Roswell.it - Fanfiction

ANTAR FILMS


Riassunto: Maxwell Evans è un noto produttore cinematografico ed Elizabeth Parker una giovanissima attrice. Lui ha un passato che nessuno conosce. Lei sta cercando di costruire il proprio futuro. Naturalmente le loro vite finiranno con l’intrecciarsi...

Data di stesura: dal 9 novembre al 13 dicembre 2005.

Valutazione: adatto a tutti.

Diritti: Tutti i diritti dei personaggi appartengono alla WB e alla UPN, e il racconto è di proprietà del sito Roswell.it. (In realtà ci sono anche alcuni personaggi di mia creazione, ma in un certo senso la cosa è irrilevante...)

Indirizzi e-mail: ellis@roswellit.zzn.com

Nota dell'autrice: La trovata con cui Max Evans, nella terza serie, si presenta in casa del noto produttore Cal Langley, mi ha sempre intrigato. I nomi dei personaggi sono quelli che conosciamo, ma i ruoli non sono sempre corrispondenti. Infine, un grazie alla mia “beta-reader” Shanti!


Nessuno conosceva il suo passato. La sua era stata una scelta deliberata. L’unica possibile per cercare di andare avanti. Per sopravvivere allo strazio. Non per dimenticare. Non avrebbe mai dimenticato il momento in cui l’aereo aveva attraversato la Torre Nord portandogli via ciò che di più caro aveva al mondo... C’era voluto circa un anno per risalire dal baratro della disperazione, quasi della follia, che lo aveva condotto ad un passo dal suicidio, poi, in qualche modo, era riuscito a sigillare la parte del suo cuore che avrebbe racchiuso per sempre quella tremenda ferita. Solo allora aveva ricominciato a vivere. Un poco alla volta, costruendo qualcosa di nuovo dalle macerie della sua anima. Si era completamente immerso nel progetto che, insieme a Tess, aveva abbozzato quasi per scherzo sui banchi di scuola, e ora la Antar Films era diventata una potenza nel mondo della celluloide.
Lo sguardo perso nel vuoto, rivide la moglie, con la piccola Leanna stretta fra le braccia, che gli sorrideva mentre le porte dell’ascensore si chiudevano davanti a lei. Avevano programmato con cura quel breve viaggio a New York, mettendo da parte ogni centesimo per mesi, ansiosi di tuffarsi nella sua meravigliosa confusione. Erano arrivati il giorno prima. Avevano visitato il Museo d’arte moderna e passeggiato in Central Park, e quella mattina si erano recati presto alle Twin Towers per poter ammirare il panorama della città. Nonostante l’ora il World Trade Center era già molto affollato e nell’ascensore non c’era posto a sufficienza per la carrozzina. Tess lo aveva guardato implorante. Ti spiace se noi due ti precediamo? - aveva chiesto. Anche la loro bimba di appena cinque mesi aveva rivolto verso di lui i suoi grandi occhi blu gorgogliando contenta, e con un sorriso aveva accondisceso. - Vi raggiungo col prossimo. - Le mani appoggiate sulla carrozzina vuota.
Non ne ebbe mai l’occasione.
Un boato assordante. Fumo, macerie che cadevano tutto intorno, urla disperate. Un mondo distrutto. Il suo mondo distrutto.
L’ascensore, come molte altre cose, si era letteralmente disintegrato nell’esplosione dell’aereo che i kamikaze avevano diretto contro il grattacielo, e di Tess e Leanna non era rimasto più nulla.
Per un crudele scherzo del destino lui non aveva riportato neppure un graffio. Il suo corpo non aveva ferite, ma l’anima era morta.
Un anno dopo era tornato lì, a Ground Zero, e aveva deposto due rose bianche nel punto esatto in cui una volta si trovava l’ascensore, adesso solo uno spazio vuoto in un’immensa buca. I nomi di Tess e Leanna Evans non sarebbero mai apparsi sulla grande stele del ricordo. Non risultavano tra i caduti ufficiali, vittime innocenti di una guerra di fanatici. Una guerra che non li riguardava ma che pure li aveva travolti. Il silenzio era l’ultimo velo di protezione che aveva potuto stendere attorno a loro.
Non aveva mai più rimesso piede a New York.
Quel giorno era l’11 settembre del 2009, otto anni dopo l’immane tragedia che aveva scosso i pilastri della civiltà occidentale, ed il pensiero era corso istintivamente al ricordo di sua moglie, all’epoca appena diciottenne, e di sua figlia. Chiuse gli occhi. Dietro le palpebre le torri gemelle si sostituirono ai palazzi di Los Angeles, la cui vista riempiva le finestre del suo ufficio, e per alcuni interminabili secondi rivisse tutto lo strazio di allora.
Quella data avrebbe sempre pesato sul suo cuore come un macigno.
Con uno sforzo di volontà si scosse e tornò a rivolgere lo sguardo allo schermo del computer sulla scrivania. L’agenda era fitta di impegni e, stando all’orologio elettronico nell’angolo inferiore del monitor, solo una manciata di minuti lo separava dal suo primo appuntamento. Serrò le mascelle in un gesto involontario, l’unico segno rivelatore delle tumultuose emozioni che si agitavano dentro di lui, poi si costrinse a rilassarsi ed infilò nella tasca della giacca il palmare ed il cellulare dopodiché uscì dalla stanza.
La sala riunioni, un locale né troppo grande né troppo piccolo, arredato in maniera confortevole, era già occupata da due delle cinque persone che doveva incontrare. - Buongiorno, signori, gradite del caffè? - chiese cortesemente, e ai loro cenni affermativi si volse e fece un breve sorriso alla sua segretaria.
La donna, sulla quarantina, molto ben curata e vestita in modo elegante ma allo stesso tempo pratico, ricambiò il sorriso e si allontanò per provvedere.
Stavano ancora sorbendo la bevanda quando giunsero gli ultimi ospiti.
- Scusate il ritardo... - mormorò il più anziano del gruppo prima di accettare con una punta di imbarazzo il caffè che gli veniva offerto.
Poco dopo le tazzine vennero portate via ed il tavolo si ricoprì di fogli e fascicoli variamente colorati.
- Ho studiato le vostre proposte e penso che si possa arrivare ad un accordo. Innanzitutto vorrei illustrarvi alcuni punti su cui gradirei delle delucidazioni... -
La sua voce, dal timbro caldo e profondo, risuonò pacata mentre esponeva le questioni controverse della richiesta di finanziamento per quel nuovo progetto cinematografico.

