Roswell.it - Fanfiction
SPECIALE

IL FIGLIO DI NESSUNO (Nobody Son)

Capitoli 7-12


Riassunto: Questa storia, in 37 capitoli, è la prima di cinque fanfiction collegate tra loro. La vicenda ha luogo dopo 17 anni dall'episodio "Four Aliens and a Baby".

Valutazione contenuto: non adatto ai bambini.

Disclaimer: Ogni riferimento a Roswell appartiene alla WB e alla UPN. Tutti gli attori protagonisti del racconto e citati appartengono a loro stessi.

Introduzione dell'autrice: Amo il personaggio di Max e le dolci sfaccettature del suo carattere: la sua insicurezza, il suo senso di responsabilità, la sua generosità nel pensare sempre prima agli altri. Lui non sarà il protagonista di questa ff, ma sarà presente al pari di tutti gli altri personaggi che abbiamo imparato ad amare, così da non fare torto a nessuno. I protagonisti saranno Nate e Alyssa. Non voglio anticiparvi nulla, per non togliervi il gusto della scoperta ma, come dice l'autrice, questa storia ha luogo dopo 17 anni da ‘Four Aliens and a Baby’ e con questa informazione non ci vuole uno scienziato spaziale per capite chi è Nate, mentre sarà più difficile immaginare perché avrà vita difficile col futuro suocero. Quello che abbiamo visto in ‘Graduation’ non è mai accaduto.


Capitoli 1-6

Capitolo 7

Tre giorni, una gomma sgonfia, la marmitta bucata e una grandinata poco fuori Lubbock più tardi, Nate arrivò a Roswell. Entrò nella città dalla parte 'bella' passando davanti ad una scuola superiore ben mantenuta e ad un veramente bello, veramente verde parco pubblico che, ovviamente, era innaffiato regolarmente. Poi andò a sbattere contro il corso principale e scoprì quanto può essere sconvolgente una città turistica. Rimase così stordito da quello che vide, che quasi tamponò la macchina che lo precedeva. Sapendo che aveva bisogno di fermarsi, entrò in un parcheggio sulla strada e si guardò intorno incredulo.
In qualsiasi direzione guardasse, vedeva alieni verdi e UFO – su tutte le pubblicità, su tutte le insegne dei negozi, su tutti glia angoli di tutte le strade. Molti esercizi commerciali avevano nomi su variazioni del tema alieno - Opere d'arte aliena di Alan, Pizza Fuori da questo Mondo, una sala giochi Missili e Meteoriti. C'era una pompa di benzina a forma di un enorme disco volante, un'esplosione aliena che sbucava dal suo tetto a cupola.
Nate si accorse di stare a bocca aperta come un pesce morto. Come facevano a vivere lì? O peggio ancora, che razza di gente poteva vivere lì? Forse i suoi genitori naturali erano pazzi. Una sorprendente immagine gli passò per la testa, dove sua madre era qualcuna che proclamava di essere stata rapita dagli alieni e che suo figlio era un bambino alieno. A quel pensiero, scoppiò in una risata isterica.
Presto, pensò, i suoi pensieri si sarebbero concentrati sulla sua missione. Lui era lì per trovare Philip Evans, avvocato. Nate allungò lo sguardo da una parte, poi dall'altra lungo la polverosa strada principale di Roswell. Non vide nulla che assomigliava ad un ufficio, ma forse l'ufficio non era sulla strada principale. Prese il suo zaino, ne tirò fuori la busta scura e controllò l'indirizzo sulla carta intestata dello studio Evans. – no, non era sulla strada principale.
Nate rimise i fogli nella busta e si appoggiò per un attimo allo schienale. La verità era che non si sentiva pronto ad affrontare Philip Evans; ironico, visto che aveva trascorso gli ultimi tre giorni pensando soltanto a quell'incontro. No, Nate aveva prima bisogno di sistemarsi – mangiare qualcosa, trovare una stanza in un motel – poi sarebbe stato in grado di affrontare l'uomo che si era occupato della sua adozione.
Ma dove poteva mangiare? Guardò dubbioso qualcuno dei ristoranti e nessuno di loro sembrava accogliente. Sospirando, chiuse il finestrino dell'automezzo, uscì fuori e chiuse a chiave la portiera. Si avviò sul marciapiede lastricato di mattoni. Forse avrebbe trovato qualcosa di meglio. Infilate le mani in tasca, camminò lentamente davanti guardando le vetrine. Dopo pochi isolati, si rese conto che stava sudando. Era la fine di settembre, Santo Cielo! Cosa – trentadue gradi quel giorno?
Poco dopo, gli apparve una costruzione che attirò immediatamente la sua attenzione. Era un fabbricato di mattoni a due piani, ma non era quello che glielo aveva fatto notare. No, era stata l'astronave che si era 'schiantata' nella facciata anteriore e che ammiccava invitante con le sue luci intermittenti. Nate lesse il nome del locale e sollevo un angolo della bocca in un sorriso – Il Crashdown.
Gli sembrò un buon posto per mangiare qualcosa.
Nate era a malapena entrato dalla porta anteriore che si ritrovò immobile, ancora una volta con l'espressione da pesce morto sulla faccia. Il locale era pieno di oggetti alieni – disegni e murales sulle pareti, attrezzature spaziali che pendevano dal soffitto, un alieno di ceramica che salutava i clienti sulla porta. Fu in quel momento che decise che non si sarebbe mai più preso gioco degli 'Abitanti della pianura' – almeno quella gente non era come questa.
Stereotipo di quello che viaggia da solo, Nate ignorò i tavoli e i separè e si diresse invece al bancone. Prima di girarsi contro la parete, guardò i clienti del locale – sembravano tutti studenti delle scuole superiori e all'improvviso Nate si sentì vecchio. Era vero che si era diplomato solo quattro mesi prima, ma ormai la scuola sembrava appartenere ad un'altra vita.
"Hey, tu, ragazzo" disse una cinguettante voce femminile.
Nate si girò sulla sedia per vedere una cameriera dall'altra parte del banco. Era graziosa, con i capelli biondo scuri, occhi castani e un paio di piene, lucenti labbra. ma non fu la sua bellezza a colpire Nate – fu il cerchietto argentato e pieno di lustrini, con due antenne fatte a palla che lei portava sulla testa. Incapace di trattenersi, il suo sguardo salì lentamente seguendo gli steli delle antenne, fino a raggiungerne la punta.
La ragazza ridacchiò "Oh, ragazzo. Nuovo della città, eh?"
Nate sentì che le guance cominciavano a bruciargli. "Um. si."
Poi vide l'ovale d'argento sul danti della sua uniforme turchese. "Alyssa." disse ad alta voce.
Prendendo il blocco per le ordinazioni dal grembiule, chinò la testa da un lato. "Non vale. Tu sai il mio nome, ma io non so il tuo."
Nate alzò un sopracciglio. Stava flirtando con lui! Velocemente valutò la sua età – 15? Forse 16? Minorenne, senza dubbio.
"Mi chiamo Nate." si presentò.
"Allora, benvenuto a Roswell, Nate. Cosa posso portarti da bere, mentre decidi cosa vuoi mangiare?"
"Coca?"
Lei sollevò un sopracciglio. "Lo stai chiedendo a me? Okay, certo, Coca." gli fece l'occhiolino ed andò a prendergli la bibita.
Nate la vide allontanarsi e rise piano tra se. Non era abituato alle ragazze che flirtavano con lui; a scuola non era impopolare, ma a Chautauqua tutti sapevano che lui era disperatamente innamorato di Annie. Le ragazze non ci provavano nemmeno.
Aprendo il menù, Nate rimase ancora una volta sbalordito dalla macchina acchiappa turisti in piena attività. Tutti i piatti presenti sul menù avevano nomi alieni – Anelli di Saturno per anelli di cipolle, Razzodogs per hotdogs. Scosse la testa mentre Alyssa gli posava davanti il suo bicchiere di Coca.
"Vorrei un semplice hamburger." disse, cercando di decifrare con che nome poteva trovarlo sul menù del Crashdown.
"Ci vuoi del formaggio sopra?" chiese lei, scrivendo sul blocchetto.
Nate annuì. "Si."
"Patate fritte?"
"Okay."
"Il mio numero di telefono?"
Nate batté gli occhi, poi si accigliò, sorpreso. Alyssa scoppiò a ridere, poi strappò il foglietto dal blocco, si diresse verso l'apertura che dava in cucina e lo appuntò sul giostrino. Quando si allontanò dall'apertura, Nate notò che il cuoco guardò imbronciato verso di lei.
"Ignorami." disse Alyssa appoggiandosi sul bancone davanti a lui. "Sono innocua. Quando vedo un bel ragazzo, non riesco a trattenermi."
Nate rise ed arrossì ancora una volta.
Il cuoco suonò il campanello. "Ordine pronto, Alyssa." disse scortese. "Tavolo 6."
Ad ogni modo, Alyssa lo ignorò. "Mi hai mai visto prima?" chiese a Nate. "Perché tu mi sembri familiare."
Nate inclinò la testa. Quello era il trucco più vecchio del mondo.
"No. Non sono mai stato qui prima." Inoltre, questa era la prima volata che era uscito dalla regione dell'Est.
Lei agitò la mano e Nate colse un lampo del suo smalto per le unghie purpureo. "Ora non sto flirtando con te. Sono seria – in te c'è qualcosa di familiare."
Lui si strinse nelle spalle. "Mi spiace. Ho solo un viso come tanti altri."
"Si, forse."
"Alyssa Guerin!" sbraitò il cuoco. "Tu hai un ordine!"
Nate sobbalzò, ma la cameriera no.
"E' quell'idiota del mio ragazzo." gli sussurrò in modo cospirativo, piegandosi sul bancone in direzione di Nate
"Oh." replicò lui, guardando il ragazzo e chiedendosi se stesse pensando di prenderlo a pugni.
Alyssa sospirò. "Sarà meglio che vada, prima che gli venga un colpo."
Si allontanò per prendere il vassoio e Nate incontrò lo sguardo del cuoco. Si – decisamente non era uno sguardo amichevole.
Mentre Alyssa serviva gli altri clienti, la mente tornò al commento sul fatto che gli sembrasse familiare. Era solo una coincidenza o forse suo padre e sua madre vivevano ancora in città e lui rassomigliava molto a uno di loro?
Questa possibilità accese scintille di eccitazione dentro di lui.
Alla fine Alyssa ritornò con la sua ordinazione e si mise a sedere davanti a lui. "Ketchup e senape sono lì." gli disse, posandogli accanto un tovagliolo extra. "Desideri qualcos'altro?"
Nate scosse la testa, poi la richiamò indietro non appena si fu allontanata. "Devo fermarmi qualche giorno. Avrei bisogno di un posto dove stare."
Alyssa alzò un sopracciglio. "Vorresti stare con me?"
Lui rise e scosse la testa – avrebbe dovuto imparare a pesare le parole prima di parlare con lei. Lei era troppo sveglia per lui. "No, ma grazie per l'offerta. Speravo che tu potessi indicarmi un motel economico, ma pulito."
Lei si strinse nelle spalle. "Il Tumbleweed dovrebbe andare. E' nella zona est della città. Prendi la strada principale e gira alla quarta strada. E' a circa un miglio sulla destra."
"Okay, grazie." Lui le sorrise, poi cominciò a mangiare il suo hamburger.

