho bisogno di luce."
Dopo un attimo, una strana luce fioca si accendeva nel van.
"Sbrigati!" lo avvertì Michael dal sedile del guidatore.
Nate chiuse gli occhi e sobbalzò, quando Max toccò ancora il chip.
"E' nella sua colonna spinale." osservò Max sommessamente.
"Puoi tirarlo fuori?" la voce di Alyssa era sempre più spaventata.
"Credo di si, credo …"
"No." gemette Nate.
Max si chinò su di lui. "Cosa stai dicendo, Nate?"
"No." ripeté "Non puoi …"
"Devo farlo, Nate" disse Max scusandosi. "Probabilmente è per questo che hai avuto quegli attacchi. Se non lo togliamo, sarà sempre peggio."
Nate scosse la testa, sentendo le lacrime che cominciavano a scendere dai suoi occhi. Stavano per renderlo paralitico – tutti loro.
"Cosa posso fare per aiutarti?" disse Alyssa, nella cui voce il coraggio aveva preso il posto della paura.
"Tienigli solo la mano." disse Max." "Dagli qualcosa da stringere. Non so quanto potrà essere doloroso."
"Okay." disse lei, chinandosi e prendendo la mano di Nate.
Nate tentò di spingerla via, di dirle che quello che volevano fare non era una buona idea, ma lei era risoluta e strinse ancora più forte le sue dita. Se non altro, gli aveva preso la mano che non era ferita.
"Sbrigati." lo mise ancora in guardia Michael.
"Iz, ho bisogno di più luce." disse Max.
L'interno del van si illuminò ed Alyssa si chinò sull'orecchio di Nate. "Sento che c'è una connessione tra di noi." gli sussurrò, ripetendo le parole che aveva detto alla lavanderia. "La senti anche tu, Nate?"
Incapace di fermarsi, Nate singhiozzò, sapendo che quella poteva essere la fine della sua vita, che non avrebbe potuto sperimentare quella connessione fuori dal comune con quella ragazza fuori dal comune.
"Dammi il tuo dolore." gli disse, col voce sempre più dolce." Noi siamo connessi. Il tuo dolore è il mio dolore."
"Ci siamo." avvertì Max, con la mano posizionata sul collo di Nate
In anticipazione, Alyssa strinse forte le sue dita. "Sono qui." gli disse Alyssa per rassicurarlo.
Col raccapricciante rumore del metallo che strideva sull'osso, il dispositivo scivolò lentamente fuori dal collo di Nate. Mentre prima era senza voce, ora si rese conto di poter parlare a voce alta, se lo voleva – e le sue grida di dolore riempirono il van, mentre tutti i nervi del suo corpo reagivano alla rimozione dell'oggetto. Nate strinse le dita di Alyssa finché pensò che si sarebbero rotte, con le sue grida di agonia che aumentavano man mano che la rimozione del dispositivo si completava. Era come se il suo corpo si fosse abituato a lui e non volesse farne a meno.
Con un ultimo schiocco, il chip scivolò fuori dalla spina dorsale di Nate. Comunque, avrebbe dovuto aspettare per sapere se era rimasto paralizzato.
Perché il dolore insopportabile, alla fine, gli aveva fatto perdere conoscenza, facendolo sprofondare in un sonno senza sogni.

Capitolo 29

Nate si svegliò con un sussulto, col respiro che gli usciva dal corpo in forti ansiti. Ancora leggermente incoerente, fissò gli occhi sul soffitto, su uno strano triangolo di luci che danzavano in un mare di bianco. Batté gli occhi diverse volte, poi si rese conto di non essere più imprigionato nella cella, che non era sdraiato su un terreno duro e freddo. Piuttosto il contrario – era in una luminosa stanza, decisamente femminile, con un soffice materasso sotto il suo corpo maltrattato.
