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SPECIALE

IL FIGLIO DI NESSUNO (Nobody Son)

Capitoli 1-6


Riassunto: Questa storia, in 37 capitoli, è la prima di cinque fanfiction collegate tra loro. La vicenda ha luogo dopo 17 anni dall'episodio "Four Aliens and a Baby".

Valutazione contenuto: non adatto ai bambini.

Disclaimer: Ogni riferimento a Roswell appartiene alla WB e alla UPN. Tutti gli attori protagonisti del racconto e citati appartengono a loro stessi.

Introduzione dell'autrice: Amo il personaggio di Max e le dolci sfaccettature del suo carattere: la sua insicurezza, il suo senso di responsabilità, la sua generosità nel pensare sempre prima agli altri. Lui non sarà il protagonista di questa ff, ma sarà presente al pari di tutti gli altri personaggi che abbiamo imparato ad amare, così da non fare torto a nessuno. I protagonisti saranno Nate e Alyssa. Non voglio anticiparvi nulla, per non togliervi il gusto della scoperta ma, come dice l'autrice, questa storia ha luogo dopo 17 anni da ‘Four Aliens and a Baby’ e con questa informazione non ci vuole uno scienziato spaziale per capite chi è Nate, mentre sarà più difficile immaginare perché avrà vita difficile col futuro suocero. Quello che abbiamo visto in ‘Graduation’ non è mai accaduto.


Capitolo 1

Era il ricordo che lo ossessionava, che lo aveva ossessionato per tutta la sua vita.
Nathan Spencer immerse la tazza di plastica nell’acqua che odorava di pesce e recuperò una mezza dozzina di pesciolini. Asciugato l’esterno del contenitore, lo chiuse con un coperchio e lo porse al cliente con un sorriso. Dalla settimana precedente, con la fine della stagione turistica, gli affari andavano a rilento. Ma c’era ancora qualche turista duro-a-morire, e un sacco di gente del posto che amava pescare nel lago, prima che il freddo lo facesse ghiacciare.
Dopo aver dato al cliente il suo resto, Nate cercò di scacciare il ricordo che indugiava nella sua mente. Era sempre lì, proprio al limite della sua mente cosciente, qualcosa che ogni volta che cercava di afferrarlo con la punta delle dita, gli sfuggiva via. A dir poco, era esasperante.
Sul retro del negozio il padre di Nate, Jonathan, stava facendo l’inventario, per decidere cosa ordinare per la prossima consegna. I rifornimenti sarebbero state minimi ora che stava per arrivare Ottobre e che i turisti erano tornati a casa loro, quasi tutti negli stati confinanti, Ohio e Pensilvanya. Chautauqua era lontana dal diventare una Mecca industriale. I suoi mezzi di sostentamento erano basati quasi esclusivamente sui turisti, quelle persone che avevano abbastanza denaro per comprare od affittare un cottage sulle sponde del lago, gente che aveva più denaro di quanto Nate e suo padre avrebbero mai potuto sperare di avere. La gente attorno a Nate era gente di campagna, che faceva una vita semplice e tranquilla, fino all’arrivo del gregge dei vacanzieri che arrivava ogni estate, disturbando la loro pace e comportandosi come se fossero i proprietari del posto. Nate e i suoi amici chiamavano i turisti ‘quelli della pianura’ perché gli Stati dai quali provenivano erano quasi tutti pianeggianti a paragone delle bellissime montagne ad ovest di New York. Era una specie di soprannome, ma che indicava il loro risentimento contro quell’invadente orda di gente.
"Dobbiamo cominciare a immagazzinare le scorte di emergenza." disse Jon, osservando la sua lavagnetta.
Nate lo guardò ed annuì. Avevano la stessa conversazione ad ogni metà di settembre, fin da quando poteva ricordare.
"Carbone, guanti, sale per il ghiaccio." mormorò suo padre, scrivendo sulla lavagna. "Corda."
Ugh, corda. Nate impallidì ricordando un inverno di non molto tempo prima quando un gruppo di bambini stava giocando sopra il lago ghiacciato, pensando che fosse solido per pattinare. Ma l’inverno era stato mite, e lo spessore del ghiaccio era di appena pochi centimetri o poco più, e molti dei bambini vi erano caduti dentro. Nate e suo padre erano riusciti a tirarli fuori tutti, tranne uno ed era per quel bambino che lui avrebbe avuto terrore dell’inverno per il resto della sua vita. Nate poteva ancora avvertire la stretta gelata del ghiaccio sulla sua pelle e la stretta della corda attorno alle sue spalle mentre, disteso con la pancia sulla superficie ghiacciata, immergeva disperatamente le mani nell’acqua, cercando di afferrare quell’ultimo bambino. Alla fine, lui gli era scivolato via, incapace di resistere, vittima dell’acqua gelida.
Nate chiuse gli occhi. La perdita di quel bambino era stata una tragedia, ma per Nate era stato ancora peggio.
Per qualche sconosciuta ragione si era sentito responsabile per aver lasciato che quel bambino affogasse, che in qualche modo lui avrebbe dovuto salvarlo, avrebbe dovuto fare in modo che tutto finisse bene. In realtà, era insensato, perché il fatto che il bambino fosse caduto in acqua non era certo colpa di Nate, ma lui non poteva fare a meno di sentirsi schiacciato dalla sensazione di aver fallito, dalla sensazione che fosse suo dovere guarire il dolore del mondo. Ora lui avrebbe voluto che quel ricordo e il ricordo di qualsiasi cosa fosse quella su cui lui non riusciva a mettere le mani, andassero via per sempre.
"Tutto bene?" chiese Jon, guardando il figlio al di sopra del bordo degli occhiali.
Nate annuì.
Jon fece un piccolo cenno con il capo e chiuse la sua penna. "Perché non vai nel retro e sistemi la merce arrivata stamattina? Io avrò bisogno di un po’ di tempo per controllare i registri."
Nate fu più che felice di obbedire. Gli piaceva lavorare nel magazzino, perché poteva farlo al ritmo che gli era congeniale, senza dover controllare in continuazione se qualcuno stesse aspettando di essere servito o se c’era qualcuno che tentasse di rubare qualcosa. Dietro, nel magazzino freddo, poteva riflettere e pensare alle sue cose. Era qualcosa di più di un tipo solitario ed aveva bisogno dei suoi spazi.
Nate era un ragazzo esile, diciotto anni di età, con capelli scuri ed occhi seri. In effetti, gli occhi non erano l’unica cosa seria in Nate Spencer. I suoi amici lo prendevano spesso in giro perché era un individuo pacato, critica che lui accettava senza offesa e di buon grado perché era vero. Non che fosse noioso o che evitasse i divertimenti, era solo … responsabile, quasi sempre. Aveva cercato di cambiare e di fare cose stupide come arrampicarsi sul serbatoio dell’acqua, ma qualcosa l’aveva sempre trattenuto. Lui non sapeva cosa fosse, tranne che forse era quella la sua indole. A quando sembrava, Nate Spencer non era destinato a prendersela alla leggera.
Mentre si chinava per prendere una scatola di barattoli di pesche, sentì un fischio.
"Ebbene, è per vedere questo che mi sono fatta tutta questa strada?" disse scherzosamente una voce femminile.
Nate si raddrizzò e si voltò per vedere Annie O'Donnell sulla porta. Il cuore gli fece un doppio balzo nel petto e il suo viso si aprì in un largo sorriso. Annie. Tutta capelli biondo fragola e gambe armoniose, una spruzzata di lentiggini sopra il naso. La sua Annie. I suoi occhi verdi scivolarono sulla maglia di lui e il suo sorriso scomparve, mentre inclinava la testa.
"Nate, cosa ti ho detto a proposito di quella?" lo rimproverò lei con dolcezza.
Lo sguardo di Nate si abbassò. Stampate a lettere bianche sulla maglia scura, c’erano le parole ‘Abitanti della pianura, tornatevene a casa.’ Nate scoppiò a ridere.
"Non facilita gli affari." disse Annie senza entusiasmo.
Nate si avvicinò a lei e le appoggiò le mani alla vita.
"Forse, allora, è il caso che me la tolga." le sussurrò, mordicchiandole il lobo dell’orecchio.
Nate fece un profondo respiro e ridacchiò.
Stavano insieme da quando avevano circa dodici anni. Gli O'Donnell si erano trasferiti in quella zona quando Annie frequentava la prima media e al primo sguardo Nate era stato conquistato. Non poteva dimenticare la vista di lei con i libri stretti al petto, che si guardava attorno perplessa tra un mare di studenti nessuno dei quali le prestava attenzione. Ma lui le aveva dato considerazione, comprensione e affetto, anche in quella tenera età.
Le aveva mostrato la scuola, l’aveva aiutata a trovare la sua classe, l’aveva riaccompagnata a casa tutti i giorni. Infine crebbero abbastanza per uscire insieme e con le mani sudate e il cuore impazzito, Nate aveva finalmente trovato il coraggio di chiederle di andare al cinema.
Da quel momento, erano diventati inseparabili. Lui non riusciva ad immaginare di stare con qualcun’altra, ed Annie proclamava la stessa cosa.
Nate si sporse in avanti e si attirò al petto la sua piccola fidanzata, stringendola senza pietà. Annie ridacchiò ancora, la sua protesta attutita contro il petto di lui.
"Cosa?" chiese Nate, spingendosi indietro.
"Ho detto che mi stai stritolando." rise lei, con gli occhi che brillavano.
Nate le sorrise e le baciò lievemente la fronte. "Perché sei qui?" mormorò, seguendo con gli occhi i lineamenti delicati del viso di lei. Sapeva che lei avrebbe dovuto passare quel sabato con i suoi genitori.
"Volevo vederti." gli disse, facendo scivolare le mani sotto il dietro della sua maglietta e accarezzando i muscoli della sua schiena. Alto più di un metro e ottanta, la superava di quasi trenta centimetri, così che lei fu costretta ad indietreggiare e ad alzare la testa per poterlo guardare in faccia.
"Ti sei liberata dei tuoi genitori solo per venire a vedermi?" le chiese Nate, sollevando un sopracciglio.
"Non esattamente. Loro sono qui."
"Per fare cosa? Comprare esche?"
Annie fece una risata. "Per parlare con tuo padre."
Nate aggrotto le sopracciglia. Era strano che gli O'Donnell fossero lì per parlare con suo padre. Non era che fossero amici …
Annie sospirò. "Nate, smettila di fare quell’espressione."
"Cosa c’è che non va?" chiese lui, con lo stomaco che cominciava a stringersi. Nate odiava sentirsi in quel modo.
Annie si strinse nelle spalle. "Nulla che io sappia. Papà mi ha solo detto che aveva bisogno di parlare di qualcosa con tuo padre. Non so di cosa." Annie non sembrava preoccupata.
Ma Nate lo era. Il padre di Annie era un avvocato, ma per quanto Nate sapeva, suo padre non si era mai servito di lui. Stava accadendo qualcosa di strano e lui non era sicuro che gli sarebbe piaciuto.
"Allora, vuoi venire?"
Nate guardò il viso di Annie, che stava aspettando, e si rese conto di aver sognato ad occhi aperti sulla sua domanda. "Scusa, cosa hai detto?"
L’espressione di Annie divenne corrucciata e tolse la mano dalla maglietta di lui. "Dove sei stato di recente, Nathan?"
Oh, Oh. L’aveva chiamato Nathan. E non era mai un buon segno. "Cosa vuoi dire?" chiese, facendo finta di niente.
"Sei in questo stato fin da quando ho cominciato la scuola." gli spiegò, sfuggendo al suo abbraccio.
Nate sospirò e si infilò le mani in tasca. "Cioè?"
"Evasivo."
Lui abbozzò una risata. "Non sono evasivo, non ho solo sentito la tua domanda, ecco tutto."
"Okay, allora, diciamo inquieto. Non hai ascoltato la mia domanda perché eri preoccupato." Lei chinò la testa da un lato, sfidandola a dissentire.
Nate lo sapeva bene. Annie era fortissima nelle discussioni e lui non l’avrebbe mai spuntata. Inoltre, lei aveva ragione. Era preoccupato. Preoccupato dalle visioni del bimbo annegato e da ricordi che lui non riusciva ad afferrare.
"Mi dispiace." le dichiarò. "Hai ragione. Ero assorto in altri pensieri."
Annie aggrottò le sopracciglia alla sua conferma. Poi un’ondata di compassione la percorse e lei fece un passo in avanti per stringerlo tra le braccia. Accarezzandogli la nuca, appoggiò la guancia alla spalla di lui, passandogli le dita tra i capelli folti e scuri.
"Lo so che odi restare qui." gli disse dolcemente all’orecchio. "Lo so che vorresti venire a scuola con me. E so che un giorno lo farai. Stare qui ad aiutare tuo padre è una cosa momentanea."
Nate si raddrizzò, con un’espressione accigliata sui suoi bei lineamenti. "Spero che tu abbia ragione." le disse. "Tu non sai quanto spero che tu abbia ragione." Lei non aveva indovinato esattamente l’origine della sua distrazione, ma c’era andata abbastanza vicina.
Annie gli diede un bacio veloce, solo un assaggio di quello che sarebbe venuto dopo. "Allora, verrai?"
Nate fece un ampio sorriso. "Okay, verrò."
Lei si illuminò e scoppiò a ridere.
"Dove devo venire?" le chiese, ridendo con lei.
"Chris darà una festa stasera, al suo cottage. Una specie di addio, prima di chiudere la casa per l’inverno."
Chris era un’abitante della pianura, una turista che aveva fatto amicizia con Annie diversi anni prima. Dato che i turisti se ne andavano, non si era mai curato troppo di Chris.
Gli occhi di Annie si abbassarono. "Solo … togliti quella maglietta."
Nate rise e le diede un abbraccio veloce. "Certo che ci verrò … non fosse altro che per aiutarla a chiudere il posto e per sbarazzarmi di un' altra di loro."
Annie strillò e gli diede uno schiaffo sul braccio. "Sei tremendo, Nate.
Lui scrollò le spalle. "Si, lo so."
Alla fine, Annie lasciò Nate ai suoi compiti, così che potesse finire ed arrivare presto alla festa. Nate lavorò velocemente, respingendo le preoccupazioni in fondo alla mente e concentrandosi, invece, sul pensiero di rivedere gli amici. Quando terminò nel magazzino, fece ritorno al negozio, per vedere che il signor O'Donnell stava salutando suo padre. Nate si immobilizzò. Lui aveva lavorato per oltre un’ora e suo padre e il signor O'Donnell avevano avuto bisogno di tutto quel tempo per parlare dei loro affari. Lo stomaco di Nate si strinse ancora una volta e deglutì, vedendo il padre di Annie che lasciava il negozio. Poi si girò per scoprire lo sguardo del padre che lo fissava.
Nella sua mano c’era una busta scura e qualcosa nel suo stomaco diceva a Nate che il suo contenuto lo riguardava. Ma questa volta non era solo mal di stomaco.
La prova era riflessa anche nell’espressione sconfitta, distrutta di suo padre.