***

Al sicuro nella stanza del motel e con la pancia piena, a Nate non restava altro da fare che trovare Philip Evans. Nel motel, prese il consunto elenco del telefono dal comodino e cercò fino a trovare la sezione avvocati delle pagine gialle. Il suo dito si fermò sulla lista – l'ufficio esisteva ancora.
Nel minuscolo e scarsamente decorato bagno, Nate si pettinò davanti allo specchio, notando che appariva malaticcio. Lo stomaco aveva ricominciato a fargli male e rimpiangeva la decisione di aver fatto un pasto completo.
"Ormai sei arrivato." disse alla sua immagine riflessa. "Non cedere proprio ora."
Quando Nate arrivò allo studio dell'avvocato Evans, si erano fatte già le quattro del pomeriggio. Lo studio sarebbe stato ancora aperto? Guardò l'edificio bianco – c'era solo un modo per scoprirlo. Fece un respiro profondo, prese la busta scura, scese dal furgone ed entrò nell'edificio.
Dietro il banco della ricezione era seduta un donna giovane e graziosa. Salutò Nate con un cordiale sorriso."Posso aiutarla?"
"Io, um …" Nate si schiarì la voce. "Dovrei parlare con il signor Evans, se c'è."
"Ha un appuntamento?" Lo sguardo del segretario si posò sull'agenda.
Nate scosse la testa. "No, signora, non ce l'ho. Ma sono venuto da molto lontano per vederlo ed avrei bisogno solo di qualche minuto del suo tempo."
Nate credette di vedere un'ombra di diffidenza nel suo sguardo, poi le tornò il sorriso. "Perché non si siede signor …?"
"Spencer. Nathan Spencer."
"Signor Spencer. Vedo se si può liberare un momento."
Nate occupò una sedia contro la parete, con lo stomaco che continuava a tormentarlo. L'addetta alla ricezione si diresse verso una porta dietro la sua scrivania e la aprì. Poteva solo sentire la sua parte di conversazione, la sua voce ottimistica e professionale.
"Dottore, c'è un certo signor Spencer che la vorrebbe vedere … no, non ha un appuntamento … non l'ha detto … va bene."
La sua speranza diminuì, quando la donna si girò verso di lui. Sarebbe stato mandato via, ne era sicuro.
"Gli dia cinque minuti." disse lei con grande sorpresa di Nate "Ha bisogno di terminare una cosa, poi sarà subito da lei."
Nate le fece un cenno di ringraziamento, poi si sedette ed aspettò pazientemente. Ma ogni minuto che passava accresceva la sua ansia. Forse era stato uno sbaglio. Forse sarebbe dovuto restare a New York. Forse non avrebbe dovuto scavare nel suo passato …
Un cicalino suonò sulla scrivania della segretaria e lei guardò Nate facendogli un sorriso. "Ora è disponibile per lei."
Con le ginocchia che gli tremavano, Nate si alzò in piedi e passò attraverso la porta che l'avrebbe condotto dall'uomo che forse aveva le risposte che lui stava cercando. La segretaria chiuse la porta dietro di lui e Nate si trovò faccia a faccia con un uomo sulla sessantina, con i capelli bianchi ed un viso amichevole. L'uomo tese una mano per salutarlo. Nate gli porse la sua, sperando che non fosse sudata.
"Buon pomeriggio, signor Spencer." disse Philip Evans, con un sorriso da uomo d'affari.
"Signore." replicò Nate
Philip gli indicò una sedia dalla parte opposta della sua scrivania e Nate si sedette mentre l'altro prendeva posto sulla sua poltrona di cuoio.
"Cosa posso are per lei, signor Spencer?"
"Per favore, mi chiami Nate" gli disse piano.
"Okay, Nate"
Nate guardò la busta che aveva in mano, e decise che il tempo che aveva a disposizione fosse limitato – quindi era meglio andare dritti al sodo.
"Signore, io sono stato adottato diciassette anni fa."
Philip non sembrò particolarmente colpito da quella rivelazione. "Okay."
Mordendosi le labbra, Nate cercò nella busta e tirò fuori il contratto che Philip aveva stilato. "Il suo ufficio si è occupato della mia adozione."
Gli occhi di Philip si posarono sul documento e Nate non fu certo di scorgere in lui alcuna reazione. Ma gli sembrò che la cordialità fosse scomparsa dal suo comportamento.
"Si ricorda di questo?" chiese Nate, cercando di respirare nonostante il peso che si era piantato al centro del suo petto. "Si ricorda di me?"
Philip si girò per un attimo sulla sedia, poi si sporse sulla scrivania e prese il contratto dalla mani di Nate. Infilatosi gli occhiali, gli dette una guardata. "No." disse, benché la sua voce non avesse un tono così definitivo. "Non mi ricordo di questo in particolare." Guardò Nate da sopra gli occhiali. "Cosa vorrebbe sapere?"
"Ebbene, signore, c'è una clausola che prevede che non dovessi sapere dell'adozione fino al compimento dei diciotto anni. Ho compiuto diciotto anni da qualche mese e i miei genitori mi hanno detto dell'adozione. Come può immaginare, sono ansioso di sapere qualcosa delle mie origini."
"Vedo." Philip lo studiò per un lungo momento.
Lui non mi aiuterà, sospirò Nate dentro di se. Tutta questa strada per niente.
Ma all'improvviso Philip si raddrizzò sulla sedia, tendendo il contratto a Nate. "Casi così vecchi sono conservati in archivio." spiegò a Nate. "Ora è tardi, e non sarei in grado di trovare la documentazione prima della chiusura. Dove posso rintracciarla? Le farò un colpo di telefono appena l'avrò recuperata."
Gli occhi di Nate si spalancarono per la sorpresa e l'incredulità. "Uh, al Tumbleweed. Stanza 12."
Philip si appuntò l'informazione su un blocchetto, poi si alzò, offrendo a Nate la sua mano. Anche Nate si alzò e la prese, ancora incredulo di come fosse stato facile mettere a posto i pezzi del rompicapo."
"Felice di averla conosciuta, Nate." disse Philip, stringendogli fermamente la mano. "Mi farò sentire."
Nate gli fece un grande sorriso. "Grazie, signore. Grazie tante."
Quando Nate lasciò l'ufficio, camminava praticamente ad un palmo da terra, non si accorse che Philip Evans lo stava guardando dalla finestra del secondo piano, con un'espressione di gioia sul viso.