Non che in quel momento sentisse dolore. Infatti, se non fosse stato per i persistenti ricordi delle torture che aveva subito, non c'erano prove fisiche di tutto quello che aveva sopportato. Tranne i brividi. Non sarebbe mai più riuscito a riscaldarsi.
Il viso di Alyssa Guerin era sospeso sopra di lui, sorridente, con i capelli biondi legati a coda di cavallo. "Vedi?" gli disse con quel tono scherzoso che le era mancato di recente. "Lo sapevo che sarei riuscita a portarti nel mio letto."
Nate cercò di sorridere, ma debolmente. Scuotendosi, si girò su un fianco, portando le ginocchia contro il petto e cercando di trovare rifugio sotto le coperte che erano sopra di lui. "Sento così freddo." disse rabbrividendo.
Alyssa si alzò in piedi, andò verso l'armadio e ne tirò fuori una trapunta. Nate seguì i suoi movimenti nella stanza e scoprì che il triangolo si luce sul soffitto era il riflesso che veniva da un mobile appeso accanto alla finestra.
Allargando la coperta sul suo paziente, Alyssa disse "
"Hai la febbre. Zio Max pensa che tu abbia qualche infezione."
Nate la guardò mentre gli sistemava la coperta. "Dov'è ora?"
"Lui e papà dovevano occuparsi di qualche affare in sospeso." Si fermò e diede a Nate un'occhiata di scuse. "Non so dove siano andati – non sempre mi mettono al corrente di quello che fanno."
Nate annuì contro il cuscino e fu allora che si rese conto di avere la piena mobilità di tutti gli arti, il che voleva dire che la rimozione del dispositivo fatta da Max, non lo aveva lasciato paralizzato. Come sabbia che scendeva in una clessidra, i ricordi della fuga dalla base dell'FBI cominciarono a riaffacciarsi.
"Da quanto tempo sono qui?" chiese, mentre Alyssa aveva preso una rivista e si era seduta su una sedia accanto al letto.
"Solo da ieri sera. Dodici ore, probabilmente." rispose lei, mettendo da parte il giornale.
Lo sguardo di Nate si posò oltre le spalle di lei, sulla carta da parati a fiori rosa e sulle tende di merletto bianche. "Dove sono?"
Alyssa era raggiante. "Nella mia stanza. A casa di mia madre."
A casa di sua madre? Il posto sembrava avere almeno cinquant'anni e sembrava troppo misero per una persona che aveva venduto un milione di dischi.
"Era la casa di mia nonna." spiegò Alyssa. "Prima che morisse." Girò lo sguardo per un momento e Nate si chiese se la sua perdita fosse recente. "E' per questo che mia madre non ha inciso altri dischi da cinque anni. Nonna aveva un tumore e mamma lasciò la sua carriera per tornare a casa e prendersi cura di lei."
"Mi dispiace." disse Nate, rattristato.
"Va tutto bene." Alyssa gli fece un pallido sorriso. "Almeno ho avuto la possibilità di passare qualche altro anno con lei, sai?" I suoi occhi scuri si distolsero da Nate, poi si guardò le mani. "Nate, sai già … sai già di Annie?"
Una sensazione di amarezza passò attraverso il corpo di Nate e lui annuì.
Alyssa si morse un angolo delle labbra, i suoi occhi tristi. "Mi dispiace per lei, Nate. So che era la tua ragazza e …"
Nate odiò il pensiero di dover rivolgere quella domanda proprio ad Alyssa, ma aveva bisogno di sapere. "Chi l'ha uccisa?" le chiese, cercando di mantenere neutro il tono della voce.
Alyssa aggrottò le sopracciglia. "Huh?"
"E' stato tuo padre? Max? Isabel? O è stato qualcuno dell'FBI?"
"Nate, non so di cosa tu stia parlando -"
In quel momento, la porta si aprì, lasciando entrare Liz.
"Alyssa, tua madre ti vuole." disse, spostandosi accanto alla sedia di Alyssa.