Capitolo 2

La cena non era mai stata una faccenda animate nella famiglia Spencer; entrambi, Jonathan e Emma erano persone taciturne ed anche il loro figliolo aveva sempre avuto un comportamento riservato. Ma quella sera in particolare, sembrava che una nuvola nera fosse sospesa sul vecchio tavolo di quercia, costringendo ciascuno di loro al silenzio. L’unico suono nella stanza da pranzo era il rumore delle posate sui piatti.
Con la testa chinata sul suo piatto, Nate guardava i suoi genitori da sotto la sua frangia, cercando qualche indizio nascosto sul fatto che la visita del signor O'Donnell fosse stata accolta di buon grado. Tuttavia, come al solito, il padre era stoicamente chino sul suo piatto, mentre la madre piluccava nel suo, come se non avesse appetito.
Erano più anziani della maggior parte dei genitori degli amici di Nate, ormai avevano passato la cinquantina. Lui non ci aveva mai fatto molto caso, perché la gente aveva bambini ad ogni età, però trovava strano che fosse l’unico e il solo discendente, cosa che non si accordava col fatto che la media americana fosse di 2,5 bambini a famiglia. Di queste cose non si parlava apertamente nella famiglia Spencer, così Nate era giunto alla conclusione che lui era il figlio del miracolo, che loro avevano finalmente avuto dopo anni di tentativi falliti. Gli piaceva quella idea, gli faceva sentire di avere uno scopo nella vita. Dopo tutto, gli Spencer erano brava gente, buoni genitori; era il minimo che potesse fare per loro.
Nate si schiarì la voce e prese una fetta di roastbeef con la punta della forchetta. "Um, ci sarà una festa stasera." annunciò, con la voce che sembrava troppo alta nel silenzio della stanza.
Il volto di Emma si illuminò. "Una festa! Che bello!"
Nate esitò un attimo. Sua madre stava reagendo con esagerazione. Decisamente c’era qualcosa di insolito.
"Si. Chris, un amica di Annie – ti ricordi di lei? – chiude il suo cottage, così …"
Emma dedicò a suo figlio un caldo sorriso. "Nathan, sai che non devi chiedere il nostro permesso per andare ad una festa."
"Lo so." rispose lui, stringendosi nelle spalle. "Volevo solo avvertirvi di dove vado."
Lei sorrise, orgogliosa del suo buon comportamento. "Allora, grazie per esserti preoccupato per noi."
Lui le fece un mezzo sorriso e tornò a tracciare un cerchio con la forchetta. Avrebbe voluto chiedere qualcosa a proposito di quella busta scura, che era misteriosamente scomparsa nelle ultime due ore, ma non sapeva da dove cominciare. Non poteva uscirsene con un "Ehi, papà, cosa c’era in quella busta?" Doveva essere meno esplicito di così.
"Io … sono stato sorpreso di vedere Annie, oggi." cominciò a fare un tentativo, guardando suo padre con la coda dell’occhio. L’uomo esitò per un attimo, ma fu abbastanza per far capire a Nate che si stava addentrando in un territorio pericoloso.
"Allora, perché ti saresti sorpreso?" gli chiese Emma, con un tono eccessivo. "Voi due siete attaccati l'uno all'altra fin dalle scuole elementari."
Nate le indirizzò un sorriso tranquillo. "Questo è vero." concordò. "E' solo che lei e i suoi genitori dovevano andare da qualche parte per il fine settimana. Non riesco ad immaginare cosa ci sia stato di così importante per far cambiare il loro programma." Nate guardò fisso verso la madre mentre parlava.
Emma si schiarì la gola e si pulì la bocca con il tovagliolo. Sembrava nervosa, notò Nate, con lo strano malessere che si riaffacciava nel suo stomaco. Quando lei non rispose, si girò verso suo padre per avere una spiegazione.
Jonathan inghiottì il suo boccone e si appoggiò alla spalliera della sedia. "Niente di cui tu debba preoccuparti, figliolo."
Nate sollevò un sopracciglio. Allora c'era qualcosa. "Va tutto bene? E' qualcosa che riguarda il negozio?"
Suo padre scosse la testa. "Niente di cui preoccuparsi." ripeté. "Va tutto bene."
"E' una questione di denaro? Perché se fosse così ci sono i miei risparmi …"
"Ho detto che non c'è nulla di cui tu ti debba interessare." disse Jonathan duramente, senza alzare il tono di voce e Nate affondò nella sedia, lo sguardo rivolto in basso.
Dall'altro lato della tavola, Nate sentì sua madre sospirare stancamente. Entrambi sapevano come era fatto suo padre; era un uomo gentile, ma all'occasione poteva diventare caparbio ed ostinato. Se lui diceva che l'argomento era chiuso, allora era chiuso. Ma questo non cambiava il fatto che Nate ancora non aveva scoperto niente del contenuto della busta o del perché suo padre era stato così colpito nel riceverla.
"Posso essere scusato?" mormorò.
"Oh, tesoro, hai appena toccato la tua cena." lo pregò Emma.
"Non ho molto appetito." Non era una bugia. Nate si sentiva come se dovesse vomitare.
"Va bene, allora."
Lui si alzò dalla tavola lentamente, dando uno sguardo di scusa al padre, poi si ritirò nella mansarda della piccola abitazione. Tempo prima, gli Spencer avevano trasformato la mansarda in una camera per Nate. Larga, con i soffitti pendenti e le finestre ad abbaino, era la stanza dei sogni di ogni bambino. Aveva subito diverse metamorfosi, prima con Burt ed Ernie che adornavano le pareti, poi i campioni di vari sport, fino a qualche ragazza della pubblicità Budweiser ed ora era diventata la stanza di un adulto. Nate sbuffò con ironia mentre si lasciava cadere sulla sopracoperta imbottita – aveva una stanza da adulto, ma si sentiva obbligato a chiedere il permesso per alzarsi da tavola. Aveva bisogno di scappare da lì. Aveva bisogno di scappare, perché lì non c’era nessuna strada che lui avrebbe potuto intraprendere.
Esausto, si posò l’avambraccio sugli occhi e cercò di calmare il suo stomaco in subbuglio. Stava per accadere qualcosa di brutto, se lo sentiva. Naturalmente, non sapeva come facesse a saperlo, ma ciò nonostante lo sapeva. Cosa c’era in quella busta? Per la prima volta in vita sua, sentì il bisogno di spiare i suoi genitori, di cercare tra le loro cose quando fossero usciti da casa, per trovare quella busta che lo aveva colpito e vedere cosa ci fosse dentro. Perché tutti e due si comportavano in un modo così strano? Cosa poteva esserci di così inquietante da far loro sentire il bisogno di mentirgli? Dopo tutto, prima di allora erano stati una famiglia piuttosto sincera. Perché ora era differente?
La loro riluttanza a parlare di quella faccenda poteva solo confermare la convinzione di Nate che la cosa riguardasse lui.
"Svegliati, dormiglione."
Nate aprì gli occhi, senza nemmeno rendersi conto di essersi addormentato. Annie era a cavalcioni su di lui, con un sorriso perfido sulla faccia.
"Ho fatto tutta la strada fino a qui." lo schernì. "Ho bussato alla tua porta, sono salita sul tuo letto e mi sono seduta su di te, senza nemmeno svegliarti."
Lui sorrise con un angolo della bocca.
"Avrei potuto …" Gli occhi verdi di Annie seguirono la sua mano mentre scendeva sul petto di lui, attraversava il suo addome e gli afferrava fermamente i genitali. " … violentarti."
Nate lasciò andare un gemito e le afferrò il polso. "Non cominciare." la rimproverò dolcemente. "Sai che mia madre e mio padre sono di sotto."
Lei annuì, limitandosi a rinforzare la sua presa. "Si. Lo so. Frustrante, non è vero?"