Capitolo 8

Era più vicino che mai, ora, quell'elusivo ricordo che viveva nelle profondità della mente di Nate. Se chiudeva gli occhi, poteva arrivare ad intravedere qualcosa, poi fuggiva via. Era quantomeno esasperante.
"Com'è lì?" la voce di Annie dall'altra parte della linea sembrava lenta e stanca.
"Marrone." rispose Nate, guardando il soffitto della sua stanza al motel. Guardare il soffitto era molto più piacevole che guardare le pareti, che erano ricoperte da una carta con orribili disegni di cowboy. "La mia stanza ha i ferri di cavallo alle pareti."
Annie rise. "Cosa?"
Nate girò la testa da un lato e guardò la tappezzeria. "Si. Ferri di cavallo, staffe e selle."
"Oh, Dio. E tutta la città è così?"
No, il resto della città era peggio, ma lui non voleva dirglielo. Per qualche ragione, Nate si sentiva protettivo nei confronti del suo probabile luogo di nascita e sapeva che se le avesse detto che sfacciata trappola per turisti era Roswell, lei lo avrebbe preso in giro. "Non proprio." le disse. "Ma questa è una città nel deserto, perciò è calda e polverosa …" E piena della sua parte di cacciatori di UFO.
Quasi gli avesse letto nel pensiero, Annie lo prese in giro "Hai visto qualche alieno?"
"Non che io sappia."
"Qualche disco volante?"
"Nemmeno uno."
"E' scoraggiante."
Nate rise. "Oggi ho visto l'avvocato – il signor Evans."
"Si?" Ora c'era più interesse nel suo tono di voce, rispetto a quello che Nate aveva sentito negli ultimi giorni. "Cosa è successo?"
"Ancora niente. Ha detto che deve prendere la mia pratica dall'archivio. Ha voluto il mio numero e ha detto che mi richiamerà." Nate si rotolò su un fianco e guardò la finestra della stanza. Il sole stava tramontando e per quello che poteva vedere 'marrone' era l'ultimo colore che avrebbe usato per descrivere il cielo.
"Gli credi?" chiese Annie.
Nate si strinse nelle spalle. "Penso di si. Perché dovrebbe mentirmi?"
Dall'altro capo della linea, Annie lasciò andare un sospiro e quando parlò, Nate ebbe l'impressione che avesse appena finito di sbadigliare. "Trova quello che cerchi e tornatene subito a casa, Okay? Già mi manchi."
Un sorriso incurvò le labbra di Nate "Anche tu mi manchi, Annie. Mi sembri stanca, Stai bene?"
"Ho studiato tutto il giorno e qui è un paio di ore più tardi di quanto lo sia lì. Sto bene – è solo stata una lunga giornata."
"Allora cosa ne pensi se ti lascio andare a dormire?" le chiese, spostando le gambe da un lato del letto e mettendosi seduto.
"Okay. Prenditi cura di te, Nate. Ti amo."
"Anche io ti amo, orsacchiotta Annie."
Il cellulare si spense nella mano di Nate e lui rimase seduto per qualche istante. La televisione in quel motel economico non lo attraeva – c'erano solo canali locali – così c'era poco con cui potesse tenere occupata la mente. Improvvisamente desiderò di aver comprato un quotidiano o qualcos'altro da leggere, ma non aveva pensato di avere bisogno di tenersi occupato..
Alzatosi, stirò le gambe lunghe e dinoccolate e guardò fuori dalla larga finestra della stanza. Il sole calava nel cielo in palpitanti toni di rosso, rosa e porpora. Era il tramonto più sorprendente che Nate avesse mai visto. Affascinato, Nate prese il suo giubbotto ed uscì.
Il Tumbleweed Inn era situato ai bordi della città, lungo una statale a quattro corsie. Nate vide sfrecciare via qualche macchina e qualche camion, ma fu colpito di come fosse scarso il traffico a quell'ora della sera. Proprio per quel motivo, decise di fare quattro passi, per sciogliersi i muscoli dopo essere stato rinchiuso per tre giorni nel furgone. Provenendo da un' area rurale, con scarsa criminalità, non gli passò per la mente che passeggiare su una statale del New Mexico al buio non era consigliabile.
Così proseguì, con le mani infilate in tasca e una cadenza rilassata. Ancora solo, la sua mente inseguì quel ricordo, lo toccò, poi gli sfuggì ancora. Nate sospirò. Forse non l'avrebbe mai afferrato, forse avrebbe passato la sua intera vita a chiedersi cosa fosse. Lui sperava di no, perché sarebbe stato frustrante.
Non volendo pensare a quel ricordo, tornò al suo incontro con Philip Evans. Gli era sembrato un uomo abbastanza disponibile, e gli aveva dato l'impressione che volesse aiutarlo. Ma a Nate qualcosa non quadrava. Capiva che diciotto anni erano tanti. Capiva che un avvocato molto occupato poteva aver seguito centinaia di casi in quel lasso di tempo. Quello che non capiva era come Philip Evans avesse potuto dimenticare un caso che coinvolgeva delle parti distanti tremila chilometri. Sicuramente lo studio legale di Philip Evans trattava casi soprattutto nella zona … o almeno Nate così presumeva.
Allora Annie aveva ragione? C'erano motivi per dubitare dell'avvocato? Nate si accigliò. Il pensiero che ci fosse una cospirazione, dietro la sua adozione, era sconvolgente.
Camminò per un'oretta, fino a che il cielo non fu diventato scuro e cosparso di migliaia di stelle. Sorridendo, guardò in alto – a New York c'erano molti alberi e una veduta panoramica del cielo notturno era impossibile. Ma qui, nel New Mexico, non c'erano alberi che impedivano la visuale e a Nate sembrò di stare dentro a una palla con la neve, che i milioni di stelle intorno a lui fossero coriandoli che cadevano.
Un dolore perforante passò tra le tempie di Nate e lui lanciò un grido di dolore. Vide qualcosa in fiamme rigare il cielo, fino a scomparire lontano, dall'altro lato della montagna. Poi vide una palla di fuoco roteare nel cielo della notte, illuminando la sabbia intorno a lui.
Afferrandosi la testa, per cercare di fermare il dolore, Nate vide ed udì elicotteri sopra di lui, fari luminosi che andavano avanti e indietro, alla ricerca di qualcosa. Camion militari sfrecciarono sulla statale dietro di lui, con i rumorosi motori che disturbavano la notte. E profondamente dentro di lui, Nate avvertì paura e panico, un primario istinto di sopravvivenza e il terrore di sapere che era impossibile.
Accecato dal dolore che sentiva in testa, cadde in ginocchio nella sabbia, afferrandosi i lati del viso …
"Hey, ragazzo. Stai bene?"
Nate aprì gli occhi e vide davanti a se due consunti stivali di cuoio. Lentamente tolse le mani dalla testa e risalì con lo sguardo dagli stivali ad un paio di jeans, fino alla faccia di un vice sceriffo. L'agente gli stava puntando addosso una torcia elettrica, il fascio di luce un po' a sinistra di Nate per non accecarlo. davanti a loro Nate vide un' auto ferma al lato della statale, con le luci rosse e blu che lampeggiavano nella notte.
"Si." rispose, alzandosi in piedi, traballante. "Sto bene."
"Hai bevuto?" Nate pensò che il vice sceriffo doveva essere sulla trentina, un uomo basso ma robusto, con corti capelli castano chiaro. Il nome sopra il suo cartellino era 'Valenti'.
"No." negò Nate, spolverandosi i pantaloni dalla sabbia.
"No." gli fece eco il vice sceriffo, con la testa da un lato per studiare il ragazzo. "E allora perché te ne stai seduto sulla strada? E' il modo migliore per farsi ammazzare, lo sai?"
Nate gli lanciò uno sguardo vergognoso. "Sono uscito per fare una passeggiata. Poi …" Come poteva spiegargli quello che gli era successo? Era ovvio che non c'erano camion militari lungo la strada, né elicotteri in cielo. Doveva essere stata una specie di allucinazione. " …Io non mi sono sentito bene."
"Ti senti male?" chiese l'agente.
"Credo di sentirmi meglio, ora."
Il vice sceriffo si morse il labbro inferiore, riflettendo per un momento. "Perché non monti in macchina?"
Dannazione! Nate cercò di mascherare la sua espressione spaventata. Come avrebbe fatto a spiegarlo ad Annie e ai suoi genitori? - "Ho perso il controllo e sono uscito di testa su una pubblica strada e ora sono in prigione. Vorrei che veniste a prendermi". Deglutì e disse "Sono in arresto per qualcosa che ho fatto?"
Valenti fece un sorrisetto compiaciuto. "Saliamo in macchina."
Nate lo seguì nell'auto riluttante e scivolò nel sedile posteriore, un posto dove non avrebbe mai immaginato di salire. L'agente si sistemò dietro al volante e accese la radio, comunicando un mucchio di numeri e codici che Nate non riuscì a decifrare. Gli venne in mente che forse il vice sceriffo soffriva della Sindrome dell'Uomo Basso – forse si comportava da idiota per compensare la mancanza di altre cose.
"Hai un documento d'identità?" chiese senza nemmeno guardarlo.
Nate cercò nella sua tasca e ne tirò fuori il portafoglio. Sfilò la patente dalla custodia di plastica e la fece scivolare tra la rete che separava il sedile anteriore da quello posteriore. Il vice sceriffo la prese e la controllò alla luce fioca.
"New York?" rise. "Accidenti, ragazzo – stavi cominciando a camminare verso New York?"
Nate batté gli occhi, incerto sul come comportarsi con quest'uomo. "No, signore. Sto al Tumbleweed."
Valenti si voltò per restituire a Nate la sua patente. "Questo mi dispiace. Sai perché lo chiamano Tumbleweed, vero?"
Nate scosse la testa.
"Allora non guardare sotto al letto!" Detto questo, l'agente scoppiò a ridere e mise in moto la macchina, immettendosi nella statale e spegnendo le luci lampeggianti.
Gli occhi di Nate erano spalancati. Per quale motivo stava finendo in prigione? Aveva fatto qualcosa di sbagliato? E chi era quel bizzarro poliziotto?
In breve, furono arrivati al Tumbleweed e il vice sceriffo Valenti entrò nel parcheggio.
"Ti risparmierò l'imbarazzo e non accenderò i lampeggianti." rise, aprendo lo sportello di Nate.
"Grazie." mormorò Nate, uscendo dall'auto.
"Fai attenzione dopo il tramonto." lo mise in guardia l'agente, mentre Nate si dirigeva verso la sua stanza. "Non vorrei dover chiamare i tuoi genitori a New York e dir loro che sei stato mangiato dai dingo."
"Si, signore." Voleva solo andarsene da lì. Voleva andarsene nella sua stanza, dimenticare che aveva visto comete e camion militari, ficcarsi nel letto e dimenticare il suo breve incontro con la legge.
Comunque, mentre la sua mano raggiungeva la maniglia della porta, ci fu un veloce lampeggiare di rosso e di blu contro la facciata dell'edificio. Nate aggrottò le sopracciglia per la sorpresa e si voltò per vedere l'agente che saliva sull'auto, dopo aver acceso i lampeggianti. Guardandosi intorno, nel motel a forma di cavallo, Nate avvertì tende che si scostavano e facce curiose che guardavano attraverso gli spiragli delle porte
"Mi spiace." rise Valenti. "Non ho potuto farne a meno."
Nate si strinse nelle spalle ed entrò nella sua stanza. Appena chiusa la porta dietro le sue spalle, si chiese se tutti in quella città fossero un po' pazzi o se fosse un privilegio riservato alle forze dell'ordine.
Comunque fu un pensiero fuggevole, perché lo stomaco di Nate cominciò di nuovo a fargli male. Aveva creduto che quello che aveva visto l'ultima volta che era stato con Annie, fosse il risultato della quantità di alcol che aveva consumato, ma qui non c'era una spiegazione ragionevole per quello che aveva visto. Nate non sapeva del perché fosse successo, né la prima, né la seconda volta.
Salvo che il fatto di essere a Roswell, gli aveva reso le visioni più definite.