L’uomo si accigliò impercettibilmente nel seguire l’interazione fra i due attori. La luce dorata del tardo pomeriggio avvolgeva la coppia, seduta su una sdraia a bordo piscina, mentre le macchine da ripresa registravano la scena. Con suo enorme sollievo l’ultima battuta venne pronunciata e poté dare lo stop. Subito ci fu il solito trambusto che seguiva questo momento, e all’improvviso si rese conto dell’automobile parcheggiata nello spazio riservato al personale impegnato sul set. Volse lo sguardo intorno e vide la figura slanciata dell’amico venirgli incontro. Sorrise soddisfatto. - Cominciavo a temere che non saresti più venuto! -
- C’era un po’ di traffico... - disse l’altro con tono leggero. - Allora? Di cosa volevi parlarmi? -
Nonostante gli occhiali da sole Gregory Halford poté sentire il suo sguardo penetrante fisso su di lui. - Ho bisogno di un favore. Un grosso favore. - disse impacciato. Accennò al bordo piscina. - Si tratta di Elizabeth Parker -
- Cioè? -
Il regista gli mise un braccio intorno alle spalle e lo sospinse nella direzione da cui era giunto, allontanandosi con discrezione dalla troupe. - E’ molto giovane, ha soltanto diciotto anni, ma è davvero brava. Ha frequentato una delle migliori scuole di recitazione del paese e questa è la sua prima esperienza cinematografica. Quell’idiota di Valenti le ha messo gli occhi addosso, e ora... -
- Non soltanto gli occhi, direi, a giudicare da quello che ho visto poco fa... Non volevo disturbare le riprese, così me ne sono rimasto in disparte a guardare. Quei due sembravano incollati con l’adesivo... - commentò con ironia.
- Già, e proprio questo è il problema! Valenti è una vera piovra umana, e quella poveretta è sull’orlo di un esaurimento nervoso! -
- Non mi è parso che fosse infastidita da tutte quelle manovre... -
- Te l’ho detto, Maxwell, è una professionista e fa quello che deve senza lamentarsi. Ma ieri la truccatrice l’ha sorpresa nel suo camper a spalmarsi il collo col fondotinta, e al termine della giornata le ha chiesto del ghiaccio. Magda mi ha riferito che non è la prima volta che succede, e lei stessa è costretta a lavorare di fino per ridurle il gonfiore alle labbra praticamente dopo ogni scena in cui è previsto che si bacino! -
- Mentre Valenti non deve mai far ricorso al trucco? -
- Esatto. Il che significa che è lui che fa tutto il lavoro, e lei subisce in silenzio! Probabilmente non vuole suscitare pettegolezzi, però io mi sento responsabile nei suoi confronti. E siccome Kyle è il protagonista e non posso licenziarlo a questo punto delle riprese, sono costretto a mandare via Elizabeth, ma non voglio che la sua carriera ne abbia a soffrire, naturalmente! -
- Quindi mi stai chiedendo di offrirle un lavoro cui non possa dire di no, giusto? -
- Giusto. Maxwell, tu sei la persona più seria e onesta che abbia mai incontrato ad Hollywood, e sono sicuro che puoi capirmi. Elizabeth Parker è una ragazza speciale e merita di essere aiutata. Mi dispiacerebbe immensamente se finisse distrutta da gente del calibro di Valenti... -
- Ok, domani la manderò a chiamare. -
Halford s’illuminò in volto. - Hai già qualche idea? - chiese incuriosito.
- Forse. Chi è il suo agente? -
- Andrea Robinson. Ehi, sono tuo debitore... -
- Non è il caso. Lo sai che non sopporto i bulli da strapazzo -
- Ad ogni modo, grazie. - Gli strinse la mano con forza e, sorridendo contento, tornò al proprio lavoro.
Prima di raggiungere la propria vettura Maxwell cercò con lo sguardo la giovanissima attrice. La vide mentre, a capo chino, si avviava verso il camper del trucco, le mani strette intorno allo scollo dell’accappatoio bianco che indossava sopra il costume, quasi a voler scomparire dentro di esso. Comprese che, di nuovo, Magda avrebbe dovuto procurarle del ghiaccio e lavorare di fondotinta. “Valenti meriterebbe di essere preso a pugni per il suo comportamento, e invece è lei a doverne pagare le conseguenze... Quell’uomo è un vero mascalzone.”
Sospirò, poi alzò gli occhi al cielo. Le nuvole si rincorrevano come fiocchi d’ovatta, sospinte dalla brezza leggera, e l’aria stava cominciando a rinfrescare. Infilò le mani nelle tasche della giacca di cotone che indossava e si morse le labbra. Diciotto anni... Elizabeth Parker aveva la stessa età di Tess quando... Interruppe il pensiero quasi con rabbia. Dopo tutto quel tempo non avrebbe dovuto sentirsi ancora così sconvolto per una semplice coincidenza... Sì, avrebbe aiutato quella ragazza. Non poteva fare diversamente.

Il bisogno di strofinare le mani una contro l’altra era diventato insopportabile. La tensione le aveva reso asciutta la gola e un velo di sudore le copriva la fronte. Per un attimo pensò di voltarsi e fuggire via. Non si sentiva pronta per quel colloquio... Certo, Andrea aveva ragione: era diverso quando venivi richiesta. Non doveva confrontarsi con centinaia di altri candidati, stavolta si trattava solamente di capire se lei fosse adatta o meno per la parte. Tuttavia questo non diminuiva il suo stato d’ansia. La Antar Films era una casa cinematografica particolare, che si occupava di produzioni di qualità pur spaziando dal genere drammatico a quello fantascientifico. Il fatto che l’avessero cercata era un grande onore, anche se doveva ammettere che sarebbe stata disposta ad accettare qualsiasi incarico pur di vedere rescisso il suo contratto con la Paramount senza per questo finire sul lastrico... Fece una smorfia. Non era stato così, all’inizio. Sapeva bene che quello non era il mestiere più facile del mondo. C’era una spaventosa concorrenza e tanti, tantissimi erano gli aspiranti attori, molti dei quali veramente in gamba. Ma la televisione, il cinema e il teatro non offrivano spazio a sufficienza così a volte si era costretti ad accettare quello che capitava. Aveva interpretato svariati ruoli, non sempre a lei confacenti, e se l’era sempre cavata con onore. Quell’ultimo film, invece, in cui aveva solo una piccola parte, si era rivelato un’impresa quasi superiore alle sue forze. Aveva minato la sua autostima, l’aveva portata a chiedersi se fosse realmente in grado di svolgere quell’attività, nella quale aveva riversato tutte le sue capacità, le sue speranze, i suoi sogni. Aveva cominciato a dubitare di aver sbagliato tutto, a cominciare da quel che credeva di conoscere di sé. Deglutendo a fatica pensò che il destino aveva voluto concederle una nuova opportunità e lei non doveva essere così stupida da lasciarsela sfuggire!
Si passò le dita tra i capelli con fare nervoso e cercò di calmarsi. Studiò l’ambiente che la circondava. Sembrava fatto apposta per mettere la gente a proprio agio, eppure non poté fare a meno di sobbalzare quando una porta si aprì ed apparve un uomo sui trent’anni. - Elizabeth Parker? - chiese gentilmente.
Annuendo, scattò in piedi e lo seguì nel piccolo studio da cui si era affacciato.
Circa un’ora più tardi venne accompagnata all’uscita. Era stanchissima, fisicamente e psicologicamente, ma allo stesso tempo si sentiva soddisfatta. Non era mai stata sottoposta ad un provino tanto complesso, in cui aveva parlato di sé, delle proprie esperienze in quel campo, di ciò che l’aveva portata a scegliere la recitazione, e aveva letto lunghe parti tratte da svariati film. Monologhi, dialoghi - questi ultimi con l’aiuto di una delle tre persone che curavano l’intervista - ma anche qualche passo di sua scelta, compresa una poesia.
Alla fine l’avevano salutata con una calda stretta di mano e le avevano consegnato il copione, annunciandole che a breve avrebbero contattato il suo agente per la firma del contratto. Le avevano anche detto di non preoccuparsi per l’impegno che la legava al suo attuale datore di lavoro, e di cui si sarebbe occupata la loro casa produttrice.
Sorrideva contenta mentre attraversava l’ampio parcheggio che costeggiava quel lato della successione di bassi edifici che costituivano gli studios della Antar Films. Chinò il capo per frugare nell’ampia borsa alla ricerca delle chiavi dell’auto e quando lo rialzò stringendole come fossero un trofeo gli occhi le caddero su un uomo che si stava dirigendo verso l’ingresso dell’edificio che si era appena lasciata alle spalle. Indossava una t-shirt nera e pantaloni dello stesso colore, che gli fasciavano il corpo come una seconda pelle sottolineando la linea armoniosa dei muscoli. Gli occhiali da sole, pure neri, mimetizzavano il suo viso, incorniciato da folti capelli scuri con cui il vento giocava allegramente. Un sorriso inconsapevole le incurvò le labbra. Nell’insieme era una figura molto attraente, almeno da lontano. E certe volte era meglio che le cose rimanessero così. Da quella distanza non si notavano i difetti, e si poteva continuare a fantasticare...