In un lampo, Nate si rovesciò così che lei fu immobilizzata sotto di lui, lasciando andare un gridolino di sorpresa. "Ora non è più così divertente, vero?" la prese in giro lui. "E per tutti i fastidi che mi hai dato, lo sai cosa avrai, signorina?"
Lei spalancò gli occhi "Cosa?"
Lui si strinse nelle spalle. "Solletico fino a morire."
"Cosa? Nate, no!"
Ma era troppo tardi. Cominciò a farle il solletico sulle costole, fino a che lei rise e gridò senza più controllo, sotto di lui. Nate rise con lei, contento di avere un po' di sollievo dopo la tensione di quella giornata. Finalmente si fermò e restò sopra di lei, mentre Annie cercava di recuperare il respiro.
"Sei perfido." lo rimproverò.
Lui annuì, spostandole una ciocca di capelli dal viso. "Sposami." le disse, con gli occhi increspati dal sorriso. "Porta i miei bambini."
Il sorriso di Annie eguagliò il suo, mentre gli agitava la mano sotto il naso, mostrandogli l'anello che le aveva dato solo un mese prima. "Ti ho già risposto che voglio."
Lui alzò un sopracciglio. "Non hai cambiato idea?"
"Non ancora. Ma lo farò se non mi liberi subito, così da poter andare a quella festa."
Sulla strada verso il cottage di Chris, Nate sedette silenzioso dietro il volante del suo malmesso e arrugginito furgoncino, con Annie seduta al suo fianco. Mentre respirava, sentiva il dolce odore del profumo di lei, l'odore pulito dei suoi capelli. per un momento, richiamò il ricordo a cui non era mai sfuggito – la notte in cui avevano fatto l'amore per la prima volta.
Era successo quasi tre anni prima, quando Nate ed Annie avevano solo quindici anni. Entrambi sapevano di essere troppo giovani, ma niente era loro sembrato più giusto in quel momento, che appartenere l'uno all'altra. Prima avevano fatto diversi tentativi, spogliandosi completamente, prima di decidere che non era ancora il momento giusto. Ma quella notte, sotto un cielo pieno di stelle, su una coperta, dopo i fuochi d'artificio del 4 luglio, tutto era sembrato giusto.
La cosa che Nate non poteva più dimenticare, era il modo in cui lei lo aveva guardato, così vulnerabile e così forte nello stesso tempo. Era stato in quel momento che Nate aveva compreso quanta fiducia riponevano uno nell'altra, una quantità che non avrebbero mai più condiviso con nessuno. Insomma, Nate avrebbe affidato la sua vita ad Annie, e presumeva che la cosa fosse reciproca.
"A cosa stai pensando?" gli chiese Annie, stringendosi a lui.
Lui le fece il mezzo sorriso che gli era caratteristico. "A quando ho fatto l'amore con te per la prima volta."
Un leggero rossore le colorì le guance, ma forte abbastanza perché Nate riuscisse a vederlo alla luce del cruscotto. "La prima volta? E cosa mi dici di tutte le volte dopo quella?"
Lui le circondò le spalle con il braccio e le baciò la tempia. "Mi sono piaciute anche le altre, certo, ma quella è stata speciale. Lo sarà sempre."
C'era una piccola folla di gente al cottage di Chris, troppa gente per un posto così piccolo. Come risultato, ospiti mezzo ubriachi si erano rovesciati fuori dalla casetta, alcuni dei quali si stringevano insieme per difendersi dal freddo dell'aria autunnale. Nate fermò il furgoncino, poi tirò fuori Annie. Tenendosi per mano, cercarono di entrare, ma non prima che Eddie, l'ubriaco fidanzato di Chris, inciampasse su di loro.
"Gente!" sbraitò e urtò barcollando Nate, versando birra su una gamba dei suoi pantaloni.
Nate lo spinse via con una leggera irritazione.
"Prenditi un infuso, ragazzo." gridò Eddie. "Il barilotto è dietro la casa!" Detto ciò, barcollò via per abbordare qualcun altro.
Nate si strofinò la gamba, con una espressione di evidente disgusto.
"Tutto bene?" chiese Annie.
Lui annuì, poi bofonchiò "Maledetto Eddie."
Lei sbuffò, poi lo prese per la mano e lo condusse nel cottage.
Non era stata una bella giornata, senza dubbio; l'unica cosa buona la presenza di Annie, che era stata inaspettata e piacevole. Ma c'erano state misteriose visite di avvocati, scure buste riservate, ricordi sfuggenti e bambini affogati con cui trattare. Così, completamente fuori dal suo carattere, Nate decise di bere qualcosa per conto suo e si gettò avventatamente su un tino di vino fatto in casa. Poche ore più tardi, aveva dimenticato completamente il 'maledetto Eddie' ed accoglieva a sua volta i nuovi ospiti.
"Provate il vino." gridò dietro ad una coppia di ragazze ridacchianti, mentre agitava il suo bicchiere di plastica in aria.
Annie rise ed allungò una mano per fermarlo. Lo aveva già visto bere prima di allora, ma solo una volta. Era stata una eccezione e non era stato divertente. "Sei ubriaco." osservò.
Lui si fermò, si strinse nelle spalle e scoppiò a ridere. "Lo sono!"
"Perché non ci mettiamo a sedere?" suggerì lei, prendendolo per un braccio e conducendolo verso il lago.
Sulla riva, Annie individuò una roccia, dove lei e Chris erano solite prendere il sole, e trascinò giù Nate, accanto a lei. La testa gli ronzava e per un momento si lasciò affascinare dal rumore delle onde che lambivano la sponda.
"Quanto hai bevuto?"
Nate girò il viso verso la sua ragazza, col mondo che gli girava lentamente intorno … non che la sensazione fosse del tutto sgradevole. "Non lo so. Ma questa schifezza è buona, Annie cara, Buona."
Lei ridacchiò, poi lo prese tra le braccia. "Lo sai che ti amo, vero?"
Lui annuì, con la testa appoggiata contro quella di lei. "E io amo te."
"Più della mia stessa vita." lei gli fece un largo sorriso.
Il sorriso di Nate svanì, mentre le difficoltà di quella giornata minacciavano di ridimensionare il suo umore. "Più della mia stessa vita." ripeté solennemente.
Annie gli prese il viso tra le mani. "Perché sei così triste?" gli chiese, studiando il suo sguardo.
Lui socchiuse lentamente gli occhi. "Perché ho lasciato affogare un bambino."
Lei si tirò leggermente indietro. "Questo non è vero, Nate. E' stato un incidente."
"Avrei dovuto impedire che accadesse." le confessò, con la fronte ancora appoggiata alla sua.
"Ma ti senti?" gli chiese dolcemente. "Tu non sei Dio, Nate. Tu hai salvato altri tre bambini. Hai fatto quello che hai potuto."
"Avrei dovuto fare di più." Spingendosi indietro, le prese il viso tra le mani e la baciò teneramente. "Era una mia responsabilità." sussurrò.
Annie si accigliò confusa, ma subito dopo fu seppellita dal suo successivo bacio, mentre Nate la spingeva contro la roccia.
Nate si lasciò andare alla sensazione di essere con lei, di assaporarla, di toccarla. Annie aveva sempre risanato tutte le sue ferite. Aveva quasi dimenticato dove fosse, quando qualcosa urlò nel suo cervello, una serie di immagini così acute che lui restò senza respiro per la sorpresa, spostando Annie da un lato. Sentì grida di dolore, vide schizzi di sangue, sentì la sensazione di un veloce movimento, poi finì tutto.
"Mio Dio!" Annie respirò con difficoltà, afferrando stretto il braccio di Nate. "Cosa ti è successo?"
Scosso dall'esperienza, e senza avere in realtà compreso di cosa si trattasse, Nate voltò lo sguardo al cielo. Verso la formazione di stelle che aveva all'improvviso attratto la sua attenzione.
Lo stesso grappolo di stelle che lo attraeva da quando lui fosse in grado di ricordare.