Capitolo 9

Nate voleva tornare a casa.
A questo punto, il suo viaggio a Roswell, non gli aveva fornito molto di più che una inquietante sensazione di paranoia. Mentre se ne stava disteso sul letto del Tumbleweed Inn, demoralizzato dal fatto che fossero già le dieci del mattino e che Philip Evans non aveva ancora chiamato, si rese conto della follia dei suoi pensieri …
Era sabato. Quale studio legale era aperto durante il fine settimana?
Forse Annie aveva ragione – forse l'avvocato lo aveva solo preso in giro per liberarsi di lui.
Per la prima volta in vita sua, Nate aveva voglia di piangere per la frustrazione. Tutta quella strada, lasciandosi alle spalle le persone che amava, solo per essere ingannato. Di una cosa era sicuro, era stato veramente uno stupido. A New York c'erano due genitori amorevoli che lo aspettavano, che lo avevano lasciato andare senza opporsi. In Pennsylvania, c'era una bella ragazza dai capelli rossi che era stata molto riluttante, ma che gli voleva comunque bene. Perché era partito?
La parte peggiore era il pensiero che forse era malato. Quello che era successo la notte scorsa, con la visione dei camion militari e della cometa cadente, non era una cosa normale per una persona sana di corpo e di mente. Se si aggiungeva il quasi-ricordo che lo perseguitava da anni, Nate stava seriamente cominciando a dubitare della sua sanità mentale. Aveva bisogno di tornare a casa, non fosse altro che per farsi visitare da un buon medico.
La sveglia economica, che stava sul comodino, segnava i minuti che passavano. Nate li osservava senza interesse, fino a che alzò all'improvviso, entrambe le mani. Il suo stomaco si contrasse un paio di volte e si rese conto di non aver mangiato nulla dopo la cena della sera prima. Se veramente stava covando un'ulcera, come aveva detto suo padre, stare digiuno era decisamente una pessima idea.
Così si costrinse a farsi una doccia, lasciando che l'acqua calda gli scorresse sul viso. Il Tumbleweed poteva anche essere un motel economico, ma almeno qui si rendevano conto che i viaggiatori amavano l'acqua calda. Mentre si insaponava il corpo, storse il naso alla traccia che il sapone lasciava sul suo torace magro, sugli arti dinoccolati – aveva sempre desiderato avere più muscoli, ma non c'era mai riuscito, indipendentemente dal tipo di allenamento cui si era sottoposto.
Tornato in camera, si asciugò e si mise l'ultimo cambio di vestiti puliti. Dubitava che il motel avesse una lavanderia, così decise che avrebbe dovuto cercare una lavanderia automatica prima di sera. Preso dalla curiosità, si chinò alzando le coperte. Sobbalzò e fece un passo indietro, lasciandole ricadere. Il vice sceriffo Valenti aveva ragione – c'era più che uno strato di polvere sotto al letto.
Fuori, la giornata era sorprendentemente calda, con il sole che brillava alto nel cielo. Nate strinse gli occhi e prese gli occhiali da sole. Come fu arrivato al furgoncino, notò che diverse tende venivano scostate, curiosi attirati dall'episodio della sera prima. Dannato quell'agente e la sua idea di 'scherzo'. Nate sarebbe stato fortunato se non l'avessero cacciato a calci dalla città.
Il furgone era vecchio e non aveva aria condizionata, così sudò per tutta la strada fino all'unico ristorante che aveva provato e dove era relativamente sicuro di non prendersi il botulino – il Crashdown.
Il ristorante era pieno, con un costante frastuono di voci e stoviglie che riempiva l'aria. Nate guardò i clienti e si sedette ancora al bancone.
"Hey, c'è il mio turista preferito!"
Nate alzò lo sguardo per vedere Alyssa davanti a lui, che apriva un pacchetto di gomme. Non poté fare a meno di sorriderle – era così piena di vita, così piena di 'chi se ne importa'. Le sue labbra piene erano piegate all'ingiù.
"Non sembri molto sexy, oggi." osservò lei, poi si corresse."Non che non pensi che tu sia sexy, perché lo sei, volevo solo dire che non sembri in forma. Stai bene?"
Nate si scrollò le spalle, poggiando inconsciamente una mano all'altezza della vita. "Lo stomaco mi sta dando fastidio."
Alyssa scoppiò a ridere. "Mangiare qui non ti aiuterà a risolvere il problema!"
Lui sollevò un angolo della bocca, la cosa più simile ad un sorriso che riuscì a mettere insieme.
Anche il sorriso di lei scomparve, accorgendosi che veramente lui non stava bene. "Sai che ti dico? Cosa ne pensi di mangiare qualcosa senza grassi?"
Nate alzò un sopracciglio "Avete qualcosa del genere, qui?"
Ad Alyssa tornò il sorriso e lui pensò che lei doveva averlo creduto privo di senso dell'umorismo. "Naturalmente che lo abbiamo! Cosa ne dici di un gustoso, dolce frullato alla vaniglia – noi facciamo il migliore della città – e di un petto di tacchino? Niente grassi, niente colesterolo, niente mal di cuore."
Lui annuì senza riuscire a trattenere un sorriso. "Sembra promettente."
"Okay, allora." lei continuò a sorridere mentre appuntava l'ordine su un blocchetto verde e poi appendeva il foglietto sulla giostrina per il cuoco.
Nate si sporse leggermente per vedere per vedere che quell'antipatico del suo ragazzo non era ai fornelli quel pomeriggio, e ne fu felice. Non gli piaceva lo sguardo di quel tipo.
Mentre Alyssa si occupava degli altri clienti, Nate si guardò attorno, osservando la varietà di facce e di età. Il suo sguardo si fermò alla fine del banco per scoprire il viso familiare del vice sceriffo Valenti. Mentre le orecchie di Nate cominciavano a farsi rosse per l'imbarazzo, l'agente sorrise ed alzò sua tazza di caffé in segno di saluto. Nate cercò di ricambiare con un sorriso e tornò velocemente ad osservare gli altri clienti. Non c'era nessun'altra faccia familiare nel locale …
Fino a che il campanello della porta non attirò la sua attenzione.
Stava entrando una donna, bella, bionda e dalle lunghe gambe e immediatamente Nate seppe di averla vista da qualche parte. Era entrata con un'aria di sicurezza, una posa di superiorità che deriva dall'aver avuto successo e dall'aver trovato il proprio posto nel mondo. I suoi abiti erano eleganti, non del genere che si poteva comprare ai grandi magazzini. Nate rimase a bocca aperta, mentre cercava di dare un nome a quel volto.
Con sua grande sorpresa, si diresse direttamente verso Alyssa, che stava aspettando in un separè vicino al retro del ristorante. La ragazza sembrò irritata nel vedere la donna e Nate la fissò incantato. Ne seguì una breve conversazione, dopo di che la donna baciò la ragazza sulla guancia e lasciò il ristorante.
Nate la vide uscire, ammutolito, poi sobbalzò leggermente quando Alyssa apparve davanti a lui col suo pranzo.
"E' …?" cominciò a dire lui.
Alyssa si accigliò. "Si." rispose in tono seccò.
"Come fai a conoscerla?" le orecchie di Nate diventarono rosse. "Cioè se non ti dispiace che te l'abbia chiesto."
Alyssa fece il broncio. "E' mia madre."
"Tua madre è Maria Deluca?!" sbottò Nate, sbalordito dal fatto che il mondo potesse essere così piccolo. Annie aveva adorato Maria Deluca quando, loro erano ancora alla scuola media, era uscito il suo primo ed unico album – le sarebbe scocciato tremendamente se avesse saputo che Nate l'aveva incontrata.
Molta gente si era voltata a guardare Nate ed Alyssa si fece piccola.
"Shh," gli sussurrò lei. "Non tutti lo sanno."
Nate arrossì, l'espressione vergognosa. "Mi spiace. E' solo che – wow! Tu sei la figlia di Maria Deluca!"
Lei roteò gli occhi, prese un bicchiere e cominciò ad asciugarlo. "No, io sono la figlia di Maria Guerin. Non è la stessa persona."
Ricordandosi dell'educazione, Nate si sentì in colpa per essere stato curioso. "Mi dispiace. E' solo che non mi aspettavo di vedere qualcuno famoso qui."
Quando si fu attenuato un po' del so disagio, Alyssa posò il bicchiere e si chinò sul bancone. "Hai ragione – molte delle cose e delle persone qui intorno sono più malfamate che famose."
Il suo sorriso era tornato, quel bagliore civettuolo era di nuovo nei suoi occhi. "Per la cronaca, mamma è famosa per il suo CD, ma papà è malfamato perché picchia i paparazzi."
Nate rise di soppiatto. Era chiaro che Alyssa Guerin non aveva avuto una educazione 'normale'.
"Finisci il tuo pranzo, viaggiatore. Vuoi che il tuo stomaco ti faccia ancora più male?"
Lui sollevò un angolo della bocca in un sorriso. "Non ricordi il mio nome, vero?" la sfidò.
Alyssa si raddrizzò rapidamente. "Certo che lo ricordo. Come potrei dimenticarmi di te, Nate di New York?" E detto questo, lei gli fece l'occhiolino e si infilò nella porta della cucina.
Nate la vide andare via … e si criticò immediatamente per il pensiero che gli era passato per la mente.
I pensieri sconvenienti su Alyssa furono solo una tregua temporanea. Una volta pagato il conto e tornato al motel, tutte le preoccupazioni che Nate aveva avuto quella mattina si riaffacciarono. Si fermò nell'ufficio del direttore per vedere se ci fossero messaggi per lui e trovò che non ce n'erano. Per completare il tutto, il direttore lo guardò come se fosse evaso dal vicino correzionale del New Mexico. Nate maledì ancora una volta il vice sceriffo e si ritirò nella sua stanza, dove poteva sentirsi sconsolato in santa pace.
Sorprendentemente il sonno arrivò subito, anche se era solo tardo pomeriggio. Forse fu lo stomaco pieno, forse fu solo la stanchezza, ma Nate cadde in un sonno profondo, un sonno senza sogni …
Fuori dal buio, gli apparve una donna bionda. Nate sorrise, perché lei era così bella, come un angelo e l'essenza di lei sembrava benvenuta al cuore stanco di Nate
"Chi sei?" le chiese stordito, con le parole che gli uscivano con difficoltà e suonavano vane.
"Nessuno di importante.' gli rispose, con un sincero sorriso.
"Perché sei qui?"
"Per dirti di non preoccuparti. Tutto andrà bene, Nate. Mettiti in pace il cuore e la mente."
Benché non fosse logico che questa persona fosse al corrente che il suo mondo si era capovolto, Nate non poté rendersene conto nel sogno. E per questo, rise.
"Come fai a sapere che non sono in pace?"
Lei gli si avvicinò con i piedi scalzi, i passi che non facevano rumore. In silenzio, posò la mano contro il petto di lui e Nate fu sorpreso dalla sua altezza – sembrava molto più alta di una donna nornale.
"Perché io posso vedere nella tua anima." gli disse, con lo sguardo fisso sui suoi occhi. "Tu sei un bravo ragazzo, Nate Non dimenticare mai chi sei."
Nate si accigliò. "Ma io non so chi sono!"
"Lo saprai." La sua immagine cominciò a svanire davanti a lui. "Lo saprai …"
"Aspetta!" gridò, allungando le mani, mentre lei svaniva nella nebbia. "Io non so chi sono! Torna indietro!"
Nate si svegliò all'improvviso, col cuore che batteva contro il torace. I suoi occhi girarono, senza in realtà vedere nulla, per tutti gli angoli della stanza; non avrebbe potuto comunque vedere nulla, perché la stanza era immersa nelle ombre della sera. Una volta che ebbe recuperato la lucidità, si stese di nuovo sul letto, disgustato da fatto che, apparentemente, la sua mente gli aveva di nuovo giocato un brutto tiro.
Ma non era stato quello a svegliarlo. Dei decisi colpi risuonavano contro la fragile porta del motel e Nate si sedette svelto, sobbalzando. Senza pensare o tener conto degli ammonimenti di Valenti sui dingo, saltò fuori dal letto e corse ad aprire la porta.
Dall'altra parte c'era Philip Evans, con il volto più emozionato di quello che Nate aveva avuto modo di vedere nel loro breve incontro del giorno prima. Immediatamente, Nate si rassettò, cercando di riordinarsi i capelli spettinati dal sonno.
"Spero di non disturbarti." gli disse Philip.
"No, va tutto bene." rispose Nate, la voce rauca per il sonno. "Non mi sono sentito bene, così ho fatto un pisolino …"
L'ansia gli faceva battere il cuore più forte e più svelto di quello che aveva fatto il sogno. Perché quell'uomo era venuto a trovarlo di sabato sera? Che notizie doveva comunicargli?
"Ti senti meglio, ora?" chiese Philip e Nate si rese conto che la sua preoccupazione era sincera.
Nate annuì. "Si, signore. Sto bene."
"Bene, bene." Philip fece una pausa, poi guardò dietro le sue spalle. "Ho portato qualcuno con me." annunciò.
Nate spalancò i grandi occhi azzurri. "Si?"
Philip annuì, poi entrò nella stanza, lasciando il passo al suo ospite. "Questo è mio figlio, Max."
Gli occhi di Nate si spostarono sul figlio dell'uomo anziano e si sentì tremare le ginocchia.
Max era di poco più basso di Nate, con i capelli scuri che gli arrivavano quasi alle spalle. Aveva un aspetto muscoloso, una struttura solida. Un'ombra di barba gli scuriva il viso.
Ma Nate non notò nulla di tutto questo. Nate notò gli occhi di Max, di una straordinaria sfumatura di castano, pieni di sentimento, pieni di rimpianto e di speranza nello stesso tempo. Come i loro occhi si incontrarono, il ricordo che aveva perseguitato Nate per tutta la sua vita si lanciò contro di lui …
E si scontrò col suo subconscio.
La sensazione fu così forte che Nate rimase senza fiato. Nella sua mente vide quell'uomo, solo molto più giovane, tenere in braccio un bambino, con gli occhi pieni di crepacuore mentre gli diceva addio.
In quell'istante Nate si rese conto di essere quel bambino.
E che Max era suo padre.