"Okay." rispose lei, alzandosi e dirigendosi verso la porta, ma non senza aver lanciato a Nate un'occhiata confusa.
Nate notò la sua espressione e si chiese perché lei ritenesse così strana la sua domanda. Ma lei se ne andò e Liz Evans si sedette accanto a lui. Prima ancora che lui potesse salutarla, si sentì poggiare un panno bagnato sulla fronte, una sensazione estremamente gradevole.
"Come ti senti?" chiese Liz sistemandogli il panno sulla fronte.
"Sono stato meglio." rispose lui, cercando di stringersi nelle coperte. Poi fece una scrollata di spalle. "Ma sono stato anche peggio."
A quella risposta, Liz fece un mezzo sorriso.
"Grazie." le disse lui con sincerità. "Per avermi aiutato. So che quello che ho fatto è stato molto stupido e che ho messo tutti in pericolo a causa mia."
"Ma tu hai credevi di far la cosa giusta." finì lei al suo posto, rimettendosi a sedere sulla sedia e lasciando il panno sulla sua fronte.
Nate si accigliò. "Perché tu non sei furiosa per quello che ho fatto?"
Liz fece una risatina. "Perché tu e Max siete fatti della stessa stoffa, Nate. Sto sopportando il suo senso di responsabilità e di sacrificio ormai da quasi vent'anni."
Nate non era sicuro se quello fosse un rimprovero o un complimento. Comunque, se di una cosa era sicuro era l'apprensione che aveva visto negli occhi di quella donna, la prima volta che l'aveva visto. "Ma sono fatto anche della stoffa di mia madre." disse prudentemente.
Liz rimase in silenzio, la faccia priva di espressione.
"So quello che devi aver provato nei suoi confronti." continuò Nate. "Maria mi ha raccontato cosa è successo, come io sia il risultato del tradimento di mia madre. Non ti biasimerei se mi odiassi."
Prima di rispondere, Liz fissò a lungo il pavimento. "Io non ti odio, Nate." disse sollevando la testa. "E' vero che non mi piaceva tua madre. Se Maria ti ha raccontato quello che è successo, allora ne conosci già le ragioni e non ha senso per me rivangarle. Ma sarebbe ingiusto odiare te perché odiavo lei."
"Ma io sono il ricordo costante di quello che ha fatto." disse Nate sottovoce.
Liz fece un leggero segno di assenso. "Per molto tempo forse lo sei stato. Poi, col passare del tempo, ti rendi conto che c'è una ragione per tutto quello che succede e che provare rancore per un bambino che non ha chiesto di nascere, non è giusto."
"E che ragione può esserci per tutto questo?"
Liz sollevò l'angolo della bocca in un sorriso astuto.
"Forse non lo sapremo mai. Una volta ho detto a tuo padre che ci potrebbe essere una forza più grande di noi che ha programmato la nostra vita. Forse c'è una ragione per tutto questo e forse non sempre siamo destinati a conoscerla."
Lo sguardo di Nate tornò a posarsi sul mobile che scintillava accanto alla finestra. Che ragione poteva esserci perché lui fosse torturato nel modo in cui lo era stato? Alla fine, cosa ne era uscito fuori di buono – o di cattivo? A lui era sembrata una cosa inutile e senza senso, che aveva avuto come unico risultato un profondo senso di vuoto e di scoraggiamento nel profondo della sua anima.
Dita calde gli carezzarono la guancia e lui guardò in su per vedere Liz china sopra di lui, con una espressione dolce.
"Perché sei così gentile con me?" le chiese pacatamente, vinto dalla curiosità.
"Perché sei solo un ragazzo che credeva di fare la cosa giusta. Non ti meritavi quello che ti è successo, Nate." Uno sguardo addolorato passò nei suoi grandi occhi scuri. "Io riesco a sentire quello che stai provando dentro di te. So che sei triste per tante ragioni. So che in questo momento stai pensando che il mondo è un posto schifoso. Ma non devi tenerti tutto dentro. Permettici di aiutarti, okay?"