Capitolo 3

Sto per sentirmi male … no, sto bene … no, sto per sentirmi male …
Nate giaceva a pancia sotto sul suo letto, le mani chiuse a pugno sulle lenzuola aggrovigliate. Di quando in quando la stanza si inclinava e lui temeva di cadere dal letto e finire sul pavimento. Per quello che ne sapeva, il pavimento si era trasformato in un inferno che stava per inghiottirlo. Il cuore batteva impazzito nel suo torace, le sue tempie pulsavano sull'onda di ogni battito. Aveva la bocca secca, come se fosse piena di ovatta.
Sto per sentirmi male …
"Nate? Tesoro?"
Aprì un occhio quanto bastava per vedere sua madre, chinata all'altezza della vita, che fissava la sua faccia, poi lo chiuse di nuovo per impedire che la luce gli trapanasse il cervello.
"Ti senti bene?" chiese Emma.
Lui scosse impercettibilmente la testa.
"Stai male?"
Lui annuì, sperando che se ne andasse.
"Hai bevuto troppo?"
Lui annuì ancora. Si, non era abbastanza grande. Si, l'avevano messo in guardia dagli effetti dell'abuso di alcol. Ma Emma Spencer non era stupida, riconosceva i postumi di una sbornia quando li vedeva.
"Devi bere molta acqua." gli ricordò, col un tono di rimprovero. "Dormici sopra. Quando ti sentirai meglio vieni giù. Tuo padre e io vogliamo parlarti."
Nate non la sentì uscire – il suo corpo stava già cercando di riaddormentarsi. La sua mente, invece, era di un altro parere. C'era stati tanti fantasmi di recente, tante cose che lo tormentavano. Primo fra tutti quel ricordo che non riusciva ad afferrare, poi il pensiero del bambino caduto nel ghiaccio, e per ultimo quel piccolo incidente che lui non sapeva spiegarsi né descrivere.
Quello che lo spaventava di più, ora che stava recuperando la sobrietà, era che non era più sicuro che fosse realmente successo. La cosa che lo aveva più colpito, era stata l'espressione sul viso di Annie – sembrava terrorizzata da lui o da qualsiasi cosa fosse accaduta. Nate aveva bisogno di una spiegazione per quello, ma il ricordo di quell'evento stava scomparendo velocemente. Forse era stata solamente un'allucinazione …
L'alto tasso alcolico nel suo sangue alla fine ebbe la meglio e lui piombò in un sopore inebriato. Durante il suo stato catatonico, vide un'immagine muoversi nel suo subconscio. Era il viso di un ragazzo con lo sguardo preoccupato, ma con un sorriso dolce, un viso strano ma familiare allo stesso tempo. L'immagine non durò a lungo e non fu accompagnata da nessuna sensazione di dolore o di pericolo; si limitò a farsi strada nelle mente di Nate e lentamente a scomparire di nuovo.
Quando si svegliò la pesantezza era scomparsa dalla sua testa e il suo stomaco si era calmato in modo significante. Comunque, il suo corpo risentiva dell'abuso e, quando si mise a sedere, il mondo cominciò a girargli lentamente intorno. Chiudendo gli occhi, riguadagnò il suo equilibrio e cercò di alzarsi in piedi.
Non lo farò mai più, disse a se stesso mentre scendeva gli scalini verso il piano terra della casa. Annie sarà così in collera con me …
Non si ricordava di aver accompagnato Annie a casa, né si ricordava come lui fosse tornato a casa, per la cronaca. Mentre passava davanti alla finestra del corridoio, lanciò un'occhiata in strada e vide che il suo furgoncino non c'era, mettendo facilmente insieme i pezzi del rompicapo – la sua fedele fidanzata aveva riportato il suo sedere ubriaco a casa, poi era tornata a casa sua col furgoncino. Nate sospirò – mettendo in conto le sue scuse e, forse, anche dei fiori.
Arrivato in bagno, Nate si lavò i denti, cercando di asportare la pellicola di vino che gli era rimasta in bocca. Poi la risciacquò ripetutamente col colluttorio, ma il persistente sapore si alcol era ancora lì. Fece una smorfia e si asciugò la bocca con una salvietta, poi bevve diversi bicchieri di acqua. Quando fu arrivato circa a quattro, si rese conto che il suo stomaco stava cominciando a ribellarsi e che forse era il caso di smettere.
La casa era insolitamente silenziosa. Era un pomeriggio piovoso e qualcuno aveva acceso il fuoco nel camino del soggiorno; c'era così tanto silenzio che Nate, dal corridoio, riusciva a sentire il crepitare della legna. Mentre girava cautamente l'angolo, vide che entrambi i genitori erano seduti sul divano e che guardavano verso di lui. Sua madre sembrava agitata, suo padre turbato.
Sul tavolino c'era la busta scura.
Gli occhi di Nate la scorsero immediatamente e lui tornò svelto a guardare i suoi genitori. Dentro il suo corpo dolorante, il cuore cominciò ad aumentare i battiti, facendolo sentire stordito e confuso.
"Vieni qui, Nate" gli ordinò suo padre voce monotona.
Respingendo la sua apprensione, Nate entrò nel soggiorno e si infilò mani nelle tasche anteriori dei pantaloni, sollevando leggermente le spalle; quel gesto lo faceva apparire più sottomesso di quanto fosse in realtà.
"Siediti, caro." disse Emma, con un tono di voce troppo stridulo, sorridendogli ansiosamente.
Nate girò la spalliera di una sedia e si sedette, a disagio. Era troppo tardi per ritornarsene di sopra e infilarsi a letto? Per un'azione riflessa, i suoi occhi guardarono l'orologio sulla mensola del camino – erano le tre del pomeriggio.
"Cosa c'è che non va?" chiese con voce rotta. Si schiarì la gola e provò ancora. "Cosa c'è che non va?"
Emma cercò ancora di sorridere, ma fu un tentativo debole e vano. "Nate, tu lo sai che noi ti vogliamo molto bene."
Lui batté gli occhi un paio di volte, poi si rese conto che la domanda non era retorica ed annuì.
"Tu sei sempre stato speciale per noi." continuò sua madre. "Sei un bravo ragazzo, sempre educato e rispettoso."
Quelle parole non facevano che aumentare la paura nel suo stomaco. Improvvisamente desiderò di no aver bevuto tutta quell'acque.
"Um, grazie." replicò in modo poco convincente.
Jonathan cambiò posizione e Nate notò che stava guardando la busta sul tavolo. Cosa c'era in quella busta per causare un tale dolore a suo padre? Anche Emma aveva notato il movimento, e si sporse per appoggiare una mano sul braccio del marito.
"Noi abbiamo qualcosa da dirti." cominciò, poi attese un cenno di approvazione da parte di Jonathan. Lui annuì e Nate credette di vedere tutta la speranza abbandonare il suo corpo.
"Cosa c'è?" chiese, ancora più preoccupato di quando, ieri, era arrivata la busta. "Qualcuno sta male?"
un altro sorriso nervoso. "No, tesoro, niente di simile." Emma si schiarì di nuovo la voce e si sistemò il giacchetto. "Tanto tempo fa, noi accettammo che quando avresti compiuto diciotto anni, ti avremmo detto la verità."
"La verità?" Nate aveva alzato talmente a sua guardia, che le parole gli arrivarono con un tono stridulo. "E, per inciso, io ho compiuto diciotto anni tre mesi fa." Perché avevano aspettato così a lungo per dirgli 'la verità'?
Emma si agitò sulla sedia. "Lo so, caro, ma noi volevamo essere sicuri di fare la cosa giusta." Jonathan mise la mano sopra quella di lei e la strinse in un gesto di rassicurazione. "E noi crediamo di fare … la cosa giusta."
Incapace di sopportare l'incertezza, Nate cominciò a muoversi irrequieto, mordicchiandosi l'unghia del pollice e facendo ballare un ginocchio. "Per favore, mamma, dimmi tutto."
Gli Spencer si scambiarono un'occhiata, poi Emma fece un profondo respiro. "Tu sei venuto qui quando avevi otto mesi." annunciò.
Nate fermò il movimento della gamba e la sua mano gli ricadde in grembo. nella stanza c'era silenzio, fatta eccezione per il ticchettio dell'orologio sulla mensola e per il crepitare dei ceppi nel camino. Lui si accigliò, confuso.
"Vuoi dire che sono nato di otto mesi?" chiese, sforzandosi di capire perché quella notizia dovesse essere tenuta così segreta.
Emma si lasciò andare a una risata sorpresa e nervosa. "No, tesoro. Per quello che ne sappiamo, tu sei nato a termine. Avevi otto mesi, quando sei venuto a vivere con noi."
Tutto questo non aveva senso. Come facevano a non sapere se lui era nato prematuro? E perché non avevano potuto portarlo a casa per otto mesi? Appena nato era stato male? Nella mente sovraccarica di Nate, niente di tutto questo aveva senso.
Emma e Jonathan si scambiarono uno sguardo preoccupato: era evidente che nessuno dei due voleva pronunciare quella parola ad alta voce. Fu Jonathan a farlo.
"Il nonno di Annie si occupò della parte legale e, prima di morire, affidò tutto in consegna al padre di Annie.
"La parte legale di cosa?" chiese Nate, scuotendo la testa. Poi in un improvviso lampo di comprensione, la verità si fece strada dentro di lui. L'aria abbandonò i suoi polmoni, come se qualcuno gli avesse dato un pugno nella pancia. Afferrò i braccioli della sedia, per sostenersi. In meno di tre minuti, tutto il suo mondo si era capovolto. "Oh, Dio …"
Emma fece per alzarsi, ma Jonathan le fece cenno di tornare a sedersi.
Nate si coprì la bocca, il sapore del collutorio e del dentifricio che minacciavano di soffocarlo. "Oh, mio Dio …"
"Tesoro." lo supplicò Emma. "Noi ti abbiamo sempre voluto bene come se fossi nostro. Di sicuro lo saprai questo."
Nate incontrò il suo sguardo e si rese conto di quanto fosse disperata, di quanto avesse timore che lui fosse arrabbiato con lei. La verità era che le sue emozioni erano così confuse, che lui non sapeva più cosa provava. "Voi mi avete adottato." disse chiaro e tondo.
Jonathan fissò il pavimento, come se si stesse vergognando, mentre Emma annuiva e le lacrime cominciavano a scendere dai suoi occhi azzurri.
"Voi non siete i miei genitori." disse Nate distrutto.
"Lo siamo." lo rassicurò Emma. "In tutti i modi, ma non biologicamente."
Nate si coprì gli occhi. "Oh, dio …"
Nella stanza cadde ancora una volta il silenzio, mentre lui cercò di tenere sotto controllo il dolore nel suo corpo, la sofferenza nel suo cuore.
"Figliolo." disse Jonathan.
Nate alzò la testa. Figliolo? Quella parola ora aveva un significato nuovo per lui. Gli sembrava di guardare un estraneo.
Jonathan prese la busta. "C'è stato un accordo tra noi e le persone che di hanno dato in adozione. Abbiamo accettato che, una volta che avessi compiuto i diciotto anni, se tu avessi voluto conoscere i dettagli, avresti potuto farlo." Appoggiò la busta sul tavolo. "Questa è tua. Se la vuoi."
Lo sguardo di Nate si posò sulla busta, ma la sua mente non ne afferrò l'importanza. Si doveva ancora riprendere dalla sorpresa di aver scoperto chi non era, per preoccuparsi di sapere chi era. Aprire quella busta, sarebbe stato come scoperchiare il vaso di Pandora? C'erano cose, lì dentro, che avrebbe fatto meglio a lasciar perdere?
Non era in grado di pensarci. Non oggi. Non mentre era tormentato da bambini morti, bagni di sangue e ricordi che non volevano fissarsi. Non mentre il suo corpo stava combattendo il trattamento che gli aveva inflitto la notte scorsa.
Cercando di riprendere la maggiore padronanza possibile, Nate si raddrizzò sulla sedia e guardò la sua famiglia adottiva con quanta più neutralità gli fosse possibile.
"Mi dispiace." cominciò a dire. "Non mi sento bene e non voglio che pensiate che ho preso con leggerezza quello che mi avete detto. Non sono arrabbiato con voi, ma ora devo tornare a letto."
Detto questo, si alzò, si scusò dalla persona bene educata che era e ritornò nella sua stanza. Cadde in avanti sul letto, sentendosi incredibilmente stanco.
Bugie. La sua intera vita non era stata altro che una grossa bugia. Cosa c'era in quella busta – altre bugie? All'improvviso, Nate non fu più sicuro di niente – di chi fosse, di chi fossero i suoi genitori, di perché fosse lì.
Incapace di sfuggire ai dubbi e alla paura, Nate ripiegò nel pensiero dell'unica cosa certa che gli fosse rimasta.
Annie.