- Com’è andata? -
- Non male. Ammetto che ci siamo andati giù un po’ pesanti, ma se l’è cavata discretamente. Vuoi vederla subito? -
- No, fammi un duplicato. Le hai dato il copione? -
- Sì - Il giovane che aveva accolto Elizabeth Parker fece un ghigno divertito. - Non ha battuto ciglio, ma ho notato il modo in cui lo ha stretto fra le dita... Scommetto che entro una settimana avrà imparato la sua parte a memoria! -
- Ottimo. Vorrei che le riprese iniziassero entro la fine del mese quindi datevi da fare anche voi, ok? -
- Non c’è problema. I provini sono quasi conclusi, le location tutte individuate, e lo staff tecnico selezionato e messo in preallarme. -
- Ottimo. - Guardò gli altri due collaboratori. - Fatemi avere la lista non appena sarà completa. Il set per gli interni?
- Già pronto. Ah, le costumiste hanno bisogno di uno spazio per lavorare. Posso usare uno dei magazzini di riserva?
Maxwell corrugò la fronte. - Sì, certo. Quello nel settore B ha la luce migliore. -
- Perfetto, grazie, capo! - Sentendo un piccolo bip si girò e tolse il disco dal registratore. - Ecco fatto. Buon divertimento... -
- A domani - Fece un cenno di saluto e se ne andò.
Impiegò mezz’ora per arrivare a casa. Si sentiva stanco, leggermente depresso, ma ci era abituato. Era sempre così, il giorno dopo l’11 settembre. Il tempo non era ancora riuscito a lenire il suo dolore, anche se lui faceva di tutto per tenere a bada il ricordo di ciò che aveva perduto.
Desideroso di distrarsi, andò a fare una rapida doccia poi sedette sul divano e si accinse a guardare il provino della giovane Parker.
Quando la registrazione terminò rimase a lungo a fissare lo schermo del televisore. Il volto di Elizabeth, così espressivo, così intenso, la sua voce ora dolce e sognante ora ferma e dura risuonava come un’eco silenziosa nella stanza. Gli occhi scuri avevano una luce particolare, sembravano attirare nella loro profondità. Ancora adolescente, era già dotata di un fascino sottile che la faceva sembrare più matura. Sarebbe stata perfetta nel ruolo di Shannon, la ragazza sbandata che trovava in sé la forza d’animo per aiutare i due giovanissimi protagonisti a sottrarsi al pericoloso giro di droga in cui erano finiti. Era una parte difficile ma, dopo averla vista sul set con Valenti, era certo che se la sarebbe cavata benissimo.
Distrattamente premette di nuovo il tasto Play del telecomando. Dopo pochi secondi, tuttavia, interruppe la riproduzione con un gesto brusco e spense l’intero impianto. Si diresse in cucina. Non aveva fame, in realtà, tuttavia quel giorno aveva saltato il pranzo e sapeva di dover mangiare qualcosa altrimenti avrebbe finito con lo svegliarsi in piena notte in preda ai crampi o, peggio ancora, agli incubi, come talvolta gli accadeva. E poiché i suoi incubi riguardavano sempre il momento dell’attacco alle Torri e l’ultimo sorriso di Tess e Leanna, non aveva alcuna intenzione di correre il rischio. Non dopo le prime due esperienze, in cui era schizzato a sedere sul letto gridando per l’orrore. Ne andava della sua salute mentale...

Accarezzò quasi con affetto le lettere stampigliate sulla foderina del copione. - Inversione di rotta. Soggetto e sceneggiatura di ZOA. Antar Films - lesse ad alta voce. ZOA... Si domandò chi si nascondesse dietro quelle iniziali. Un uomo o una donna? I suoi lavori rivelavano una sensibilità che la facevano propendere per la seconda ipotesi, anche se la forza delle descrizioni aveva una caratteristica tutta maschile. Sorrise. Aveva sentito circolare delle voci secondo cui stava lavorando a qualcosa di nuovo, ma non era niente di sicuro. E comunque, come avrebbe potuto immaginare che avrebbe interpretato uno dei suoi personaggi? Sedette comodamente sul letto, la schiena appoggiata contro la parete e le gambe flesse a fare da leggìo per il voluminoso dattiloscritto. Di solito usava un pennarello per evidenziare le sue battute però in quel caso le sarebbe parso un sacrilegio, così cercò di memorizzare visivamente la posizione dei punti che la riguardavano. Era un trucco che aveva imparato da bambina, quando andava alle elementari, e che aveva continuato a tornarle utile anche dopo. A mezzanotte inoltrata era ancora lì, intenta a leggere e rileggere le frasi pronunciate da Shannon, calandosi totalmente in lei fino a perdere la coscienza di sé.
- Senti, è tardissimo, ti spiace spegnere e dormire? Lo sai che la luce filtra da sotto la porta... -
La voce assonnata di Eileen, la sua compagna di appartamento, la fece sussultare con violenza. - Scusami, non mi ero resa conto dell’ora... - mormorò dopo aver gettato un’occhiata alla piccola radiosveglia sul comodino. - Come penitenza preparerò i pancakes per colazione, ok? -
L’amica abbozzò un sorriso. - Per due giorni? - provò a contrattare.
- Va bene, per due giorni. - cedette a malincuore.
- Affare fatto! ‘Notte. -
- ‘Notte - Attese che l’uscio si fosse richiuso dietro di lei poi mise via con riluttanza il copione e spense l’abat-jour.
Era impaziente di cominciare a lavorare, quel ruolo le piaceva molto, e si augurò che la Paramount non facesse troppe storie per lasciarla andare. In fin dei conti perché avrebbe dovuto? Il suo era soltanto un personaggio di contorno, e la trama del film non ne avrebbe risentito affatto se le due scene in cui avrebbe dovuto ancora recitare fossero state tagliate...
Confortata da quest’ultima riflessione, si stiracchiò beatamente sotto le lenzuola e chiuse gli occhi per scivolare subito dopo in un sonno profondo.