Nate sentì una sensazione pungente dietro gli occhi. Liz Evans era una estranea, una persona che sua madre aveva trattato piuttosto male – eppure gli stava offrendo il suo aiuto per uscire dall'incubo cui era appena sopravvissuto. La sensazione prese una forma liquida, quando lei tolse il panno bagnato dalla fronte, per posarvi sopra un bacio.
Liz inclinò da una parte la testa, sorridendogli dolcemente e asciugandogli le lacrime con la punta delle dita. "Te la senti di alzarti?" gli disse. "Maria ha preparato una zuppa e potresti alzarti per mangiare qualcosa."
Lui annuì e ricacciò indietro quello che restava delle lacrime.
Liz gli spostò le coperte e Nate fu immediatamente colpito dall'aria fredda, cominciando a tremare. Per la prima volta guardò cosa aveva indosso e vide che indossava un paio di pantaloni e una vecchia maglietta dei Metallica, con il disegno logoro e sbiadito – sia i pantaloni che la maglietta, troppo grandi per lui.
"Quelli sono di Michael." rise Liz. "Meglio quelli che qualcosa di rosa e frivolo."
Mentre Nate faceva scivolare lentamente le gambe oltre il bordo del letto, fece una smorfia e un sorriso nello stesso tempo. Liz gli prese le mani e lo aiutò ad alzarsi, con le gambe che ancora lo reggevano a malapena.
"Ce la fai?" gli chiese, incoraggiandolo.
Lui annuì, facendo profondi e stanchi respiri.
"Vieni, lascia che ti dia una mano." gli disse, facendosi scivolare un braccio di lui attorno alle spalle. Lei era una donna minuscola, tuttavia Nate le fu grato dell'aiuto. "Camminiamo lentamente, Nate. A piccoli passi."
Insieme, si avviarono in corridoio e Nate fu sollevato nel vedere che casa dl era piccola e che la cucina non era molto lontana dal suo letto. Lui e Liz si spostarono di pochi passi alla volta, fino ad arrivare al tavolo, dove Liz prese una sedia e lo aiutò a sedersi.
"Ehi, guarda chi si è alzato!" lo prese in giro Maria dai fornelli.
Nate le indirizzò un debole sorriso. L'aroma del brodo di pollo riempiva tutta la cucina e gli fece venire l'acquolina in bocca.
"Maria prepara il miglio brodo di pollo in assoluto." disse Liz. "Il migliore!"
Maria andò alla credenza e ne prese una scodella. "Ho spedito il sedere scontroso di Alyssa a comprare dei crackers, ma dovrebbe tornare subito." spiegò. Stando davanti ai fornelli, prese un mestolo di brodo dalla pentola e lo mise nella scodella. Poi la posò davanti a Nate.
Dal piatto si alzò il vapore e Nate chiuse gli occhi per godersi il profumo della zuppa. Maria gli porse un cucchiaio e un tovagliolo e lui la ringraziò con un sorriso.
"Grazie, signora." le disse.
Maria fece una smorfia, poi scoppiò a ridere. "Signora!" gli fece eco, girandosi per preparare una porzione di zuppa per Liz e per se stessa.
Le orecchie di Nate divennero rosse e Liz rise di soppiatto al suo imbarazzo.
"Mi ha chiamato 'signora', Liz." rise Maria, posando una tazza davanti alla sua amica.
"E' meglio di come ti chiamerei io." rispose Liz, strizzando, con complicità, un occhio in direzione di Nate.
Nate sorrise al suo scherzo.
"Sono sicura che tu mi chiameresti in un modo decisamente peggiore." disse Maria, sedendosi davanti alla sua scodella. Strinse il braccio di Nate facendolo sobbalzare. "Santo Cielo, ragazzo! Comincia a mangiare!"