Capitolo 4

Il sole del primo mattino danzava sull'erba ricoperta di rugiada sotto al posto in cui Nate era seduto, trasformando il paesaggio in una meraviglia scintillante. L'aria d'autunno era pungente e lui fu costretto a ritirare le mani nelle maniche del giaccone per riscaldarle. Quando era bambino, si era rifugiato spesso lì, nella casa sull'albero che Jonathan aveva costruito per lui con delle assi di legno. Era il suo nascondiglio 'segreto', sebbene i suoi genitori sapessero benissimo che era lì che andava quando era arrabbiato col mondo, o turbato per essere stato rimproverato, o a consumarsi di desiderio per l'amata Annie. Non era certo un segreto.
Ma gli Spencer non gli avevano mai detto nulla di questo, lasciandogli credere che lui potesse fuggire via. Contrariato, si rese conto che quella domenica mattina avrebbero immaginato facilmente dove potesse essere, soprattutto per il fatto che Annie ancora non gli aveva riportato il suo furgoncino. Ma loro volevano lasciargli spazio, dargli il tempo per riflettere. E lui li rispettava per questo. L'unico contatto che aveva avuto con uno di loro da quando si era segregato nella sua stanza, era avvenuto la scorsa notte, tardi, quando Emma gli aveva portato una tazza di brodo di pollo per il suo stomaco dolorante, con gli occhi che gli chiedevano scusa.
Nate aveva accettato il brodo e si era anche sforzato di farle un sorriso, prima che si voltasse per lasciare la stanza; come al solito il pensiero di Nate non era mai concentrato solo su se stesso.
Guardando il sole che sorgeva, pensò a quanto dovessero essere stati difficili gli ultimi diciassette anni per i suoi genitori adottivi. Sapevano che questo giorno sarebbe arrivato. Lo avevano temuto ogni santo giorno? O avevano preferito evitare di pensarci, fino a quando non avevano potuto più nascondersi il fatto che il loro figliolo stava avvicinandosi a quella magica età? Qualunque fosse stata la risposta, non doveva essere stato facile per loro vivere con quella consapevolezza.
Come stava facendo da quando aveva saputo la verità, Nate si interrogava in continuazione. Che significato aveva tutto questo? Come poteva cambiare i suoi rapporti con Jonathan e Emma?
Fino ad allora, non aveva mai considerato la possibilità di essere stato adottato – dopo tutto aveva gli occhi azzurri di sua madre … o almeno così aveva sempre pensato. Il fatto che fosse stato adottato, cambiava forse il fatto che gli Spencer fossero brave persone e che lo avevano cresciuto a sua volta come una brava persona? E, in fin dei conti, che importanza aveva il resto?
Ne aveva. Poteva non influire sul fatto che fossero gente meravigliosa, ma influiva su chi Nate fosse veramente. La parte peggiore – lui non sapeva più chi fosse. Cose che lui aveva date per scontate, non lo erano più. Niente era più quello che sembrava.
"Hey, maledetto alcolizzato, cosa fai lì sopra?"
Nate non riuscì a fermare il sorriso che si dipinse sulla sua faccia, quando si sporse e guardò in basso, dove Annie si stava coprendo gli occhi dal riflesso del sole. Indossava la felpa della sua scuola, la Clarion University, e sembrava ancora di più lo studente universitario che Nate non era. "Perché non vieni su e lo scopri da sola?"
Ricambiando il suo sorriso, lei cominciò a salire la scaletta che portava alla casa sull'albero. Quando fu quasi in cima, Nate afferrò il suo braccio per aiutarla. Con un tonfo, lei saltò sul pavimento accanto a lui, poi allungò il collo da una parte all'altra per leggere qualcuno dei graffiti che erano stati incisi sulle pareti di legno. Ridendo, le sue dita seguirono il disegno di un cuore, che portava le iniziali NS e AO, che Nate aveva inciso prima che lei gli giurasse amore eterno.
"Questo me lo ricordo." sorrise.
Rise anche Nate. Pure lui si ricordava. Che sgraziato, goffo Poindexter era stato a quattordici anni.
"Allora, dove sei stato ieri?" chiese Annie, abbassando la mano e senza dargli la sensazione di pretendere una spiegazione.
"Non sono stato bene." rispose lui sottovoce.
"Postumi di sbornia, immagino." ridacchiò Annie. "Accidenti, non ti avevo mai visto bere così tanto." I suoi modi si rabbuiarono per un momento. "Forse era questa la ragione."
Nate inclinò la testa. "La ragione per cosa?"
Le sopracciglia di Annie si alzarono leggermente. "Non ricordi di esserti messo a gridare come un maledetto banshee, senza nessuna ragione apparente?"
Nate aveva cercato di prepararsi, ma sapeva che non sarebbe riuscito a non impallidire. Aveva lottato per ricordare il fenomeno strano che gli era accaduto al lago, ma erano ricordi da ubriaco, sfuggenti. "Non esattamente." mormorò.
Annie agitò la mano in aria. "Lasciamo perdere. Passiamo un colpo di spugna sulla tua sbornia. Ho cercato di chiamarti al cellulare, ieri sera."
Non completamente a suo agio, Nate si grattò dietro l'orecchio, un segno che rivelava che stava nascondendo qualcosa.
"Cosa c'è?" si lamentò Annie, riconoscendo il gesto. "E' successo qualcosa? Perché non hai risposto al telefono?"
Facendo un profondo respiro e cercando di rimanere calmo, Nate raccontò lentamente ad Annie il fatto che lui fosse stato adottato. I suoi occhi verde smeraldo si spalancarono, ma sembravano mancare di qualcosa che lui si era aspettato di trovare …
"Così," concluse lui, fissando l'erba sotto di loro. "Mi sono rintanato nella mia stanza per riflettere."
"Wow." disse lei e Nate si rese conto di quello che mancava alla sua reazione – la sorpresa.
La guardò incuriosito, "Tu lo sapevi già, Annie?"
Lei mantenne il contatto col suo sguardo e scosse la testa per negarlo, ma per la prima volta durante la loro relazione, Nate dubitò della sua sincerità.
Ma ora aveva altre cose cui pensare e decise di glissare sul suo comportamento.
"Cosa pensi di fare, ora?" gli chiese Annie, portandosi al petto le ginocchia e cingendole con le braccia.
Lui si strinse nelle spalle. "Non lo so. Tuo padre ha dato al mio una busta contenente delle informazioni." Nate scosse la testa e si strofinò stancamente gli occhi.
"Che genere di informazioni?" chiese Annie.
"Non ne ho idea. Qualcosa che riguarda l'adozione, credo."
"Hai intenzione di aprirla?"
Nate lasciò cadere la mano e alzò un sopracciglio, guardandola. Sembrava piuttosto imperturbata dalla scoperta che il suo fidanzato non era quello che credeva essere. Il suo sorriso era brillante e curioso, incoraggiante. Forse era così – lei cercava di fornirgli un supporto.
"Forse." rispose "Una parte di me ha paura di farlo." Nate fece una risata imbarazzata. A nessun ragazzo piaceva ammettere di avere paura di qualcosa.
Allungandosi, Annie gli passò le braccia intorno alle spalle e lo baciò sulla guancia. "Sono sicura che prenderai la decisione giusta. Nel frattempo, ti ricordi che domani parto per tornare a scuola, vero?"
E cioè? Stava chiudendo alla svelta l'argomento? Nate non riusciva a comprendere come la notizia non l'avesse sconvolta come aveva sconvolto lui. Nate sapeva che, qualche volta, Annie pensava ai suoi programmi senza riguardo a quello che accadeva intorno a lei. Era uno dei suoi piccoli difetti e Nate già da tempo lo aveva accettato per quello che era.
"Lo so." le rispose.
"Così sono stata a casa per tutto il fine settimana e tu ed io non abbiamo avuto modo di fare tu sai cosa nemmeno una volta." lei rise. "Non tornerò a casa che per il Ringraziamento, Nate."
Nate fece una smorfia. Okay, dopotutto tra i suoi 'programmi' c'era qualcosa per lui. "Cosa suggerisci?" le chiese. " Di darci da fare qui, nella casa sull'albero?"
Lei si strinse nelle spalle "E perché no?"
Senza parlare, Nate spalancò gli occhi mentre cominciava a sbottonarle la camicetta. "Guarda che fa freddo stamattina." la mise in guardia, in modo poco convincente.
Dopo essersi sfilata la camicetta, Annie guardò in giù verso il suo seno, con i capezzoli in rilievo sotto al leggero tessuto del reggiseno. "Evidentemente."