Capitolo 10

Sotto il suo peso, le ginocchia di Nate cedettero e lui si piegò. Svelto, Max lo afferrò per il braccio.
"Hey," gli disse dolcemente, guidandolo verso la sedia instabile che era accanto alla finestra. "Stai bene? Dai, siediti qui."
Nate fece quello che gli era stato detto, piegandosi in avanti e mettendo la testa tra le ginocchia. Era surreale, pensare di essere nella stesa stanza con la persona che aveva contribuito a crearlo, una persona che sembrava troppo giovane per avere un figlio dell'età di Nate. Max aveva una dozzina d'anni quando lui era stato concepito? E per completare il tutto, questo significava che Philip era il nonno di Nate – era riuscito a trovare due generazioni in due giorni.
Ma quello che allarmò Nate era che ora poteva afferrare completamente il ricordo, proprio come era successo poco prima. Come poteva essere? Suo padre gli aveva detto che era stato adottato a otto mesi – nessun bambino poteva avere ricordi di quell'età. La faccenda non aveva senso ed aumentava solo il dubbio che Nate stesse, per un motivo o per l'altro, diventando pazzo.
"Stai bene?" ripeté Max. "Vuoi un bicchiere d'acqua?"
Nate alzò la testa e trovò Max accovacciato davanti a lui.
"No." disse con voce roca. "Solo che … non sono stato bene." Lo sguardo di Max era preoccupato per quel ragazzo che aveva appena incontrato.
"Tu sei mio padre." aggiunse Nate, un'affermazione piuttosto che come una domanda.
Max fece un sorriso quasi percettibile ed annuì. "Si. Io sono tuo padre."
Milioni di domande si affollarono nella testa di Nate. Durante il suo viaggio verso il New Mexico, aveva preparato una lista mentale delle cose che avrebbe voluto chiedere al suo padre biologico, se mai l'avesse trovato. Ma ora, davanti a quest'uomo duramente attraente, Nate non riuscì a trasformare nessuno dei suoi pensieri in parole.
"Non so cosa dire." confessò triste.
"Forse siamo venuti in un brutto momento." suggerì Philip, facendo un passo avanti per posare una mano sulla spalla di Max. Nate seguì i loro movimenti, quelli del padre e del figlio. "Avrei dovuto telefonare prima di venire. Max forse dovremmo …"
"No." protestò Nate "Scusatemi. Solo che …"
"Non ti sei sentito bene." concluse Max, questa volta con un sorriso un po' più evidente.
Nate annuì, con le guance rosse.
"So che tutto ti sembra strano." continuò. "So che probabilmente avrai una quantità di domande, probabilmente più di quelle alle quali posso rispondere in una sola notte. Così, per favore – fai un paio di respiri profondi e rilassati, okay?"
Nate annuì, aspirò un paio di volte lentamente e si accorse di sentirsi un po' meglio
Max gli sorrise. "Bene. Ricominciamo." Tese la mano per salutarlo. "Ciao, io sono Max Evans."
Nate fece un sorriso e prese la mano di Max. "Nate Spencer."
"Felice di conoscerti, Nate"
Poi si scambiarono un sorriso, senza che nessuno dei due sapesse veramente cosa dire all'altro.
"Max ha ragione." cominciò Philip. "Ci sono un sacco di cose da dire. Invece di tirar fuori tutto insieme, perché non cominciamo con calma, una cosa alla volta? Perché non imparate a conoscervi un po' prima?
In realtà, Nate avrebbe voluto subito tutte le risposte, ma si rese conto che non sarebbe stato l'approccio migliore, così annuì senza dire nulla.
Philip gli rivolse un sorriso gentile. "Perché non vieni a casa con noi? Mia moglie ha preparato la cena e so che sarebbe contentissima di incontrarti."
Nate rivolse uno sguardo cauto in direzione di Max, che gli fece un cenno di assenso con la testa.
"Okay." rispose Nate "Ma prima vorrei darmi una rinfrescata."
"Naturalmente." disse Max alzandosi in piedi. "Ti aspetteremo fuori."
Quando i due uomini furono usciti, Nate sentì l'opprimente necessità di fare dieci cose alla volta e di sentirsi ironicamente paralizzato. Invece di affrettarsi, si ritrovò immobile al centro della stanza. Doveva lavarsi i denti e pettinarsi i capelli. Avrebbe voluto chiamare Annie e metterla al corrente delle novità – anche i suoi genitori avrebbero voluto saperle. Avrebbe dovuto contare il suo denaro, per sapere quanto tempo avrebbe potuto trattenersi a Roswell. Tante cose da fare e così poco tempo.
Alla fine, si forzò a lavarsi il viso e i denti e a pettinarsi i capelli. I suoi vestiti erano un po' in disordine, ma non poteva farci nulla perché non aveva un altro cambio pulito. Poi prese la sua giacca ed uscì dalla stanza.
Come era successo prima, qualche tenda si spostò e qualche testa fece capolino dalle porte socchiuse. Nate girò lo sguardo e vide Philip e Max accanto ad un fuoristrada nuovo. Gi uomini stavano parlando pacatamente, ma smisero all'avvicinarsi di Nate
"Mi siederò dietro." si offrì Max, aprendo la portiera.
"Va bene." rispose svelto Nate. "Anche io mi siederò dietro." Avrebbe preferito sedere da solo, ma voleva anche sedersi dove avrebbe potuto vedere quello che succedeva. Forse era paranoico, ma stava entrando nell'auto di due perfetti sconosciuti in una città dove nessuno si sarebbe accorto della sua scomparsa.
Max si strinse nelle spalle, il rumore della giacca di pelle che accompagnava il suo movimento.
Gli uomini montarono nell'auto, Philip al volante, Max al centro e Nate sul retro. Dopo aver allacciato la cintura, il suo sguardo si posò su una borsa, posata sul pavimento dietro al sedile del guidatore – aveva l'aspetto di un trolley. Nate guardò in direzione di Max. Era arrivato in volo da qualche altra parte?
Il viaggio verso la casa degli Evans fu a dir poco strano. Nate non riusciva a pensare a qualche cosa da dire e Philip e Max facevano grande sforzi per includerlo nella loro conversazione. Nate stava rimpiangendo la decisione di aver accettato l'invito.
Ma alla fine arrivarono a casa degli Evans, una casa ben tenuta in un'area residenziale. Nate spalancò gli occhi – la casa era almeno due volte più grande del bungalow degli Spencer. Del resto, Philip Evans era un avvocato e Jonathan Spencer non lo era.
Mentre si stava slacciando la cintura, Max si chinò tra i sedili e gli disse "Solo una parola di avvertimento – mia madre ha le lacrime in tasca."
Nate alzò un sopracciglio, ma prima che riuscisse a chiedere un chiarimento, una donna, che lui immaginò essere la signora Evans, uscì dall'ingresso principale. Era una donna graziosa, forse un po' più giovane di Philip, con i capelli di un biondo pallido.
Spalancando le braccia, chiese a Max "Dov'è?"
Max rise uscendo dalla SUV. "Sul sedile posteriore, mamma."
Prima che Nate avesse la possibilità di aprire la portiera, la donna l'aprì e lo trascinò fuori per un braccio.
"Oh, guardatelo! Come è cresciuto!" disse prendendolo tra le braccia e stringendolo forte.
Nate fece una smorfia, incapace di respirare e incontrò lo sguardo di Max oltre la spalla della donna. Max inclinò la testa e col solo movimento della bocca, formò le parole "Te l'avevo detto."
"Santo Cielo, Diane." sospirò Philip prendendo la borsa dal sedile posteriore. "Lascia respirare il ragazzo."
Facendo un passo indietro, lei si asciugò le lacrime e prese tra le mani le guance di Nate, che diventarono immediatamente rosse. "Mi dispiace, tesoro. E' solo che non riuscivo a credere che tu fossi tornato con noi."
"Um, grazie, signora." balbettò Nate, incerto su cosa dire. Trovava strano che tutti fossero così cordiali – come se non avessero voluto darlo via per tutti quegli anni. Forse era stato rapito …
"Cosa c'è per cena?" chiese Max, mettendo il braccio attorno alle spalle di sua madre e allontanandola da suo figlio.
"E tu!" gridò lei, con un'espressione luminosa. "Guarda come sei abbronzato!" Poi le sue braccia lo avvolsero e cominciò a togliere il respiro anche a lui.
Nate guardò la scena divertito. Quello era certamente il benvenuto riservato a Max e Nate ricevette l'impressione che fosse arrivato al Tumbleweed direttamente dall'aeroporto. Diane strinse il suo braccio attorno alla vita di Max e lui le posò un braccio sulla spalla. Mentre entravano nella casa, Max guardò oltre la sua spalla verso Nate, mentre Diane continuava a parlare incessantemente. Nate gli offrì in risposta un sorriso, mentre tutto gli sembrava ancora così irreale.
Una volta in casa, Philip accompagnò Diane in cucina per tenerla occupata con la cena, non fosse altro che per dare a Nate un momento di respiro. Max accompagnò Nate nel soggiorno, dove rimase in piedi a disagio piuttosto che sedersi, e prese qualcosa da bere dal frigo per offrirla a Nate. Lui guardò la bibita – una 7Up.
"Ti aiuterà col tuo fastidio allo stomaco." disse Max, lasciandosi cadere su una poltroncina.
Nate guardò ancora la bibita. Come faceva Max a sapere che gli faceva male lo stomaco? Non ricordava di averglielo detto al motel – tutto quello che aveva detto era che non si sentiva bene. "Grazie." disse, improvvisamente intimidito.
"Di niente. Se hai bisogno di qualcosa, basta che tu lo chieda." Max aprì la sua Pepsi e ne bevve un sorso.
Gli occhi di Nate si posarono sulla mensola del caminetto, dove vide allineate alcune foto in piccole cornici d'argento. Si avvicinò e guardò la prima foto, con Max e una graziosa ragazza dai capelli scuri. Tutti e due stavano ridendo, ed erano una bellissima coppia.
"Quella è mia moglie, Liz." spiegò Max.
Nate guardò oltre la sua spalla. "Potrò incontrare anche lei?"
"No. Lei è rimasta a Boston."
Nate si voltò a guardare Max. Boston? "Vivi lì?"
Max annuì. "Mia moglie insegna ad Harvard."
Dentro di se Nate sbuffò – aveva fatto migliaia di chilometri di strada nella direzione sbagliata per incontrare quell'uomo. "Sei appena arrivato?"
Max annuì ancora.
Nate ritornò alle foto. Quella successiva era di una donna bionda che gli sembrò vagamente familiare, con accanto un uomo di origine latina e tre bambini. Guardò la donna, sapendo di averla già vista prima, ma senza sapere dove.
"Quella è mia sorella Isabel." disse Max. "Suo marito Jesse e i loro tre ragazzi. Anche loro vivono a Boston."
Nate si mise le mani in tasca, un gesto che rivelava il fatto che cominciasse a sentirsi in ansia, che voleva delle risposte. Guardò superficialmente le atre fotografie, poi si mise a sedere sul divano, appollaiandosi sul bordo, anziché sedersi comodamente.
"Liz è mia madre?" chiese sottovoce.
Per un breve momento Nate vide un lampo di qualcosa – rammarico? – negli occhi di Max, che scomparve subito.
"No." rispose. "Non è Liz."
Nate deglutì. "Allora … um, allora chi è mia madre?"
Max girò lo sguardo per un momento, come se stesse raccogliendo il suo coraggio. "Il suo nome era Tess Harding."
Nate aggrottò le sopracciglia, felice di aver avuto un'altra informazione. "Posso incontrarla?"
Max scosse la testa. "Temo di no, Nate. E' morta poco dopo la tua nascita."
A Nate sembrò che qualcuno gli avesse dato un pugno nello stomaco e una delle sue speranze svanì. Non avrebbe mai incontrato la sua vera madre e c'era qualcosa di devastante in quella consapevolezza.
"So come ti senti." gli disse Max dolcemente.
Nate alzò la testa, incuriosito.
Max fece un cenno agli Evans, che stavano parlando allegramente mentre si sedevano a tavola. "Anche io sono stato adottato."
"Sei stato adottato?" Era sorprendente, pensò Nate senza essere sicuro del perché. Era anche ironico che qualcuno che era cresciuto senza i suoi veri genitori avesse scelto lo stesso destino per la propria carne e il proprio sangue.
Max fece un piccolo cenno con la testa. "Solo che io non ho mai scoperto dove fossero i miei veri genitori."
Nate si accigliò. Era duro da sopportare.
Max fece un profondo respiro e disse piano "So che ti stai chiedendo perché ti ho lasciato in adozione."
Nate incontrò il suo sguardo e accennò col capo.
"Ero giovane, Nate, troppo giovane per prendermi cura di un bambino. Ero solo, tua madre era già morta. Ho pensato che avresti potuto avere una vita migliore con qualcun altro."
"Questo posso capirlo." disse Nate semplicemente. "Non sono arrabbiato o ferito, Max. Ho avuto una bella famiglia. Ero solo … curioso."
Max fece un largo sorriso. "E io posso comprendere questo."
Nate ricambiò il sorriso, realizzando che su questo argomento lui e Max Evans erano d'accordo, forse erano fatti della stessa stoffa, dopotutto.
"Per quanto ti fermerai in città?" gli chiese Max.
Nate fece disse un numero, senza sapere se in realtà poteva permetterselo. "Ancora un paio di giorni."
"Bene." replicò Max. "Allora mi fermerò qualche giorno anche io."
Nate era raggiante. Avrebbero passato un po' di tempo insieme, conoscendosi meglio a vicenda. Per la prima volta dopo tanto tempo, il dolore allo stomaco scomparve.
Per la miseria, non riusciva a capire perché era stato tanto ansioso nel venire a Roswell.