- Sapevo che ti avrei trovato ancora qui! - Halford varcò la soglia dell’ufficio e, con sguardo indagatore, continuò: Come sta andando? -
Maxwell non ebbe bisogno di spiegazioni per capire a cosa si riferisse. Si lasciò andare contro lo schienale della poltroncina e sorrise. - Alla grande. Se la cava benissimo, e ha un ottimo feeling con gli altri. Avevi ragione, è un’attrice proprio in gamba! -
- Ne ero certo. Per questo non volevo che uno come Kyle Valenti la rovinasse subito! A volte basta poco per distruggere una persona, e mi sarebbe dispiaciuto se fosse capitato proprio a lei, per di più sotto la mia direzione! -
- Beh, direi che puoi tranquillizzare la tua coscienza. E’ molto cresciuta, in questi mesi, e probabilmente adesso non si lascerebbe più intimidire dai tipi sul genere di Valenti... -
- Felice di saperlo. So che hai un ottimo intuito per certe cose, quindi sono ancora più contento per essermi rivolto a te! - Tese la mano in un gesto di gratitudine e Maxwell si affrettò a stringergliela. - Veramente sono io a doverti ringraziare. Il mio staff stava impazzendo nella ricerca di qualcuno adatto a quel ruolo, e tu me lo hai servito su un piatto d’argento! -
- Allora vuol dire che siamo pari. - Reclinò il capo di lato. - Che ne dici di venire a cena a casa mia? Ci sono anche i ragazzi... -
Non gli sfuggì il tono di rimpianto con cui pronunciò quelle ultime parole. Aveva avuto modo di conoscere Bart e Jordan un paio di anni prima, e sapeva che da quando erano andati al college Gregory e sua moglie ne sentivano terribilmente la mancanza. Forse la sua presenza sarebbe stata poco opportuna, e lo disse.
- Non pensarci nemmeno! Lo sai che non te lo avrei chiesto se non mi avesse fatto piacere! Su, avanti, chiudi la baracca e andiamo! -
A quel punto non gli restò che obbedire così, con un’alzata di spalle, fece come gli era stato detto e poco dopo era in macchina, intento a seguire la potente Maserati dell’amico.