***

Quando, un'ora dopo, Nate tornò a casa riflettendo sulla sensazione che gli ronzava dentro, trovò sua madre che stava preparando la cena in cucina. La domenica era una giornata speciale in casa Spencer – non importa quello che succedeva, non importa quanto fossero impegnati, loro tre si riunivano e cenavano insieme. Spesso Emma cominciava a preparare l'arrosto a metà mattinata e lo lasciava cuocere lentamente per tutto il giorno, come stava facendo ora.
Nate si fermò sulla soglia, con le mani infilate in tasca. "Buongiorno, mamma." le disse sottovoce.
Lei si voltò e gli fece un grande sorriso. "Ah, Nathan. Hai fame, tesoro? Non sei venuto a colazione."
"Ero fuori." disse lui.
"Annie è riuscita a trovarti?" chiese Emma, continuando ad affettare le cipolle per l'arrosto.
Si era fatta intrappolare da lui – e anche di più. "Si." le rispose. "Um, mamma?"
Al tono circospetto della sua voce, lei si girò e lo guardò in silenzio, aspettando pazientemente che lui raccogliesse i pensieri.
"Dov'è papà?" chiese Nate.
"A pesca." rispose Emma.
Non era insolito che Jonathan andasse a pesca la domenica mattina. Lui amava il lago, amava sedersi sul molo o prendere la sua barca a remi. Nate lo aveva accompagnato spesso.
"Ho preso una decisione." le disse imbarazzato.
Lei scorse una traccia di apprensione nel suo sguardo. "Va bene, tesoro."
Lui si schiarì la voce, gli occhi che per un attimo non riuscirono a stare fermi. "Voglio aprirla. Voglio aprire la busta."
Emma deglutì, poi fece un cenno di comprensione con la testa, dandogli un permesso che lui non aveva bisogno di chiedere.
"Tu conosci già il suo contenuto?" le chiese, con un filo di tremore nella voce.
"No, Nate. Tocca a te scoprirlo."
Lui annuì, fissando il pavimento, poi si diresse in soggiorno. La busta era ancora sul tavolo dove l'aveva posata Jonathan. Nate si fermò, e restò a guardarla come se potesse pungerlo, se si fosse avvicinato troppo. Voleva veramente aprirla? Voleva veramente sapere?
Se avesse lasciato perdere, la sua vita sarebbe rimasta uguale, no? Lui avrebbe continuato ad essere il figlio naturale di Emma e Jon Spencer. Vero?
Non poteva essere vero. Perché anche se Nate non avesse mai aperto la busta, lui ormai sapeva di non essere il figlio naturale di Emma e Jon Spencer. Non si poteva far tornare indietro il tempo e cancellare quello che gli avevano detto ieri. Se avesse potuto alterare il tempo, Nate sapeva che quel bambino caduto nel ghiaccio che lui non aveva salvato, ora sarebbe stato vivo. No, non si poteva tornare indietro.
Velocemente, come se la busta potesse fuggire via, Nate la prese dal tavolo e si diresse nella sua stanza. Quando fu arrivato, si chiuse lentamente la porta alle spalle e si sedette sul letto.
La busta non era pesante e lui dubitò che contenesse qualcosa di più di qualche foglio di carta. Pieno di paura e di eccitazione, si passò la busta sotto il naso, aspirando, cercando il profumo di qualsiasi cosa potesse dargli una idea della sua provenienza – fumo di sigaro, odore di cibo, qualsiasi cosa. L'unico odore che percepì fu quello della carta.
Chiudendo gli occhi e raccogliendo il coraggio, Nate sollevò la parte anteriore e prese il contenuto della busta. Ne tirò fuori diversi fogli di carta, esaminandoli velocemente con i suoi occhi azzurri, guardando tutto e niente nello stesso tempo. Costringendosi a calmarsi e a rallentare, Nate fece un profondo respiro e prese il primo foglio.
Era un breve documento che assegnava Nate, allora ancora senza nome, alla custodia di Jonathan ed Emma Spencer. In calce c'erano le firme dei suoi genitori, quella di sua madre, chiara e femminile, e quella di suo padre, decisa e a malapena leggibile. Nate prese nota della data, ma non trovò nulla di interessante nel foglio.
Il successivo gruppo di fogli, spillati assieme, era scritto su carta intestata dello studio legale Philip Evans di Roswell, New Mexico. Era una sorta di contratto, legato all'accettazione del bambino nella famiglia Spencer. Nate si sedette e lo lesse attentamente, mentre nel suo stomaco si riaffacciava il dolore. Lesse la clausola che stabiliva che non dovesse sapere della sua adozione fino al raggiungimento della maggiore età. Era una clausola strana da includere in un contratto di adozione e non fece che aumentare la sua inquietudine. Quello che scoprì all'ultima pagina, lo spinse oltre i suoi limiti.
Non c'era il suo certificato di nascita. Nessuna registrazione ospedaliera. Nessuna indicazione di chi fossero i suoi genitori naturali. Si dichiarava semplicemente che era stato abbandonato. Nel suo cuore, Nate sentì un dolore che non avrebbe mai creduto possibile provare.
Non solo non era il figlio di Emma e Jon Spencer – lui era il figlio di nessuno.