Capitolo 11

Mentre si lasciava cedere sul letto ancora con indosso la sua giacca, Nate non riusciva a togliersi il sorriso dalle labbra. Aveva trascorso l'intera serata con la famiglia che lo aveva allontanato ed aveva scoperto che erano persone meravigliose! Dopo cena, lui e Max avevano portato il cane di Diane a fare una passeggiata e avevano parlato un po'. Nate gli aveva mostrato le foto dei suoi genitori e di Annie, ai quali Max aveva fatto sinceri complimenti che avevano riempito Nate di orgoglio. E il giorno successivo si sarebbero visti per colazione – per ironia, allo stesso ristorante che Nate aveva frequentato da quando era arrivato in città. per di più, il proprietario del ristorante era il suocero di Max.
Ancora sorridendo, Nate guardò l'orologio. Era tardi, troppo tardi per chiamare i suoi genitori e metterli a conoscenza di quella serata. Moriva dalla voglia di dirlo a qualcuno, così il suo pensiero volò naturalmente verso Annie. Non era mai troppo tardi per chiamare lei, vero?
Senza rifletterci troppo, Nate cercò nella tasca della giacca finché non trovò il suo cellulare e spinse il numero per la chiamata automatica di Annie. Dopo pochi squilli, lei rispose al telefono, con voce insonnolita.
"Ciao, tesoro, sono io." disse Nate al telefono, sorridendo sempre di più.
"Nate? Cosa c'è che non va? Che ore sono?"
"Niente che non vada. Volevo solo parlare con te."
"Cosa è successo?"
"Li ho conosciuti, Annie. Tutti loro. Mio padre, i miei nonni. Stasera sono andato a casa loro e ho cenato con loro."
"Bella notizia." la sua voce suonava ancora stanca. "E tua madre?"
Nate sentì svanire il suo buonumore e capì che Annie voleva rovinargli l'entusiasmo per quello che aveva scoperto. Perché doveva essere così? Perché lui glielo permetteva sempre?
"Sembra che mia madre sia morta dopo la mia nascita." disse serio.
"Conveniente. Cosa mi dici dei suoi genitori?" Hai anche altri nonni, lo sai? Dove sono?"
Nate si accigliò. Non aveva nemmeno pensato a chiederlo. "Posso chiederlo a Max domani. Faremo colazione insieme."
"Bene. E tra le altre cose, chiedigli anche perché non hai potuto sapere di lui fino ai tuoi diciotto anni."
Nate si stupì. Lui non aveva dato ad Annie quella informazione e quello che aveva detto era la prova che lei aveva visto il contenuto della busta scura prima che lui ne avesse avuta la possibilità - il che spiegava perché non sembrasse abbattuta, nella casa sull'albero, quando le aveva detto che era stato adottato.
"Non glielo hai ancora chiesto, vero?" disse Annie, disse Annie dopo un silenzio teso.
"Tu come fai a saperlo?" le chiese cauto.
"Me lo hai detto tu, sciocco." C'era un'ombra di risata nella sua voce e Nate si chiese immediatamente se si fosse accorta della gaffe e avesse cercato di porvi rimedio.
"Davvero? Quando?" la sollecitò lui.
"Nella casa sull'albero."
Ma lui non aveva ancora aperto la busta, quando loro si erano incontrati nella casa sull'albero …
"Ricordatelo." disse, con la voce che stava diventando morbida come la seta. "Proprio prima che tu mi mostrassi di cosa eri fatto, prima che tu sconvolgessi il mio mondo, Nate"
La mente di Nate, quel giorno, avrebbe voluto tornare a quel giorno, a fare l'amore con Annie in quella casa-giocattolo, ma c'era qualcosa che lo scombussolava nella consapevolezza che lei aveva curiosato alle sue spalle e gli aveva mentito.
"Vorrei che tu fossi qui." gli disse dolcemente. "Vorrei che tu rimettessi a posto il mio mondo, Nate. Per favore, torna a casa."
Lui si schiarì la gola, con la sua gioia ormai completamente svanita. "Tra un paio di giorni, amore. Ho tutta la vita da trascorrere con te, ma questa potrebbe essere l'ultima volta che vedo queste persone."
Sentì dall'altra parte della linea un sospiro frustrato. "Bene. Fai quello che ti pare. Penso di essere qui, quando tu tornerai."
In risposta, Nate fece un respiro profondo e un sospiro quasi impercettibile. "Ti amo, Annie."
"Si. Anche io."
E con questo chiuse il telefono. Nate rimase a fissarlo per un lungo momento, poi spinse il bottone per spegnerlo. Rattristato, gettò il cellulare sul comodino e fissò il soffitto. Annie aveva ficcato il naso nei suoi affari, poi aveva mentito per coprire le sue azioni. Era un comportamento che non si sarebbe mai aspettato da lei.
Però Annie aveva ragione su una cosa – domani Nate avrebbe dovuto ricordarsi di chiedere a Max il perché di quella strana clausola nel suo contratto di adozione. Domani, avrebbe provato a non perdere l'occasione per ottenere quelle risposte per cui aveva fatto tanta strada.