- Maledizione! Scappiamo! Svelti, svelti! -
Non se lo fecero ripetere. I quattro rimisero i coltelli nelle loro custodie e seguirono il capobranco dileguandosi nei vicoli che caratterizzavano quella zona della città.
L’automobile che aveva destato l’allarme era ormai giunta all’altezza del punto in cui si era trovata poco prima la piccola banda di teppisti, e la brusca frenata con cui si arrestò fece fischiare i pneumatici.
- O mio dio... - Il guidatore, una ragazza, dopo essersi guardato freneticamente attorno, scese dalla macchina e corse accanto alla figura distesa prona sul marciapiede. Solo due strade più in là era pieno di gente che faceva gli acquisti di Natale ma lì, in quel momento, non c’era nessuno. Provò a chiamare aiuto tuttavia nessuno rispose, nessun poliziotto di quartiere venne a soccorrerla. “C’era da immaginarselo! Certe cose succedono solo nei film!” pensò con rabbia. Scosse delicatamente l’uomo per la spalla e tutto ciò che ottenne fu un flebile lamento. Spaventata, comprese che doveva essere ferito e, sperando di non complicare la situazione, cercò di sollevarlo. Non si preoccupi, la porto subito in ospedale! - mormorò ansimando per lo sforzo.
- No... Niente... niente ospe...dale... - bisbigliò lui prima di perdere i sensi.
- Al diavolo! - Non sapendo come altro fare, lo girò sulla schiena e lo afferrò per i risvolti del giubbotto di pelle, dopodiché cominciò a tirare finché, centimetro dopo faticoso centimetro, arrivò accanto all’auto. Le braccia tremanti per la stanchezza, aprì lo sportello e gemette. - E adesso? -
Poi ci ripensò. Doveva essere più semplice usare i sedili posteriori, così spostò ancora un poco il corpo inerte dopodiché lottò per alzarne il busto a sufficienza da consentirle di afferrarlo di nuovo e tirarlo dall’interno.
Quando ebbe finito aveva i muscoli a pezzi, il fiatone e le mani sporche di sangue. Sedutasi al posto di guida, cercò di calmarsi facendo dei lunghi respiri. Sicuramente sarebbe stato preferibile andare al pronto soccorso ma, considerato che non sapeva bene quale strada prendere e che in quei giorni il traffico era ancora più pazzesco del solito, tutto sommato la cosa migliore da farsi era assecondare la richiesta del ferito e portarlo da un’altra parte. Un posto che fosse in grado di raggiungere in pochi minuti. Il suo appartamento. E magari Elizabeth sarebbe stata già in casa e avrebbe potuto darle una mano a trasportarlo...
Avendo stabilito il da farsi si sentì più tranquilla e, allacciatasi la cintura, riaccese il motore e partì.
Come aveva sperato, le luci alle finestre erano accese così citofonò per avvertire la sua compagna di scendere ed attese impaziente che arrivasse.
- Eileen, perché...? - Non fece in tempo a terminare la frase che l’altra la sospinse verso lo sportello posteriore della vettura. - Ho bisogno del tuo aiuto. Dei farabutti hanno attaccato una persona e sono fuggiti quando mi hanno visto arrivare. Lui è ferito e privo di sensi, e ho bisogno di te per portarlo su! -
- Perché non sei andata all’ospedale? -
- Non voleva, e poi mi ci sarebbe voluto un sacco di tempo per arrivarci, mentre per venire qui ci ho messo solo dieci minuti. Dai, aiutami, o questo povero disgraziato mi muore in macchina! -
Insieme, strattonando e sbuffando, riuscirono a trasportarlo nell’appartamento e lo distesero su una coperta che Eileen si era affrettata a sistemare per terra.
Ora che poteva osservarlo bene, la ragazza inorridì. - Lo hanno colpito un sacco di volte! Guarda! - Indicò i numerosi strappi nel giubbotto quindi, con fare deciso, lo aprì e iniziò a sfilarglielo. - Va’ a prendere un po’ di asciugamani e dell’acqua. -
Elizabeth si alzò per eseguire gli ordini ricevuti, ed intanto si mordicchiava il labbro inferiore. “Ha qualcosa di familiare... Non riesco a capire dove ma... devo averlo già visto...”
Poco dopo era nuovamente vicino al ferito. Esitante, gli scostò i capelli dal viso e di colpo lo riconobbe. - E’ lui! Sì, dev’essere lui! - esclamò sorpresa.
- Lo conosci? -
- Non proprio. Cioè... credo che lavori per la Antar Films. Mi è capitato di vederlo ogni tanto agli studios, però non so chi sia... -
- Va bene, non è importante. Su, tienilo così mentre lo pulisco dietro. -
- Sei... sei sicura di sapere cosa fare? -
- Ma sì, sì, sta’ tranquilla! - rispose con una punta di impazienza.
Al liceo Eileen aveva frequentato un corso di pronto intervento e, anche se erano passati diversi anni da allora, sicuramente ne sapeva più di lei per cui fece come le era stato detto e si curvò un poco in avanti per sostenere il giovane sul fianco. Il contatto con la sua pelle calda e morbida le provocò quasi una scossa.
- Accidenti, non riesco a vedere bene... Dobbiamo girarlo a faccia in giù. -
L’idea di quel volto premuto sul freddo pavimento le era insopportabile così, senza esitare, la ragazza si spostò in modo da potersi appoggiare la sua testa sulle gambe.
Pulire, disinfettare e fasciare portò via un buon quarto d’ora, dopodiché le due amiche si lasciarono andare sfinite contro il bordo del divano mezzo sfondato che occupava quasi la metà di quello che chiamavano pomposamente il salotto.
- Pensi che si riprenderà? - chiese Elizabeth, incapace di distogliere gli occhi dal corpo a pochi passi da lei.
- Certo! Ha perso molto sangue ma non è stato colpito in alcun punto vitale. Almeno credo... - aggiunse, quasi per un ripensamento.
- Ero convinta che fossimo solo noi ragazze a doverci preoccupare di non andare in giro da sole quando è buio, ma vedo che ormai è diventato pericoloso per tutti. -
- Forse volevano solo rubargli il giubbotto, anche se non mi sembra che valga la vita di una persona... - commentò Eileen. - A proposito, guarda un po’ se c’è il suo portafogli? Così scopriamo come si chiama... -
- Giusto! - Si protese in avanti per recuperare l’indumento e frugò in tutte le tasche finché trovò quello che cercava. Eccolo! - Aprì l’astuccio, anche questo di pelle, e ne estrasse una tessera di plastica, la patente. - Il suo nome è Maxwell Evans, e abita al 365 di Yucca Street. Evans... - Spalancò gli occhi. - Eileen, lui “è” la Antar Films! -
- Vuoi dire che è il tuo capo?!? - si stupì l’altra. - E non lo conosci? -
- Beh, no, io ho parlato solo con le persone che mi hanno fatto il provino e con l’avvocato per la firma del contratto, poi i miei contatti con la società si sono limitati allo staff di produzione. E’ vero che qualche volta è venuto sul set, ma non c’era alcuno motivo che mi venisse presentato... -
- Comunque sia, è davvero un gran bel tipo! Hai visto che muscoli? - ammiccò Eileen.
Elizabeth non rispose. Sì, aveva notato la struttura potente delle spalle e la linea perfettamente piatta dell’addome, però quello che l’aveva colpita di più era la consistenza della sua pelle, il cui tepore le aveva quasi bruciato la mano.
- Vado a preparare qualcosa da mangiare. Ti va una bistecca con le patatine fritte? -
- Va bene. - lo disse con voce assente, lo sguardo irresistibilmente attratto dal profilo di quel viso pallido e teso. Adesso c’era uno dei cuscini del divano a fargli da poggiatesta, e in apparenza Maxwell Evans era immerso in un placido torpore. Si augurò che non gli venisse la febbre, che non sorgesse alcuna infezione, perché allora sarebbe stato un bel guaio...
- Dai, non guarirà prima se tu resti lì a fissarlo! Forza, vieni di là con me! -
Con un sorriso imbarazzato si mise in piedi e la seguì in cucina.