"Si, signo … Maria." farfugliò Nate, prendendo il cucchiaio e chinando la testa sulla scodella.
Maria rise apertamente alla sua espressione, allungando una mano per dargli un pizzico sulla guancia. "Dio, sei identico a tuo padre."
Nate sorrise imbarazzato, poi si concentrò nel mangiare la zuppa e nel non attirare l'attenzione. Sembrava come se tutti l'avessero compreso e gli avessero perdonato l'errore tattico di consegnarsi all'FBI. O, quanto meno, Alyssa, Maria e Liz l'avevano fatto.
Nate non era sicuro di poter dire la stessa cosa di Michael Guerin. In qualche modo Annie O'Donnel era stata uccisa e Michael era il primo sospettato di Nate. E se Michael era stato capace di uccidere una ragazza, sarebbe sicuramente stato capace di uccidere Nate.

Capitolo 30

Nate stava galleggiando, il corpo finalmente caldo. I suoi occhi erano socchiusi mentre le onde leggere lo lavavano, mandando un profumo di petali di rosa. All'inizio aveva protestato per l'aggiunta del sale, ma adesso che i suoi muscoli doloranti cominciavano a sciogliersi, ne era contento. La pancia piena, il corpo caldo, Nate cominciò a rilassarsi.
Quasi.
Una piccola parte di Nate sapeva che non sarebbe mai più stato capace di rilassarsi, che la beata sensazione che aveva provato pescando sul molo con suo padre ora era rimpiazzata dalla costante necessità di guardarsi alle spalle. L'FBI ormai lo conosceva, l'aveva conosciuto da tutta la vita. La cosa ingiusta era che lui lo conoscessero, prima ancora che lui conoscesse se stesso.
C'era stato un tempo in cui Nate aveva pensato che il suo futuro significasse Annie, forse mettersi in affari per conto proprio e una masnada di bambini dai capelli rossi. Ora si chiedeva se il suo futuro consisteva nella costante paura che le persone che amava fossero prese e torturate come lo era stato lui. Ora Nate capiva perché Liz Evans aveva deciso di non avere bambini - lui non sarebbe sopravvissuto al pensiero che uno dei suoi bambini fosse passato attraverso quello cui era passato lui.
Non che quell'argomento avesse impedito a Michael e Maria e ad Isabel di avere figli. Mentre capiva che la decisione di essere genitori era comunque molto personale, non era sicuro di cosa rendesse Liz così agitata in proposito, mentre gli altri non lo erano.
La porta del bagno si aprì e Nate sobbalzò, facendo uscire un po' d'acqua dalla vasca. Con suo grande orrore, Alyssa era entrata, e sembrava non fare caso al fatto che lui era completamente nudo nel acqua del bagno.
"Uh, ciao?" le disse perplesso, cercando di coprirsi con le mani.
"Cosa?" chiese lei, poi si rese conto della situazione. "Oh, scusa."
Sorridendo e tenendo gli occhi chiusi, cercò a tastoni il portasciugamani, prendendo alla cieca uno strofinaccio da cucina. Lo trovò, poi tornò alla vasca. Esitò, prima di porgerglielo.
"Uh, è grande abbastanza?"
Nate socchiuse gli occhi, incredulo. "Si. Ti dispiacerebbe passarmelo?"
Alyssa rise e glielo porse. Nate lo prese in fretta e lo usò per coprirsi. Lei fece un paio di passi indietro, fino a quella che supponeva essere una rispettabile distanza ed aprì gli occhi.
"Hai visite." gli disse.
Nate sollevò un sopracciglio. Visite? Era strano, visto che a Roswell non conosceva nessuno. Per un attimo sperò che fossero Jonathan ed Emma, semplicemente perché gli mancavano tremendamente.
"Si?" riuscì a dire, accertandosi che lo strofinaccio non galleggiasse.