***

Il mattino successivo, Nate chiamò i suoi genitori e li mise al corrente della sua serata con gli Evans. Un po' della sua eccitazione era sparita per colpa di Annie, ma cercò ancora di far loro comprendere quanto sembrasse meravigliosa la sua famiglia biologica. A differenza della sua fidanzata, Jonathan e Emma sembrarono felici ed ebbero per lui parole incoraggianti. Questo migliorò un po' il suo umore e poté pensare di nuovo alla colazione con Max.
Il Crashdown era poco frequentato alle sette della mattina, così gli occhi di Nate cercarono immediatamente una certa cameriera bionda, che aveva l'aspetto di una che aveva passato alzata metà della notte. Comunque, subito dopo averlo visto, lei gli fece un bel sorriso e posò il menù sul bancone, davanti a lui.
Nate scosse la testa. "Non oggi." disse. "Oggi sono in compagnia."
"Oh, oh!" scherzò lei, conducendolo verso un separè. "In città da quanto? – tre giorni? – e già hai trovato compagnia."
Nate scosse la testa, arrossendo, mentre scivolava sulla panca.
"Vuoi del caffé?" gli chiese Alyssa.
Lui annuì e la guardò allontanarsi per prendere il bricco del caffé.
Il suo sguardo le passò al volo sul sedere rotondo e Nate avvertì ancora quella fitta di senso di colpa. Quando ritornò, Alyssa gli sistemò una tazza davanti e cominciò a riempirla per lui.
"Ascolta. Devo darti un avvertimento." gli disse seria.
Nate alzò gli occhi verso di lei, aspettando curioso.
Piegandosi alla vita, in modo che i loro occhi fossero alla stessa altezza ed estremamente vicini, lei sussurrò "Non mangiare qui troppo spesso."
Lui studiò i suoi occhi scuri, cercando di non ridere. "Perché no?" gli sussurrò di rimando.
"Perché una volta o l'altra questo cibo ti farà venire un infarto."
Nate perse la battaglia per contenere la risata. Alyssa si raddrizzò e spinse la coda di cavallo dietro le sue spalle.
"Bene, ridi pure." disse scherzosamente risentita. "Io cerco di essere carina e guarda come mi tratti. E proprio quando stavi incominciando a piacermi … "
Nate rimase a bocca aperta mentre lei si allontanava, tornando dietro al bancone dove la aspettava un altro cliente. Piacergli lui? Stava scherzando, vero?
Nate non ebbe il tempo di approfondire le implicazioni di quella frase, perché Alyssa lasciò andare un grido all'improvviso e corse verso l'ingresso. Lui si fece un po' indietro, vedendola correre a braccia spalancate, come una bambina di tre anni e strillando forte, come fanno di solito le ragazze. Seguendo la sua traiettoria, vide che il motivo per cui aveva perso completamente la sua padronanza di se, non era altro che Max Evans. Quando Alyssa si lanciò tra le braccia di Max e gli diede un grosso bacio sulla guancia, le sopracciglia di Nate gli arrivarono quasi all'attaccatura dei capelli.
Max rise e si liberò dolcemente dall'abbraccio della ragazza, che stava blaterando a mille all'ora. Nate fece un mezzo sorriso a quello spettacolo e si chiese come facessero a conoscersi. Da dove era seduto, non poteva sentire quello che si stavano dicendo, ma quando Max si diresse verso Nate, lei lo fissò ugualmente sorpresa.
Dopo pochi attimi, Max scivolava nella panca di fronte a Nate e Alyssa stava facendo del suo meglio per non appiccicarsi a lui. Nate guardò in silenzio da Max ad Alyssa, in attesa di una spiegazione.
"Mi dispiace." gli disse lei, asciugandosi gli angoli degli occhi con la punta delle dita; fino a quel gesto Nate non si era accorto che la presenza di Max l'avesse fatta piangere. "Solo che era da tanto che non vedevo zio Max."
Nate si sentì come se gli avessero dato una botta in testa. Zio Max? Dannazione! Aveva auto pensieri impuri verso sua cugina? Nate si sentì prendere dalla vergogna.
Max doveva aver visto la sua espressione, perché fece una risata mentre si sfilava il giaccone. "Zio solo di nome." chiarì.
Nate fece un sospiro di sollievo.
"E tu fai parte della famiglia." gli disse Alyssa, con la voce piena di affetto e ammirazione nello stesso tempo. "Vedi? Sapevo che avevi qualcosa di familiare." Lei sollevò per un momento lo sguardo, con gli occhi increspati in un sorriso sincero e felice, poi prese il blocchetto delle ordinazioni. "Lasciate che vi porti la colazione."
"Un infarto speciale." disse Max, sorridendole.
Alyssa alzò lo sguardo dal blocco e inarcò un sopracciglio.
"Risparmiati la predica." aggiunse Max.
Lei sospirò e prese l'ordinazione, poi guardò Nate, che non aveva idea di cosa ordinare, perché non aveva ancora visto il menù.
"Um, lo stesso?" disse.
Lei sbatté gli occhi un paio di volte, poi scrisse ancora sul blocco e si allontanò brontolando. "Io cerco di metterli in guardia. E loro mi ascoltano? no."
Max rise ancora. "E' un po' pazza." disse, zuccherando il suo caffé. Nate lo vide prendere quelle che sembravano sei o sette bustine – forse Alyssa aveva ragione a mettere in guardia suo 'zio' sulla sua salute.
"Come mai la conosci?" chiese Nate.
Max prese la sua tazza vuota e la porse alla ragazza, che stava di nuovo dietro al bancone. Lei sorrise e andò verso il bricco. "Io e suo padre siamo amici, siamo cresciuti insieme. Sua madre era la migliore amica di mia moglie. In effetti lo è ancora."
"Oh." fu la sola risposta di Nate
"Anzi, tra un po' lui si unirà a noi." disse Max e Alyssa smise di riempire la tazza. "E anche Maria, se ne avrà la possibilità."
"Se ne avrà la possibilità." gli fece eco Alyssa, con un'espressione disgustata.
Max le lanciò un'occhiata, le sopracciglia unite, se per la preoccupazione o l'imbarazzo, Nate non sapeva dirlo. Ma non si soffermò a scoprirlo, perché la notizia che avrebbe fatto colazione con Maria Deluca l'aveva colpito.
"Lei sta venendo qui?" chiese con un filo di voce. "Maria Deluca?"
Max rise e cominciò a vuotare le bustine di zucchero nel caffé. Alyssa scosse la testa e si allontanò, disgustata dalle abitudini dietetiche di Max e dal condizionato arrivo della madre.
"Lei è proprio come me e te, Nate." gli disse Max. "E' solo una persona."
"La mia fidanzata non la pensa così." Mentre pronunciava quelle parole, si rese conto che il comportamento di Annie l'aveva così demoralizzato, che aveva anche dimenticato di dirle di aver visto Maria Deluca.
Max scrollò le spalle. "Lo vedrai."
Nate, a disagio, cambiò posizione, ricordando a se stesso le domande che ancora aspettavano una risposta. "Ascolta, Max, prima del loro arrivo, vorrei farti qualche domanda."
"Okay." Max prese il cucchiaino e girò il caffé.
Nate si morse il labbro e chiamò a raccolta il suo coraggio. "Nella busta che mi è stata data, c'era un documento legale in cui era scritto che non dovevo sapere dell'adozione fino a diciotto anni."
"Davvero?" rispose Max, quasi meccanicamente, come se non stesse prestando attenzione.
"Si. Sono solo curioso di sapere, um … perché?"
"Non lo so. Non ne ho mai saputo nulla. Dovremo chiederlo a mio padre, credo … "
Nate si stupì. Non ne era a conoscenza?
"Um, okay. Un'altra cosa – perché sono stato adottato come abbandonato? Voglio dire, è ovvio che tu sapevi della mia esistenza e che qualcuno mi ha dato in adozione, così non è che sono stato abbandonato sul gradino di una chiesa o qualcosa del genere."
"Oh, guarda. C'è Michael." lo interruppe Max facendo un cenno in aria con la mano. "Michael, siamo qui."
Nate si voltò e si tirò indietro quando vide l'uomo che si avvicinava a loro. Era alto, dall'aspetto solido e dai capelli selvaggi come il vento – ma c'era qualcosa nei suoi occhi che fece sentire Nate come se fosse una nullità. Mentre tutti quelli che aveva incontrato erano stati cordiali ed affettuosi, questa persona sembrava il contrario. Senza dubbio, quel Michael avrebbe fatto a pezzi Nate, se ne avesse avuta l'occasione … e forse anche se non l'avesse avuta.
Mentre Max si alzava per salutare l'amico, Nate sentì tornare il dolore allo stomaco. Max aveva chiaramente evitato di rispondere alle sue domande sull'adozione. Odiava ammetterlo, ma forse Annie aveva subodorato qualcosa.