- Mmmm... - Istintivamente si volse su un lato e fece una smorfia. Qualcosa di molto duro premeva contro la sua spalla, così si lasciò ricadere in posizione supina. E la smorfia si accentuò. Gli occhi ancora chiusi, portò una mano all’altezza dello stomaco, dove aveva sentito più forte il dolore, e avvertì la presenza di una fasciatura. “Che diamine...?” Lentamente, facendo leva sui gomiti, si sollevò quel tanto da permettergli di guardare il punto incriminato e sentì nuove fitte, stavolta nella parte inferiore della schiena. All’improvviso ricordò l’aggressione di cui era stato vittima il pomeriggio precedente e, con un certo sforzo, si mise a sedere. Dovevano averlo soccorso dopo che era stato abbandonato sul marciapiede, sì, rammentava una voce di donna... e il proprio rifiuto di essere portato in ospedale. A quanto pareva doveva avergli dato retta, perché quello non era di certo il pronto soccorso!
Vide il suo giubbotto appoggiato di traverso sul bracciolo del divano ed il portafogli sistemato sopra bene in evidenza. Piano piano si alzò, facendo attenzione a non sforzare i punti che gli facevano male, e appallottolata in un angolo vide la sua maglietta. La prese, ma si rese conto che avrebbe dovuto buttarla non appena fosse arrivato a casa. Bucata e imbrattata di sangue, era ormai irrecuperabile... Sospirando, cercò di rimetterla ma le ferite dovevano essere più profonde di quanto pensasse perché, dopo avervi infilato le braccia, non riuscì a farla passare per la testa. Per qualche secondo lottò per portare a termine quella pur semplice operazione, poi s’irrigidì nel sentirsi toccare.
- Aspetta, lascia che ti aiuti. -
Quando la sua testa riemerse dalla scollatura della maglietta rimase a fissare immobile la ragazza ferma davanti a lui. Era Elizabeth Parker... Non poté trattenere un brivido mentre le sue mani tiravano con delicatezza il tessuto verso il basso, srotolandolo lungo il torace. - Grazie - disse semplicemente.
Lei sorrise, ed il viso le s’illuminò. - Mi fa piacere vederti in piedi. A quanto pare Eileen è stata un’ottima infermiera... - Vedendo la sua espressione interrogativa aggiunse: - Dividiamo l’appartamento. E’ stata lei a raccoglierti per strada, ieri, e a curarti le ferite. Io mi sono limitata a farle da assistente... - Sorrise di nuovo. Era sinceramente contenta di sapere che stava meglio, anche se dubitava che avesse abbastanza forze per andarsene in giro da solo. - Faresti bene a sederti sul divano, intanto che io torno in cucina a preparare la colazione. Mi dispiace averti lasciato dormire sul pavimento ma non abbiamo osato continuare a trascinarti fino alla camera da letto più vicina per paura di aggravare le tue condizioni. -
- Va bene così. Tu e la tua amica siete state molto gentili. -
Elizabeth sorrise di nuovo e, senza aggiungere altro, se ne andò.
Immaginando che per il loro ospite non sarebbe stata una cosa semplice alzarsi dal divano le due ragazze disposero su un vassoio tutto l’occorrente per mangiare.
- Ecco qua! E’ fortunato, signor Evans, stamane Elizabeth ha fatto i pancakes! - disse Eileen allegramente.
Tenendo il vassoio in bilico sulle proprie gambe lui le guardò con curiosità. - Prepari sempre tu la colazione? chiese rivolgendosi alla giovane attrice.
- No, lo facciamo a turno. Ma quando perdo una scommessa, o devo farmi perdonare qualcosa, faccio i pancakes. Altrimenti sono toast o cereali - ammise sorridendo. Non amava darsi da fare ai fornelli, anche se era in grado di cavarsela discretamente...
- Io... vi devo molto e non mi sono neppure presentato. - Tese una mano verso di loro. - Mi chiamo Maxwell Evans.
- Lo sapevamo già. Il tuo portafogli - spiegò Eileen indicando l’oggetto in questione. - Io sono Eileen Burrows, e lei è Elizabeth Parker. Lavora per te, anche se lo ha scoperto solo ieri sera... -
- Sì, io... l’avevo riconosciuta. - Nient’altro.
Elizabeth si sentì arrossire. Un uomo nella sua posizione doveva avere una enorme quantità di impegni, ed era probabile che fra questi rientrasse anche il controllare di tanto in tanto i set. Ma sapere che l’aveva notata tra la folla che di solito vi lavorava le fece provare una stranissima sensazione alla bocca dello stomaco.
Avvertendo il disagio della compagna, Eileen si inginocchiò vicino al giovane e s’impossessò del coltello per spalmare il burro sui pancakes, che poi ricoprì di sciroppo d’acero. - Fa’ con calma, e se hai bisogno di qualcosa chiamaci, ok? -
- Grazie. -
- Non c’è di che - La ragazza si rialzò e, afferrata l’amica per un braccio, la trascinò via con sé. - Sbrigati, anche noi abbiamo una pila di pancakes che ci aspetta! -
Una volta terminata la colazione e rigovernato, le due amiche si affacciarono nuovamente sulla soglia del salottino per assicurarsi che Evans non stesse male.
- Devo andare all’università, stamattina. Vuoi che ti dia un passaggio da qualche parte? - si offrì Eileen. - Magari alla polizia, per sporgere denuncia? -
Il giovane scosse leggermente la testa. - Contro i soliti ignoti? No, è inutile. Puoi portarmi invece al terminal degli autobus? Ho lasciato la macchina nel parcheggio lì vicino. -
- D’accordo. Allora vado a prepararmi! -
- Sei sicuro di farcela, a guidare? - si preoccupò Elizabeth.
- Sì. - A conferma di quel che aveva appena detto si alzò con scioltezza, pur facendo attenzione a come si muoveva.
- Il tuo giubbotto - Gli porse l’indumento, e lo guardò mentre lo infilava. Nonostante le sue affermazioni dubitava che fosse saggio, per lui, andarsene in giro ridotto com’era, ma non poteva certo costringerlo a restare...
Pochi minuti dopo Maxwell saliva dal lato del passeggero, accanto ad Eileen. Aveva notato le macchie di sangue sui sedili posteriori, e le fece un sorriso di scusa. - Dopo che li avrai fatti rifoderare mandami il conto. E’ il minimo che possa fare per ringraziarti. -
Sulle prime lei accennò un gesto di diniego poi, davanti alla fermezza della sua espressione, ci ripensò. Lo stipendio che percepiva come aiutante tuttofare in uno studio legale le bastava a malapena per pagare la sua quota delle spese di casa e concedersi qualche piccolo svago. Far pulire l’auto era una spesa che al momento non poteva proprio permettersi, così fece una simpatica smorfia. - Ok, grazie. E per il futuro ricordati di evitare le strade secondarie! -
Il giovane sorrise annuendo, ma dentro di sé era furioso. Gli aggressori lo avevano colto completamente di sorpresa, e la cosa era del tutto inammissibile. Lui, più di chiunque altro, non poteva permettersi simili distrazioni, eppure, per quanto assurdo potesse sembrare, il giorno prima si era lasciato sorprendere come uno stupido. E per fortuna si era trattato di delinquenti comuni...

Rimasta sola in casa, Elizabeth andò a rifare il proprio letto poi fece una rapida doccia e si preparò per andare agli studios. Quel giorno doveva girare una delle ultime scene, dopodiché si sarebbe trasferita con gli altri a Sacramento per una settimana. Era quindi difficile che avesse l’occasione di rivedere il signor Evans, e forse era meglio così. Era il suo datore di lavoro, e il pensiero di averlo visto a torso nudo, di averlo toccato, la imbarazzava terribilmente.
A parecchi isolati di distanza, Maxwell Evans varcò la soglia di casa e con un sospiro si chiuse la porta alle spalle. Si diresse a passi lenti in camera da letto ed intanto, con la mano destra, si tastò la fasciatura, una smorfia di disappunto sulle belle labbra sottili. Si tolse poi il giubbotto e la maglietta e li lasciò cadere sulla sedia posta in un angolo della stanza dopodiché cominciò a srotolare le bende. Sulla pelle erano ancora visibili dei segni rossi laddove la lama era affondata, e il dolore si era attutito fino a diventare una semplice sensazione di indolenzimento. Con un enorme senso di sollievo si infilò nella cabina della doccia e rimase a lungo immobile sotto lo scroscio d’acqua tiepida. Si sentiva stanco, arrabbiato, confuso. Fece uno sforzo su se stesso per rilassare i muscoli della schiena e reclinò il capo in avanti per ricevere il getto liquido sul collo. Senza riaprire gli occhi tese una mano a prendere il flacone dello shampoo e si insaponò la testa. La schiuma morbida e vellutata gli scivolò sul corpo portandosi via la tensione residua. Con fare assente si passò le mani tra i capelli per risciacquarli e poi rialzò il viso offrendolo in pieno al getto. Un po’ a malincuore chiuse l’acqua e prese ad asciugarsi col telo di spugna che aveva appoggiato sullo sgabello accanto alla doccia. Mentre si strofinava ripensò all’agguato, a quello che stava facendo pochi istanti prima che lo colpissero. Sì, era stato proprio un idiota, si disse sconsolato. Camminava distratto, riflettendo su un problema che si era presentato su uno dei set il giorno prima. Anzi, per escludere completamente la confusione delle strade adiacenti, le cui vetrine addobbate richiamavano una quantità incredibile di folla, si era del tutto tagliato fuori da ciò che lo circondava al punto di aver dimenticato il motivo per cui si trovava lì. Era uscito per cercare un regalo per sua sorella e invece si era lasciato assorbire dalle faccende di lavoro. Cosa che gli succedeva abbastanza di frequente, doveva ammetterlo, ma mai prima con conseguenze tanto disastrose...