Capitolo 5

Ora le cose cominciavano ad avere un senso, come i pezzi di un rompicapo che trovavano il loro posto. Mentre Nate camminava vicino al lago, le mani infilate nelle tasche del giaccone, tornò col pensiero alle cose che gli erano sempre sembrate un po' strane, ma che non avevano mai costituito un vero problema.
Per esempio, come mai non c'erano sue foto da neonato? I genitori di Annie avevano tonnellate di fotografie di lei a solo poche ore dalla nascita, ancora in ospedale, con in testa quella piccola cuffietta rosa. Ma gli Spencer non avevano fotografie di Nate con la cuffietta celeste. Anzi, non avevano nessuna foto fino a che lui non era più grandicello. Fino ad allora, non ci aveva riflettuto molto – per lui la foto di un bambino piccolo, era la foto di un bambino piccolo, indipendentemente dalla grandezza del bambino. Non si era mai accorto che mancasse qualcosa.
C'erano dozzine di altre cose come quella, che ora sembravano penosamente ovvie; ma per una cosa che aveva senso, tante altre non l'avevano.
Perché era stato un avvocato a darlo in adozione?
Perché era stato abbandonato?
Perché qualcuno dal New Mexico lo aveva portato fino a New York per farlo adottare da una famiglia? Non c'erano famiglie del New Mexico che desideravano un bambino? Per quanto Nate ne sapesse, non c'era abbondanza di bambini e quelli che c'erano venivano adottati velocemente. E allora perché tutta quella distanza?
Perché era stata messa quella clausola che non potesse sapere di essere stato adottato fino ai diciotto anni?
Nate prese a calci un sasso e si accigliò. Due giorni prima, lui era solo Nathan Spencer, che desiderava ardentemente andare all' università con la sua fidanzata e lasciarsi il negozio di esche dietro alle spalle. Ora non aveva l'idea di chi fosse e avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare ad occuparsi degli articoli da pesca, invece di occuparsi di quella questione.
Davanti a Nate, Jonathan era seduto su una sdraio alla fine del molo, con la canna da pesca appoggiata sul bracciolo della sedia. Nate si fermò e fece un profondo respiro. Suo padre aveva un aspetto così tranquillo, mentre si crogiolava al sole del pomeriggio domenicale, e lui odiava disturbarlo. Ma doveva fare quello che doveva fare.
Le scarpe di Nate fecero un rumore sordo, mentre camminava lungo il molo di legno, poi si sedette, facendo penzolare le gambe oltre il bordo. Jonathan lo guardò senza parlare.
"Preso niente?" chiese Nate, strizzando gli occhi al riverbero del sole sull'acqua.
"Niente che valesse la pena di essere preso." rispose Jonathan.
Nate annuì e continuò a guardare il lago. Dopo qualche istante, aggiunse "Ho aperto la busta." Aspettò una risposta che non venne. Guardando oltre la sua spalla, vide lo sguardo di suo padre fisso su di lui, con la sua imperscrutabile espressione da poker.
"Lo hai fatto?" chiese l'uomo più anziano.
Nate annuì. "si."
"Cosa hai scoperto?" Jonathan raccolse la sua scatola delle esche e cominciò a giocherellarci nervosamente; era un classico, per lui, cercare di tenere occupate le mani quando si sentiva a disagio.
"Tu non lo sai?" chiese Nate, un po' sorpreso che suo padre adottivo non sapesse tutto quello che c'era da sapere.
Jonathan scosse la testa.
"Oh." Nate batté gli occhi per una paio di volte, poi decise che suo padre non stava fingendo – lui veramente non ne era a conoscenza. "In realtà, non c'era molto."
"No?"
Lui scosse la testa. "No. I documenti dell'adozione – che tu e la mamma avete firmato."
Jonathan fece un cenno di comprensione, mentre le dita cercavano di annodare una lenza.
"E un contratto con qualcuno del New Mexico."
Jonathan gli lanciò un'occhiata furtiva. "Si?"
Nate annuì. "Si. Non molto."
"Huh."
Sedettero in silenzio per un po'. Nate aspettò che suo padre prendesse l'iniziativa, ma Jonathan era un uomo di poche parole.
"Perché il New Mexico, papà?" gli chiese alla fine.
Jonathan posò la scatola delle esche e si appoggiò le mani sulle ginocchia. "Non lo so, veramente."
"E non l' hai trovato strano? Perché non mi hanno trovato una famiglia nel New Mexico?"
Jonathan fece un sospiro e Nate si rese conto che lui non aveva neppure mai pensato alla questione. "Nate, noi eravamo solo felici di averti. " disse rassegnato. "Non ci interessava da dove venivi."
Questo commento fece accendere un segnale d'allarme nella testa di Nate e cominciò a sentire il familiare fastidio allo stomaco. "Oh, Dio. Mi avete avuto tramite qualche mercato nero di bambini?" la sua voce aumentava di tono man mano che pronunciava la domanda.
A questa uscita Jonathan rise di soppiatto. "No, Nate. Non ti abbiamo comprato illegalmente, se è questo che mi stai chiedendo."
Nate lasciò andare un sospiro e si rilassò un po'. "Grazie a Dio."
Seguì un altro silenzio, durante il quale altre domande gli si presentarono alla mente. "Papà?"
"Hmm?"
"Perché hanno voluto tenere il segreto sulla mia adozione fino ai diciotto anni?"
Jonathan si strinse nelle spalle. "Non lo so. A quel tempo non ci facemmo caso. Avremmo accettato qualsiasi condizione pur di averti."
Nate corrugò la fronte. "Ma, voglio dire, in quali problemi legali saresti incorso se non l'avessi fatto? Perché non me lo hai detto appena ho avuto l'età per poterlo capire?"
Jonathan aveva l'aria di essere stato appena schiaffeggiato da suo figlio. "Dubito che sarei finito in prigione se te l'avessi detto, ma non è per questo che non l' ho fatto, Nate. Ho dato la mia parola, ho firmato un documento legale. Se non altro, sii un uomo quando dai la tua parola. Non c'è niente di peggio di un bugiardo."
Nate si fece indietro, vergognandosi di aver fatto quella domanda. Crescendo, la cosa per cui era stato più spesso punito, era per aver detto delle bugie – avrebbe dovuto aspettarsi quella reazione. "Mi spiace, papà." mormorò.
Jonathan gli fece un cenno con la mano e prese la sua canna da pesca. Stettero ancora così per un po', poi l'uomo sospirò e si rivolse a suo figlio.
"So che non è facile per te." cominciò "Tua madre ed io sapevamo che questo momento sarebbe arrivato."
"Io non lo sapevo." gli fece rilevare Nate. "Avreste potuto non dirmi mai la verità."
Jonathan alzò un sopracciglio. "E' questo che avresti voluto? Non avresti mai voluto sapere chi sei?"
Nate stette per parlare, poi si limitò a scuotere la testa. E se avesse scoperto di essere stato adottato solo dopo la morte dei suoi genitori e non avesse più potuto avere risposte? Sarebbe stato molto peggio.
"Inoltre, tu hai il diritto di sapere." continuò Jonathan. "Se non ci fossero stati impedimenti legali, te lo avremmo detto anni fa. Ci sembrava di mentirti non permettendo che tu lo sapessi. Ecco perché ho chiamato il padre di Annie e gli ho chiesto di portare quelle carte. Sapevo che le aveva lui, e io e tua madre abbiamo deciso che era arrivato il momento."
Mosse la canna e scosse la testa. Quel giorno non abboccava niente. "Abbiamo cercato di avere bambini per tanti anni, Nate." disse con tono triste. "Tua madre o perdeva il bambino o non rimaneva neppure incinta. Dopo l'ultimo aborto, il dottore ci disse che dovevamo smettere di provare, che lei avrebbe potuto rimetterci la vita." Jonathan fece un piccolo sorriso. "Non potevo permetterlo. Amavo troppo la mia Emma per perderla."
Nate gli sorrise in risposta. in realtà, la conversazione ad un senso di suo padre, l'aveva affascinato. Nate non lo avrebbe mai creduto capace di mettere insieme tutte quelle parole in una sola volta.
Jonathan piegò la testa da una parte. "Così cominciammo a rivolgerci alle agenzie per l'adozione. le liste di attesa per un bambino erano lunghe, anni di attesa. Noi eravamo avanti con l' età e sapevamo di non poter aspettare quindici anni per avere un bambino – saremmo stati troppo vecchi per prenderci cura di lui!" Il suo sguardo si perse nel vuoto e Nate si accorse che si stava perdendo nei ricordi. "Conoscevo il nonno di Annie perché aveva un cottage vicino al negozio. Lui veniva tutte le estati. Facevamo due chiacchiere, ogni tanto bevevamo insieme una birra o due. Non posso dire che eravamo amici, ma buone conoscenze."
Jonathan prese la sua borraccia e bevve un sorso d'acqua. "Un giorno entrò e disse che aveva un bambino che aveva bisogno di una casa – lui sapeva che volevamo avere un bambino. Ci disse che era un caso speciale, che le persone che davano via il bambino volevano delle garanzie speciali." Lui si strinse nelle spalle. "Così gli chiedemmo i particolari e non ci sembrò ci fosse nulla con cui non potevamo essere d'accordo." Jonathan lanciò un' occhiata al figliolo, che lo ascoltava incantato. "E abbiamo avuto te."
"Li avete incontrati?" chiese ansioso Nate. "Le persone che mi hanno dato in adozione?"
Jonathan scosse la testa. "No. Mai posato lo sguardo su di loro. Il nonno di Annie ti ha portato da noi e ci ha fatto firmare i documenti. Fine della storia."
Per qualche ragione, Nate non si sentì completamente deluso. Era vero che non aveva avuto risposte concrete alle domande che si era posto venendo al molo, ma almeno aveva saputo qualcosa sul come era finito dagli Spencer.
"Nate?"
Lui alzò la testa per incontrare lo sguardo di Jonathan.
"Non ripetere quello che ti ho detto dei bambini a tua madre. E' una cosa che la fa rattristare."
Nate fece cenno di aver compreso.
Suo padre guardò in lontananza per un momento, poi gli rivolse uno sguardo stanco. "So che hai delle domande. Capisco la tua curiosità."
Nate indietreggiò un po'. "Papà, non è che io non sia grato di quello che avete fatto tu e la mamma …"
Jonathan alzò una mano. "Ti credo, figliolo. Ma posso immaginare cosa si prova ad essere nelle tue scarpe, in questo momento. Io avrei voluto sapere tutto. Sfortunatamente, non ho risposte da darti."
Nate era contrariato.
"Qualche volta, Nate, un uomo deve fare quello che deve fare."
Nate aggottò le sopracciglia e spalancò gli occhi. "Cosa mi stai dicendo?"
Suo padre gli fece un mezzo, incomprensibile sorriso. "Che tu devi avere le risposte di cui hai bisogno. Non lasciare che questa ferita si infetti, Nate. Non fermarti sui forse e sui se avessi. Non lasciare che questa faccenda ti distrugga." Alzò un sopracciglio. "Non pensi che mi sia accorto dell'ulcera che stai cercando di nascondere?"
Nate scoppiò a ridere, con le orecchie che gli erano diventate rosse, alla scoperta che il padre lo conoscesse così bene.
Jonathan gli fece un cenno con la mano. "Va. Prendi la tua strada. Trova ciò che hai bisogno di sapere."
Nate sentì all'improvviso l'eccitazione scorrergli nelle vene, prendendo il posto dell'ansia che era stata lì negli ultimi due giorni. Aveva davanti un'avventura che lo avrebbe portato lontano da casa come non era mai stato.
Nate stava per partire per il New Mexico.