Capitolo 12

Quando Max si fu di nuovo seduto, Alyssa si avvicinò per abbracciare il padre. Nate li vide interagire con interesse – non si comportavano come persone che si fossero viste recentemente. In poche parole davano l'idea di non vivere insieme.
"Discendente." disse Michael salutandola.
"Unità Genitoriale." gli rispose Alyssa, con la bocca affondata nella sua giacca – la cima della sua testa sotto il mento di lui.
Michael rispose stringendola forte. Era ovvio che amava molto sua figlia.
"Papà, più tardi verrai a pattinare con me?" gli chiese.
"Certo che verrò, zucca." rispose lui, allentando l'abbraccio.
Lei si illuminò tutta e si allontanò per prendersi cura di alcuni clienti appena arrivati. Nate la vide allontanarsi, poi rivolse lo sguardo sugli occhi vigili di Michael Guerin. Mandò giù la saliva, mentre Michael si sedeva vicino a Max.
"Così tu saresti Spot?" disse Michael. (NdT. Spot: macchia, neo, pustola. Cosa piccola e fastidiosa)
"Prego?" chiese Nate, pensando di non aver sentito bene, ma avendone conferma dallo sguardo che Max lanciò all'amico.
"Voglio dire, tu dovresti essere Nate" chiarì Michael.
Nate cominciò ad odiarlo. Dopo solo un minuto e mezzo, stabilì che Michael era rude e maleducato, diverso da tutte le altre persone che aveva incontrato. Ma Nate aveva ricevuto un'educazione, e da persona educata si comportò.
"Si, signore." rispose, allungando una mano per salutarlo.
Michael la guardò, guardò Max, poi allungò la mano per prendere il menù. Max fece un sospiro, sembrando tutto fuorché compiaciuto.
Nate ritirò la mano e la fece scivolare sotto al tavolo. Aveva avuto la sensazione giusta – per Michael lui era una nullità. "Tu sei Michael, allora." disse, più per dire qualcosa che per altro.
"Si." rispose Michael, continuando a leggere il menù.
Max incontrò lo sguardo di Nate e lui vi vide un mondo di scuse. Per qualche ragione, aveva la sensazione che Max avesse passato un sacco di tempo a scusarsi per le azioni di Michael.
"Maria verrà?" chiese Max, prendendo un sorso di caffé.
"Come diavolo faccio a saperlo." rispose Michael, senza animosità.
Max roteò gli occhi. "Hai intenzione di fare il bastardo tutto il giorno, Michael, o è solo perché ti abbiamo svegliato troppo presto?"
Michael sollevò la testa dal menù, con la sorpresa – sincera o simulata, Nate non ne fu sicuro – stampata sulla faccia. "Io non sto facendo il bastardo."
Max sollevò un sopracciglio, sfidandolo a iniziare una discussione e Michael fece marcia indietro, riabbassando gli occhi sul menù. Nate rimase affascinato e si chiese quale fosse la dinamica del rapporto Max / Michael.
"Tu sei sempre un bastardo." disse una divertita voce femminile e i tre uomini videro che Maria Deluca era in piedi accanto al tavolo, con la giacca poggiata sul braccio.
Nate sentì il cuore saltargli nel petto. Era lei – veramente lei! Ed era venuta per fare colazione con lui!
Contro la sua volontà, la sua bocca si spalancò e tutto quello che riuscì a fare fu fissarla. Era più bella di persona di quanto non lo fosse nelle foto - e la sua pelle era impeccabilmente perfetta.
"Tu dovresti saperlo bene." replicò Michael, dandole una pacca discreta, cosa che lei ignorò.
"Sembra che l'unico posto vuoto sia questo." disse rivolgendo un sorriso a Nate. "Posso sedermi accanto a te?"
Poteva sedersi accanto a lui? Accidenti, si! O meglio – accidenti, no! Sarebbe stato troppo nervoso per riuscire a mangiare se lei gli stava accanto. E se l'avesse sfiorato? Oh, Dio – e se le avesse rovesciato qualcosa addosso?! No – doveva sedersi da qualche altra parte!
Maria scoppiò a ridere. "Penderò il tuo silenzio per un si." fece scivolare il suo bel corpo sulla panca facendo in modo di dare 'accidentalmente' un calcio sullo stinco di Michael.
"Dannata donna!" mormorò lui sobbalzando.
Lei arrotolala sua giacca e la porse a Nate. "Infilala nell'angolo, vuoi?"
Lui la tenne in mano qualche momento di troppo, il profumo che gli colpiva le narici. Quando si rese conto che si stava comportando come uno sciocco, si affrettò a posare la giacca tra la sua gamba e la parete del separè
"Sembri accaldato, Max." disse, accavallando le gambe sotto il tavolo.
Max si limitò a ridere di soppiatto, mentre beveva un altro sorso di caffé. Michael la guardò senza alzare la testa, evidentemente disgustato.
"E come sta la mia Lizzy?" chiese poi Maria.
"Sta bene." rispose Max e Nate lese nei suoi occhi l'amore per sua moglie. "Occupata, lo sai. Avrebbe voluto venire, ma … "
"Si, lezioni e tutto il resto." finì Maria. I suoi occhi verdi si spostarono su Michael. "Orco." gli disse.
"Strega." replicò lui.
Nate si limitò a guardarli, tutti. Probabilmente avevano il doppio della sua età ed erano amici da prima che lui nascesse. Una di esse era incredibilmente famosa – o almeno lo era stata cinque anni prima, quando era uscito il suo CD – e Nate non riusciva a smettere di guardarla.
Alla fine, Maria sospirò e di punto in bianco rivolse lo sguardo su di lui. Nate si fece indietro, non sapendo cosa dirle, rendendosi conto all'improvviso di essere in trappola e che l'unico modo di uscire era saltare sopra a lei o sopra al tavolo.
"Okay, ragazzo." disse stancamente. "facciamola finita."
Nate non capì. " Facciamo finita … cosa?"
Lei gli tese la mano. "Dove lo vuoi l'autografo? Su una maglietta? Sul mio CD? Su una foto? Che cos'hai?"
Niente. Ecco quello che aveva. Assolutamente niente. Annie l'avrebbe ucciso quando l'avesse saputo.
"Um, io – io non voglio che mi firmi … niente." E sottolineò le sue parole con un sorriso nervoso.
Maria fece una pausa, poi sembrò sollevata e confusa nello stesso tempo. "Non vuoi un autografo?"
Lui scosse svelto la testa.
Lei fece cadere la mano e sollevò le sopracciglia. "Oh, bene. Questa è una novità." Fissò per un attimo il ripiano del tavolo, poi si rilassò visibilmente. "Santo Cielo. Non è che mi chiederai un appuntamento, un bacio o qualcosa del genere, vero?"
Nate scoppiò a ridere. "No, signora. Non ho in mente niente del genere."
Maria ammiccò, di nuovo sorpresa. "Oh."
"Dannazione, Maria." esplose Michael, gettando il menù sulla tavola e facendolo finire fortunatamente solo vicino alla tazza di caffé di Max. "Non tutti al mondo si interessano di te."
"E tu che ne sai?" ribatté lei.
Nate guardò le loro mani – niente fede per nessuno dei due. Nella sua mente valutò i loro comportamenti ed arrivò ad una conclusione – divorzio amaro, se recente o lontano non era in grado di dirlo.
"Mamma, per favore." disse Alyssa angosciata, quando si fermò accanto al tavolo, portando la colazione di Max e Nate. "Puoi evitare di litigare qui?"
Maria si risentì e rimase a bocca aperta. "Perché devo sempre essere io quella che comincia a litigare?"
"Hai cominciato tu." scherzò Michael.
Lei gli lanciò un'occhiata incredula poi puntò un dito verso di lui. "Alyssa, non hai idea di quello che lui ha detto a me."
Nate sentì un'ondata di simpatia per la ragazza, e quando lei lo guardò, lui cercò di farle un sorriso di conforto. Leggeva il dolore sul suo viso e decise che, indipendentemente da quanto tempo fosse passato dal divorzio, lei ne era stata la vittima.
"Non importa." disse sottovoce. "Solo … per favore andate a litigare fuori da qui, okay? Cosa volete mangiare, ragazzi?" Piegandosi in avanti, posò i piatti che aveva in mano davanti a Max e Nate.
Maria fece un sospiro. "Mi dispiace. Per me solo del succo di arancia e un panino."
"Si, anche a me dispiace, dolcezza." disse Michael e Nate ebbe l'impressione che fosse vero. "Posso avere delle frittelle e un po' di pancetta?"
Lei annuì e si allontanò.
Nate si guardò in grembo, a disagio per la tensione che quegli estranei avevano causato. Poi il suo sguardo si posò sul piatto e comprese perché Max l'aveva chiamato 'infarto speciale' – uova alla Benedict, salsiccia, patate fritte e un toast. Gli occhi di Nate si spalancarono – non avrebbe mai potuto mangiare tutta quella roba.
Max non sembrò scoraggiato – prese una bottiglietta di Tabasco e mise la salsa rossa sopra le uova. A Nate venne da ridere.
"Perché non sei grasso?" chiese Maria, mentre Max affrontava le uova. "Se io mangiassi così, peserei novanta chili." Ancora prima che lui riuscisse a pensare ad una risposta, lanciò a Michael un'occhiata collerica.
Max si accigliò e tagliò una delle uova.
Nate aveva sempre pensato che non fosse educato cominciare a mangiare prima che tutti fossero serviti. A giudicare dal comportamento degli Evans, anche a Max dovevano averlo insegnato ma, in apparenza, lui si sentiva talmente a suo agio con quelle persone che non si sentiva in dovere di fare cerimonie. Da parte sua, Nate posò le mani sul grembo ed aspettò pazientemente.
"Anche tu sei magro." disse Maria, girandosi dal suo lato.
Nate sobbalzò leggermente.
"Come fai ad essere così magro, mangiando tutta quella roba?" lei puntò il suo dito ben curato verso il piatto di Nate
"Di solito non mangio così tanto." confessò, poi guardò Max per scusarsi.
"Ah, capisco." rise Maria. "Già corruttore di ragazzi, vero Max?" Lei rise tra se, poi fissò Nate in viso, al punto che il ragazzo cominciò a sentirsi a disagio. "Voi avete lo stesso naso." osservò. "E la stessa mascella. Ma non molto di più."
Nate girò lo sguardo, incerto a come rispondere al suo giudizio. Dall'altra parte del tavolo, Michael distese le braccia lungo il separè e si guardò intorno nel locale, indifferente.
"Questi sono occhi azzurri da rubacuori." continuò lei sorridendo.
le guance di Nate diventarono rosse. "Uh, grazie." Pensò che forse sua madre aveva gli occhi azzurri, perché certamente quelli di Max non lo erano.
"Maria." disse Max ancora col boccone in bocca. "Lascia in pace il ragazzo, almeno per un momento."
Lei sembrò davvero spiacente per averlo dissezionato. "Mi dispiace. E' solo che è la prima volta che ti vedo e non ho potuto fare a meno di cercare … qualche somiglianza."
La verità era che Nate e suo padre non si somigliavano moltissimo. I loro capelli erano dello stesso colore e i lineamenti che Maria aveva indicato erano simili, ma tranne che per quello, nessuno avrebbe detto che erano parenti.
"Penso che assomigli alla madre." si intromise Michael.
Per un beve momento, Nate notò che Max aveva smesso di tagliare il suo cibo, poi aveva ricominciato a mangiare.
"Io non lo credo." disse Maria dolcemente. "Credo che lui somigli a Nate Punto."
Gli sguardi di Michael e di Maria si inchiodarono l'uno all'altro e Max guardò senza muoversi, nel suo piatto per qualche momento.
Nate si schiarì la gola e cercò di ignorare il dolore che gli tormentava la pancia. Incollandosi sul viso il sorriso migliore che riuscì a fare, si girò verso Maria. "Mi farebbe passare, per favore? Vorrei lavarmi le mani prima di mangiare."
Lei annuì e scivolò fuori dalla panca. Quando le passò accanto, lei fece un commento sulla sua altezza, ma lui lo afferrò appena. La sua mente stava lavorando su quello che era appena trapelato. La domanda di Annie sui suoi nonni materni gli si riaffacciò alla mente, riempiendolo di dubbi e di preoccupazione. Ovviamente c'erano molte più informazioni di quelle che lui aveva appena incominciato ad avere.
Nate si lavò velocemente le mani e le asciugò, prima di uscire dal bagno. Quando fu vicino al separè, notò che i comportamenti erano cambiati, che Max non stava più mangiando e che stava agitando in aria le posate, mentre parlava con Michael. Le parole che Nate udì per caso dire da Michael, gli confermarono la sua supposizione che c'era qualcosa di sbagliato.
"Lo so che è tuo figlio." stava dicendo Michael. "Ma quello che tu sembri aver dimenticato è che lui è anche il figlio di Tess."

Continua...

Scritta da Karen (MidwestMax)
Traduzione italiana con il permesso dell'autrice
dall'originale in inglese, a cura di Sirio


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