“- Ciao, Zoa, avevo sperato in un invito alla prima, tanto per cambiare... -”
La voce tra il sensuale e l’affettuoso all’altro capo del ricevitore fece sorridere il giovane. - Tanto per cambiare, non ci sono andato neppure io. Sai che preferisco evitare i bagni di folla... -
Lei rise apertamente. “- Sì, lo so -” Il tono si rifece serio. “- Comunque sia, l’ho visto al cinema ieri sera. Mi è piaciuto molto, hai reso davvero bene la lotta interiore dei personaggi principali, e non hai trascurato lo studio di quelli secondari. Ma... -” Ci fu un brevissimo silenzio, poi: “- c’è ancora così tanto di te... -”
Si adombrò nell’udire la tristezza della sorella. - Non posso cancellare quella parte della mia vita, però sto bene, te lo assicuro. - Scrollò il capo, anche se lei non poteva vederlo. - Ad ogni modo non tutti i miei soggetti sono cupi. Ho scritto anche un paio di commedie, e ultimamente ho prodotto alcuni film di fantascienza e un thriller. Non sono ripiegato su me stesso come sembri temere... -
“- Lo so, Maxwell. Vorrei solo sentirti più felice. -”
- Il fatto che non mi sia risposato non significa che non lo sia. -
“- Hai una ragazza? -” indagò lei, già conoscendo la risposta.
- Isabel, ti voglio un bene dell’anima, lo sai, ma adesso piantala, d’accordo? -
“- D’accordo. Buona notte. -”
- Ciao. -
Dopo aver interrotto la comunicazione Maxwell si stiracchiò con voluttà. Era tardi, e lui era rientrato da pochissimi minuti quando il telefono aveva squillato. La giornata era stata intensa, e lo aveva visto occupato su vari fronti. Incontri con lo staff di produzione di un nuovo film, chiarimenti per questioni sollevate in merito ai contratti con alcuni attori, difficoltà insorte durante le riprese in corso negli studios, le pressanti richieste di un regista per avere maggiori fondi... Era semplicemente sfinito e desiderava soltanto staccare la spina, isolarsi da tutto e da tutti, ritrovare l’equilibrio tra l’adrenalina che ancora gli scorreva potente nelle vene e la spossatezza mentale. Ma al tempo stesso si sentiva soddisfatto. Aveva risolto ogni problema sottoposto alla sua attenzione senza suscitare nuovi attriti, aveva persino trovato il tempo per un caffè con Halford, che si era congratulato con lui per il successo del suo ultimo film. Aveva sorriso nel sentire il commento dell’amico sul proprio contributo, avendogli in pratica fatto dono di Elizabeth Parker, la cui eccellente interpretazione era stato il perfetto complemento ad una storia che avrebbe altrimenti potuto finire col confondersi con centinaia di altre simili.
E quello era stato il primo ed unico accenno alla giovane attrice dopo il giorno dell’agguato. Non l’aveva più vista da allora, ma sapeva che era stata presente alla prima cinematografica ed aveva raccolto delle critiche molto positive. Era contento per lei, sapeva che aveva fatto un ottimo lavoro, e si augurò di averla ancora in qualcuno dei suoi film.
Toltisi i mocassini si lasciò cadere sul letto ed intrecciò le mani dietro la testa. Era da tanto tempo che non vedeva Isabel, l’unica famiglia che avesse, e si accorse di sentirne la mancanza. D’impulso decise di andare a trovarla. Avrebbe riorganizzato la propria agenda per ritagliarsi una settimana e sarebbe partito il prima possibile. Lo doveva a se stesso. Per non finire col diventare schiavo di ciò che era nato come un sogno adolescenziale. Si volse a prendere il palmare sul comodino e cominciò a studiare la situazione.

- Come va? -
Elizabeth gettò la borsa a tracolla sul bordo del divano e prese il bicchiere di tè freddo che l’amica le porgeva. Bene. Se poi circolasse la metà delle macchine andrebbe ancora meglio... -
Eileen sollevò le sopracciglia. - Avresti dovuto provare a chiederlo a Babbo Natale. Ormai è troppo tardi... - commentò seria.
L’altra scoppiò a ridere. - Hai ragione, ma l’anno prossimo lo farò di sicuro! -
- E il tuo capo? Non l’hai visto neanche oggi? -
- Se ti riferisci a Maxwell Evans, no, non l’ho visto. Ad ogni modo, non è esattamente il mio capo. Cioè, lui ha tirato fuori i soldi per pagarmi, però chi dà gli ordini è Craven, il regista. -
- E...? -
- E cosa? - Bevve un lungo sorso della bevanda fresca e profumata, e quasi si strozzò quando l’amica chiarì: Craven. Com’è, fisicamente? -
- Santo cielo, Eileen! - la sgridò andandosi a sedere accanto a lei. - Ha più di cinquant’anni, è sposato e ha quattro figli! -
- E con questo? Che aspetto ha? E’ sexy? Oppure è contro ogni tentazione? -
Elizabeth contò mentalmente fino a dieci per impedirsi di risponderle male poi emise un piccolo sospiro rassegnato. - E’ un bel tipo, molto gentile, che sa il fatto suo. Ci fa lavorare sodo, e siamo ormai un gruppo ben affiatato nonostante le riprese siano iniziate soltanto da pochi giorni. Anche se lo volessi, non avrei proprio il tempo da dedicare a simili sciocchezze... -
- Cercare l’uomo della propria vita non è una sciocchezza! - ribatté Eileen.
- Lo è, quando lo fai infischiandotene del fatto che sia felicemente sposato. - La ragazza abbassò lo sguardo sul bicchiere che teneva fra le mani. - Io non ho alcuna intenzione di distruggere una famiglia, neppure se fossi follemente innamorata. -
- In teoria la penso come te, però non so se, all’atto pratico, riuscirei a mettere da parte i miei sentimenti. Al cuor non si comanda... - concluse con fare scherzoso.
- No, è vero. Però bisogna anche sapersi comportare con correttezza. E iniziare una relazione distruggendone un’altra non mi sembra molto corretto. -
- Mister Evans non è sposato, vero? -
- Ancora con quella storia?!? -
- Beh, uno come lui non è certo da buttar via, no? -
Elizabeth depose il bicchiere sul piccolissimo tavolo che aveva davanti e appoggiò le mani, coi palmi ben aperti, sulle gambe avvolte nei morbidi pantaloni di lino. - Senti, Eileen, capisco che abbia colpito la tua fantasia, indubbiamente è un bell’uomo, ma quello a cui stai pensando è semplicemente assurdo. Quindi piantala, ok? -
La giovane donna aggrottò la fronte. La reazione dell’amica le sembrava eccessiva. Troppo, per quello che, nelle sue intenzioni, doveva essere un banale scambio di battute. Per quel che ne sapeva non era mai stata fidanzata, e da quando dividevano l’appartamento non l’aveva mai vista uscire da sola con un ragazzo. Era vero che, nel mondo del cinema, o ti davi moltissimo da fare oppure non concludevi nulla, ma la vita era fatta anche di divertimento, che diamine! Bene, ci avrebbe pensato lei. - Sei libera, domani pomeriggio? - E davanti al suo sguardo interrogativo aggiunse: - Ti va di venire al mare con me? -
- D’accordo - capitolò subito Elizabeth. Sapeva che Eileen le era sinceramente affezionata e che si preoccupava per lei. In fondo, un po’ di relax le ci voleva proprio. Ottobre era ormai alle porte, e quell’estate aveva visto l’oceano sì e no un paio di volte. Non è che si lamentasse, girare due film uno dietro l’altro era più di quanto avesse mai osato sperare, ma lo stress cui si sentiva sottoposta era davvero enorme e un’interruzione, sia pure di poche ore, era proprio ciò di cui aveva bisogno. Non riuscì a trattenere un sorrisetto. La teoria di Eileen era interessante e forse avrebbe dovuto prenderla in considerazione, se non fosse che temeva che le varie sfaccettature di un rapporto sentimentale potessero rivelarsi tutt’altro che distensive...