"Sono solo io." disse una voce dal corridoio e Nate ed Alyssa si voltarono per vedere il vicesceriffo Valenti.
Alyssa lanciò a Nate un'ultima occhiata, con gli occhi posati sullo strofinaccio, prima di scusarsi con un ghigno. Kyle entrò e si levò il cappello.
"Ho qualche notizia per te, Nate." disse e Nate capì che si trattava di una cosa ufficiale e non di una visita privata.
"Cosa c'è?" chiese.
Kyle indicò la porta. "Perché non ti vesti e mi raggiungi in cucina? Di certe cose è meglio parlare quando si è vestiti." Guardò la tovaglietta e fece un sorrisino furbo. "Non hai bisogno di qualcosa più grande di quello, huh?"
Nate arrossì, mentre l'agente usciva. Kyle Valenti era l'uomo di legge più strano che avesse mai conosciuto.
La preoccupazione rannuvolava la mente di Nate mentre si vestiva più in fretta possibile. Cominciava a sentirsi meglio, ma non si era ancora ristabilito al cento per cento. Aveva sperato, infatti, di poter dormire un po' dopo aver fatto il bagno, ma era sicuro che con la visita del vicesceriffo avrebbe dovuto rinunciare a quel desiderio.
Trovò l'agente seduto da solo al tavolo della cucina, mentre sorseggiava una tazza di caffé. Liz, Maria e Alyssa erano praticamente scomparse.
"Siediti, Nate." disse Kyle, indicandogli la sedia di fronte a lui.
Nate scostò la sedia e si sedette lentamente. Qualunque notizia quest'uomo avesse da dirgli, non era di certo buona.
"Andrò diritto al sodo – soprattutto perché mi manca la fantasia per girare attorno alle parole." Kyle ammiccò, poi si fece serio. "Ho avuto dal medico legale i risultati dell'autopsia di Annie O'Donnell."
Nate sentì formarsi un groppo nella sua gola. C'era una domanda per la quale voleva una risposta, ma anche una alla quale non voleva rispondere. Non voleva sentire i dettagli di come era morta – voleva solo sape chi era il responsabile. "Si?" chiese semplicemente.
"Choc anafilattico." annunciò Kyle, con voce professionale, mettendo da parte il suo solito modo di fare.
Nate si accigliò confuso. Non sapeva cosa fosse.
Kyle gli fece un cenno con la testa, capendo che aveva bisogno di una spiegazione. "E' una reazione allergica, molto comune dopo la puntura di un'ape."
"Annie è morta per la puntura di un'ape?" chiese Nate, incredulo. "Ma Annie non era allergica alle api."
Kyle scosse la testa. "No, è morta per una reazione allergica a qualcosa di simile a una puntura di ape. Il medico legale pensa che sia stata la puntura di uno scorpione o il morso di un serpente." L'agente fece una pausa, gli occhi azzurri pieni di una compassione che Nate non si sarebbe mai aspettato da lui. "Mi dispiace, Nate."
Gli occhi di Nate erano fissi sulla zuccheriera, ma nella sua testa c'era il pensiero di Annie punta o morsa. Dopo tutto, era stato lui a spingerla a correre nel deserto. Michael Guerin e l'FBI non c'entravano nulla – era stato Nate. Dolore e auto accusa fecero un buco nel suo cuore.
Il vicesceriffo spinse in fuori la sedia e si alzò in piedi, tenendo il cappello in mano. "Ho pensato che avresti voluto saperlo."
Nate annuì senza alzare lo sguardo, gli occhi ancora fissi sulla zuccheriera, che aveva un piccolo alieno verde stampato da un lato. Kyle si soffermò per un attimo, poi posò la sua tazza nel lavandino e lo lasciò solo.