Capitolo 6

"Stai andando dove?"
"A Roswell." disse Nate, con gli occhi fissi ad una macchia sulla parete senza veramente vederla. Aveva il cellulare poggiato tra l'orecchio e la spalla mentre ascoltava la reazione scioccata di Annie.
"Quello nel New Mexico?"
"Si." rispose lui.
Ci fu una breve pausa, poi arrivò la domanda scettica di Annie. "Hai una idea di quanto lontano sia?"
"Duemilaseicentosettanta chilometri." sospirò lui. "Devo andare, Annie. Ho bisogno di sapere da dove vengo."
"E come pensi di arrivarci?"
"Col furgoncino." Nate si grattò la testa, chiedendosi perché fosse così contraria all'idea che lui andasse a Roswell.
"Col tuo furgone?! Nate, io non mi fiderei di quella cosa per arrivare al Dairy Queen dietro l'angolo, e tu vorresti andarci fino in New Mexico?"
"Non ho altra scelta, Annie. Mio padre ha bisogno del van per il negozio e io non posso affrontare la spesa dell'aereo."
"Ma potrai affrontare le enormi spese si carro attrezzi che avrai quando ti si fermerà, appena arrivato nel fottuto Iowa?"
Nate si sentì umiliato. Odiava il fatto che Annie imprecasse. Odiava anche di più il fatto che lei fosse così contraria all'intera faccenda. "Cosa c'è non va?" le chiese sottovoce. Nate era una persona docile e sopportare le piccole esplosioni di Annie, quando si presentavano, non era certo la cosa che preferiva.
"Cosa c'è che non va? Nate, tu mi hai detto che non potevi venire all' università con me perché tuo padre aveva bisogno di aiuto al negozio." Il suo tono era gonfio di accusa.
"Ha bisogno del mio aiuto." rispose lui tranquillamente.
"E nonostante questo, puoi andartene in New Mexico all'improvviso? Non puoi venire a scuola, ma puoi prenderti una dannata vacanza?"
Nate sospirò ancora. "Annie, tesoro, ti prego, smettila di imprecare. Questa è tutt'altro che una vacanza. Io non voglio andare in New Mexico. Io voglio venire a scuola con te. Ma, purtroppo, non ho scelta. Questa situazione mi è piovuta addosso e devo affrontarla. Ti prego, cerca di capire."
Ci fu uno strano silenzio e Nate immaginò Annie che alzava gli occhi al soffitto del dormitorio, scuotendo la testa a quella piccola preghiera. Sapeva che lei non voleva essere seccata dai problemi degli altri, ma visto che lei era all'università, Nate non capiva perché il fatto che lui non fosse a New York potesse coinvolgerla in qualche modo.
"Non starò via a lungo." disse Nate nel telefono, decidendo di farle notare con gentilezza che quel viaggio avrebbe avuto impatto zero su di lei. "Tu hai detto che probabilmente non saresti tornata a casa fino al ringraziamento. Per allora sarò gia tornato, Annie. Avrò dietro il mio cellulare – potrai chiamarmi tutte le volte che vorrai. Io devo … devo proprio farlo."
Quando toccò a lei rispondere, lo fece con voce meno dura e con tono meno polemico. "Perché, Nate? Perché senti di dover andare?"
Lui si ficcò le scarpe e toccò il comodino con la punta del piede. Non le aveva detto nulla dei ricordi e delle visioni, di quelle cose che lo tormentavano con cadenza regolare. "Ho … ho dei ricordi nella mia testa, Annie."
"Ricordi? Di cosa?"
"Non lo so. Appena ho la sensazione di poterli vedere, scompaiono. Penso che possano essere legati al posto dove stavo prima di essere adottato. Devo scoprire a cosa si riferiscono."
Il tono di Annie cambiò ancora, permeato di incredulità e di un pizzico di condiscendenza. "Tutto questo mi suona strano, Nate"
"Lo so che possa sembrarlo. Ma è quello che è. E' per questo che devo andare. Ti prometto che ti chiamerò tutte le sere, va bene?"
Dall'altra parte della linea, lei sospirò. "D'accordo, fai quello che devi fare. Solo cerca di non farti rapire."
Nate fece una risata sorpresa. "Cosa?"
"Roswell. Lo sai – Area 51 e tutte le altre scemenze. Gli alieni si schiantarono lì negli anni quaranta, non te lo ricordi?" La sua voce era allegra, scherzosa.
Lui rise di nuovo. Non si era mai interessato di fantascienza e il fatto che lui provenisse dalla capitale americana degli alieni, gli era completamente sfuggito. "Cercherò di tenere a bada i piccoli omini verdi."
"Solo, sta attento, okay?"
"Lo sarò. Ti amo, Annie."
"Si. Anche io." E senza ulteriori convenevoli, Annie chiuse il telefono.
Il silenzio nella camera di Nate era quasi assordante. Il fatto che Annie minimizzasse la situazione lo aveva demoralizzato e lo aveva fatto dubitare sul fatto che stesse facendo la cosa giusta. Se lei non era preoccupata per le origini di Nate, forse nemmeno lui doveva preoccuparsi.
Poi i suoi occhi azzurri si posarono sulla sua borsa, già preparata e sistemata ai piedi del letto e si rese conto che sarebbe partito, con o senza la benedizione di Annie O'Donnell.
Naturalmente il viaggio poteva non essere indispensabile – si sarebbe potuto limitare a sollevare la cornetta e a chiamare lo studio legale di Philip Evans, ammesso che ancora esistesse. Ma questo non avrebbe comunque soddisfatto il suo senso di curiosità. Nate aveva bisogno di vedere, aveva bisogno di tornare lì dove la sua vita era cominciata, in modo da poter capire chi fosse. Era importante per lui e forse, un giorno, sarebbe stato capace di farlo capire ad Annie.

***

Nate dormì a malapena quella notte, la sua mente costantemente occupata a ripetersi l'itinerario che avrebbe dovuto percorrere, a fare il conto del denaro di cui poteva disporre, a pensare alla mancanza di appoggio da parte di Annie, a dove l' avrebbe portato la fine del suo viaggio. Mentre il sole ancora si arrampicava sulla cima delle montagne, lui era già vestito, pronto a prendere il furgone per cominciare il suo viaggio.
Prima di partire, Emma lo costrinse a fare una abbondante colazione e Nate si immaginò che lei avesse paura che per risparmiare, lui avesse intenzione di saltare qualche pasto, lungo la strada. Gli aveva preparato di tutto – frittelle, salsicce, pancetta canadese, toast, uova, spremuta di arancio. La verità era che Nate aveva un po' di nausea e non aveva veramente voglia di mangiare, ma non poteva deluderla. Cosi, obbediente, assaggiò un po' di tutto, con la speranza di non vomitare dopo aver fatto un paio di chilometri.
Jonathan era tranquillo, ma Nate non era preoccupato per lui – era il modo di suo padre di mostrarsi imperturbabile, indipendentemente dalla situazione. Aveva fatto colazione accanto al figlio, poi lentamente aveva tirato qualcosa fuori dal taschino e gli aveva porto alcune banconote, tenute insieme da una graffetta.
Nate li guardò incuriosito. "Cosa sono questi?"
"Per te." disse suo padre, poggiando il denaro sul tavolo, tra di loro.
Nate si tirò indietro. "Oh, no, papà. Non posso prenderli."
Jonathan raccolse la forchetta e riprese a mangiare. "Tu puoi e lo farai. Non ti preoccupare per noi – siamo pieni di soldi. E' un lungo viaggio quello che stai per fare. Voglio che tu ti fermi e vada in un motel, se sei stanco. Non voglio che tu faccia tutta una tirata."
Nate lo guardò un po' imbarazzato – quella era stata esattamente la sua intenzione.
"Non c'è nessun senso a correre il rischio di farti del male." mormorò Jonathan, prendendo un sorso di caffé.
Nate deglutì, cercando di mandar via il groppo che gli si era formato in gola. Quanto sarebbe stato duro per i suoi genitori vederlo fare i bagagli e partire alla ricerca dei suoi genitori naturali? Era ovvio che loro lo amavano – ma avrebbero temuto che lui non li avrebbe più amati una volta che avesse trovato quello che cercava?
"Ti ho preparato il refrigeratore."
Nate si scorre dalle sue riflessioni per vedere sua madre che stava riponendo un piccola borsa termica accanto ai suoi bagagli.
"Ci sono solo qualche panino e qualche bibita." gli disse, sfiorandolo con lo sguardo. "Così potrai risparmiare un po' di denaro."
Nate sentì qualcosa che cominciava a bruciare dietro ai suoi occhi. All'improvviso, partire sembrava più difficile di quello che aveva previsto. "Grazie, mamma."
Jonathan si poggiò sulla spalliera della sedia, dando un sospiro soddisfatto e massaggiandosi la pancia con una mano. "Ottima colazione, Ma."
Nate si morse le labbra, mentre un'ondata di apprensione lo attraversava. "Si, veramente ottima, mamma."
"Grazie." rispose lei, stringendo insieme le mani. In un impeto, fece qualche passo e prese Nate tra le braccia, stringendolo tanto forte da fargli cadere la forchetta dalle mani. "Devi stare attento, capisci? E chiamaci, okay?"
Lui annuì. "Promesso."
"D'accordo, allora." E detto questo lo lasciò andare, sistemandosi la camicetta e sparendo in cucina.
Nate si girò circospetto verso suo padre.
"Tua madre non ama gli addii." spiegò Jonathan "Andiamo, ti aiuterò a caricare la tua roba." Prese il denaro e lo porse al figlio. "Mettiteli in tasca."
Una volta fuori, Nate e Jonathan infilarono la sua borsa nel furgoncino, sul sedile del passeggero – la parte posteriore del mezzo era scoperta e non potevano mettere lì il bagaglio di Nate. Jonathan posò una carta stradale sul sedile.
"Se ti dovessi perdere, fermati immediatamente a un lato della strada." lo avvertì. "Non ha senso andare avanti se non sai dove sei."
"Okay." disse Nate, passando dalla parte del guidatore.
"Controlla l'olio ogni volta che fai benzina – sai com'è questo furgone."
Lui annuì. "Lo farò!"
"Tieni i fari e i vetri puliti. Quando farà buio, sarai felice di averlo fatto."
"E' ragionevole."
"Non fermarti nelle aree di parcheggio quando fa buio. Se devi andare in bagno, vai in un posto pubblico, come McDonald’s o qualcosa del genere. Se non puoi assolutamente trattenerla, fermati sempre sotto una luce di sicurezza."
Nate gli rivolse un sorriso, divertito dall'inaspettata conferenza del padre su come viaggiare sicuri. "Okay."
"Nascondi la maggior parte dei tuoi soldi nel cruscotto – tieni indosso solo quello che ti è necessario."
"Lo farò."
"E, Nate?"
"Si?"
"Mantieni la promessa di chiamare tua madre. Lei si preoccupa per te."
E così faceva anche lui, avrebbe detto Nate "Lo farò, papà. Tornerò prima che posso."
Jonathan gli aprì la portiera e Nate saltò dentro. "Non andare veloce. So che hai il piede pesante."
Nate infilò la chiave di avviamento e rise. Era vero che qualche volta premeva un po' troppo sull'acceleratore.
"Sii prudente, figliolo."
Lui annuì, poi girò la chiave. Il motore partì con un rombo. Jonathan chiuse la portiera e fece un passo indietro. Mentre faceva retromarcia sul vialetto di ghiaia, rubò un'ultima visione di suo padre, fermo dietro il mezzo, con le mani nelle tasche della sua camicia di flanella.
Per qualche ragione sconosciuta, Nate ebbe l'improvvisa sensazione che non l'avrebbe rivisto ancora.

Continua...

Scritta da Karen (MidwestMax)
Traduzione italiana con il permesso dell'autrice
dall'originale in inglese, a cura di Sirio


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