Nate rimase immobile per un lungo momento, guardando senza vedere. Un esercito di 'e se … ' marciava nella sua testa. E se lui non le avesse chiesto di correre? E se Michael o Liz l'avessero fermata? E se si fosse girata e fosse tornata alla caverna? E ancora, lei aveva visto di cosa fossero capaci gli alieni – l'avevano rapita e chiusa in un angolo, senza nemmeno sapere chi fossero. Doveva essere stata terrorizzata da loro. Nella sua mente, Nate la vide correre nel deserto, terrorizzata all'idea di tornare indietro, spaventata da quello che aveva davanti … fino a che non si era imbattuta in qualcosa.
Ed era morta sola.
Gli tornò alla mente la bizzarra reazione di Alyssa quando le aveva chiesto chi avesse ucciso Annie. In un primo momento aveva pensato che Alyssa non sapesse che Annie era morta – ma ora si rendeva conto che la sua reazione era dovuta al fatto che Nate credeva che fosse stata uccisa. Per qualche ragione, Alyssa era ancora così ingenua da credere che nessuno di quelli che conosceva fosse capace di tanto.
Anche Nate avrebbe voluto ancora essere così ingenuo.
Quella notte il sonno lo schivò. Pensieri della morte di Annie, della misteriosa scomparsa degli ibridi, e il suo stesso stato mentale, riempirono la testa di Nate. Non voleva pensare a quello che era successo ad Annie – soffermarsi su quel pensiero, l'avrebbe fatto impazzire, specialmente sapendo che forse gli altri pensavano che aveva avuto quello che si meritava. Nate sapeva cosa significava essere soli e sapere di stare per morire, e pensava che nessuno si meritasse una punizione come quella.
Da quando era stato liberato dalla base dell'FBI, non aveva più rivisto Max, Michael o Isabel. L'unica spiegazione che aveva ricevuto era che 'si stavano occupando di qualcosa'. Ovviamente non gli fu permesso di sapere cosa e in qualche modo la cosa lo turbava. Liz e Maria, comunque, non sembravano preoccupate, la qual cosa lo confortò un po'.
E per quello che gli passava per la testa, Nate non poteva fare a meno di sentire un profondo dolore. Un mese prima, vendeva esche al negozio di suo padre, era fidanzato con una graziosa ragazza che frequentava il college e stava pensando di iscriversi anche lui all'università. Aveva due genitori amorevoli, che lo amavano svisceratamente ma senza viziarlo. Era solo Nathan Spencer, uno che non veniva dalla 'pianura'.
Ora non sapeva più chi era. La sua fidanzata era morta e tornare alla vita semplice di prima sembrava impossibile. Forse l'agente O'Donnell era stato più profetico di quello che immaginasse quando aveva detto a Nate che nessuno poteva entrare e nessuno poteva uscire, perché Nate sentiva che non sarebbe più potuto uscire da quella situazione, che non sarebbe mai più potuto tornare alla vita semplice che aveva sempre amato.
Era come se un Nate fosse morto e ne fosse nato uno nuovo.
La porta della camera da letto di Alyssa si aprì e Nate sobbalzò, mentre i ricordi dell'orribile porta della sua cella alla base gli tornarono alla mente. Mettendo da parte l'ondata di ansia, si rese conto che la persona alla porta non era qualcuno dell'FBI che veniva ad interrogarlo, ma Alyssa stessa.
"Nate." gli sussurrò. "Sei sveglio?"
"Si." rispose piano, senza traccia di sonno nella voce.
"Posso entrare?"
"Certo."
Nel buio, Nate non riusciva a vedere il suo viso, ma poteva immaginare il suo sorriso mentre entrava nella stanza, chiudendo la porta dietro di sé. Senza invito, spostò le coperte e scivolò nel letto con lui, girandosi sul fianco per guardarlo. Nate sorrise della sua audacia.
"Non ti preoccupare." gli disse, con tracce di sorriso nella voce. "Non sono qui per violentarti."
"Ringraziando Dio." scherzò lui, sarcastico.
"Dobbiamo parlare sottovoce - se mia madre mi trova qui, diventerà una furia. E non è una cosa che ti piacerebbe vedere, credimi." Alyssa si sistemò il cuscino. "Volevo solo venire a controllarti, a sapere come ti senti."
Lui cercò di sorridere. "Sto bene."
Lei inclinò leggermente la testa. "Veramente?" disse prendendo una della mani di lui tra le sue. Col pollice gli carezzò la mano, appena guarita. "Ho sentito il tuo dolore." gli disse dolcemente.
Fino a quella frase, Nate non aveva rammentato che lei era con lui quando Max aveva rimosso il chip dal suo collo, ma ora poteva ricordare la sua voce che gli mormorava nell'orecchio, confortandolo, dicendogli di dare a lei il suo dolore.
"Tu eri lì con me." disse Nate con sgomento. Come le parole uscirono dalla sua bocca, lui si rese conto che Alyssa non solo era stata con lui nel van, ma era stata con lui per la maggior parte di quella prova. "Tu eri nella mia testa. Com'è possibile?"
Alyssa sorrise dolcemente. "Zia Isabel può entrare nei sogni delle persone. Ha cercato di entrare nei tuoi per scoprire dove fossi, ma tu non riuscivi a sentirla."
Nate si accigliò. "Perché no?"
Lei si strinse nelle spalle. "Forse non ti fidavi di lei. Quando si accorse di non riuscirci chiese a me di provare. Mi portò con lei."
"Nella mia testa?"
Lei annuì.
"Ma perché riuscivo a sentire te e non lei?"
Il sorriso di Alyssa si allargò e lei distese le loro mani, mettendole palmo contro palmo, dita contro dita. "Perché noi siamo connessi, Nate. Siamo la stessa cosa."
Nate sentiva una connessione speciale con quella ragazza. Non comprendeva cosa fosse e sapeva che i suoi pensieri su di lei erano inopportuni, considerando la sua età e la recente morte di Annie. Ma per qualche motivo sapeva che le sue sensazioni non si riferivano a un desiderio fisico, che la loro connessione era legata a qualcosa di molto più grande.
"Ho lasciato il mio ragazzo." annunciò Alyssa, con gli occhi fissi sul petto di lui.
"L'hai lasciato?"
Lei annuì.
"Bene." disse Nate, stiracchiandosi. "Quel ragazzo era un uomo di Neanderthal."
Lei ridacchiò, seppellendo il viso contro la maglietta di lui per attenuare la sua voce. Quando riemerse, c'era un bagliore birichino nei suoi occhi. "Così, e vero che il mio seno è più grande di quello dell'altra tua ragazza?"
Nate ringraziò il cielo che la stanza fosse buia e potesse nascondere il colore delle sue guance.
"Cosa?"
"Non hai detto così?"
Lui rise nervosamente. "E quando l'avrei detto?"
"Oh, è vero." disse Alyssa, ma la sua realizzazione era tutto fuorché convinta. "Eri drogato in quel momento. Sgradevoli cose, le droghe – non sai mai quali verità possono uscire dalla tua bocca."
Nate rise ancora, chiedendosi cos'altro fosse uscito dalla sua bocca quando era sotto l'effetto della droga.
Alyssa lo abbracciò e lo attirò a sé. "Come ti ho detto, non sono venuta per violentarti, Nate." gli disse dolcemente contro l'orecchio. "Non voglio niente da te. Voglio solo stare qui con te per un po'. Va bene per te?"
Lui accennò col capo in risposta, grato della sua compagnia. Se non altro, avrebbe tenuto la sua mente lontano dagli altri dubbi che gli frullavano in testa.

Continua...

Scritta da Karen (MidwestMax)
Traduzione italiana con il permesso dell'autrice
dall'originale in inglese, a cura di Sirio


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