La piccola sala di proiezione era immersa nella semioscurità mentre le immagini si susseguivano a ritmo serrato sullo schermo. - Sì, adesso va decisamente meglio - commentò il giovane distendendo le lunghe gambe davanti a sé.
Sapeva che non era stato facile riassemblare la pellicola ma sapeva pure che John Mathieson era un regista molto in gamba, e il risultato era proprio lì, davanti ai suoi occhi. A chiunque poteva capitare di sbagliare, però insieme erano riusciti a mettere le cose a posto e il film era salvo. Non lo sfiorò minimamente il fatto che, se così non fosse stato, avrebbe perso un bel po’ di soldi. Del resto non era quello il motivo per cui si era gettato a capofitto nel mondo del cinema, e comunque ormai poteva permettersi qualche insuccesso senza per questo finire in bancarotta. Con Tess aveva sognato di creare mondi fantastici in cui far muovere personaggi immaginari le cui vite fossero però un intreccio delle mille realtà che si nascondevano nel profondo della mente. Gioia, sofferenza, amicizia, tradimento, passione, terrore. Tutto ciò che rendeva affascinanti gli esseri umani, con i loro lati luminosi e quelli oscuri.
Era stata una vera sfida, ed era pienamente consapevole di averla vinta. Non lo preoccupavano le difficoltà con cui si scontrava ogni giorno, anzi, servivano a rendere più stimolante il suo lavoro. E poi, ogni tanto, si divertiva a scrivere sceneggiature. A volte capitava che qualcosa di sé filtrasse nei suoi testi, ma soltanto sua sorella Isabel era in grado di accorgersene, come sapeva bene. Non c’era nessun altro che conoscesse la sua anima così a fondo. Non più.
Ripensare a Tess e alla loro bambina lo faceva ancora soffrire, tuttavia era una sofferenza che, lo sentiva, stava cominciando ad attenuarsi. La vita continuava, nel bene e nel male, ed il ricordo di coloro che aveva amato con tutto il cuore non lo avrebbe mai lasciato, ma era riuscito a realizzare il progetto della Antar Films e, così facendo, ne aveva onorato la memoria. Per questo si sentiva in pace con se stesso, a dispetto delle convinzioni di Isabel.
Mathieson gli sorrise soddisfatto. - Vero? Eh già, avevi proprio ragione! Sai, dovresti provare a cimentarti con la macchina da ripresa. Penso che riusciresti a cavartela molto bene... -
- Ora come ora non ne ho il minimo desiderio. Ma chissà, un giorno, forse... - Con una scrollata di spalle Maxwell si alzò e lasciò la stanza. Ascoltando il regista parlare gli erano venute in mente alcune idee e la cosa che più desiderava, in quel momento, era rifugiarsi nel proprio studio e mettersi a scrivere al computer.

Elizabeth serrò la mascella e si costrinse a proseguire senza rallentare il passo. Ma avrebbe tanto voluto fermarsi per affrontare la donna il cui commento, appena mormorato, era tuttavia giunto alle sue orecchie. Sapeva che non sarebbe servito a nulla, che quelle voci avrebbero continuato a circolare anche se avesse protestato la propria innocenza con tutto il fiato che aveva in gola, ciononostante rispondere per le rime le avrebbe di sicuro permesso di sfogare un po’ della rabbia che le scorreva in corpo. Il guaio era che il regista l’aveva mandata a chiamare e non aveva il tempo di fermarsi a discutere. Non subito, perlomeno... Con un gesto secco ripiegò davanti a sé un lembo della lunga gonna che le avvolgeva le gambe e raddrizzò il collo e le spalle. Lei non era andata a letto con nessuno per avere la parte della protagonista! Riteneva di aver lavorato sodo e mostrato la propria competenza e che solo quelli fossero i motivi per cui le era stata assegnata. Non avrebbe dovuto interessarle che gli altri pensassero diversamente, tuttavia il sapore amaro dell’orgoglio ferito le bruciava da morire. Si era sempre comportata onestamente e i suoi amici lo sapevano. Solo questo aveva importanza. Però... la verità era che temeva che... che lui sentisse quelle dicerie e le credesse vere. Non la conosceva abbastanza, o meglio, non la conosceva affatto, e forse avrebbe potuto dubitare della sua integrità. E questo l’avrebbe ferita più di ogni altra cosa. Fu con un enorme sforzo che raggiunse il punto in cui Gregory Halford la stava aspettando e chiuse la mente a tutto ciò che non fossero le parole dell’uomo. Avendo già lavorato insieme le riusciva facile seguire le sue direttive, comprendere ciò che voleva da lei. In sua presenza si sentiva protetta, le sembrava quasi un secondo padre, e sentiva che avrebbe potuto aiutarla moltissimo. Aveva ancora così tanto da imparare...
Il personaggio di Mary Sutton era molto affascinante. Una giovane donna, poco più che una ragazzina, che aveva dovuto lottare per la sopravvivenza sua e del figlioletto all’interno di una piccola comunità nei territori di frontiera, da cui era stata inizialmente respinta perché il bimbo era il frutto della relazione che aveva avuto con un guerriero pellerossa, lo stesso che l’aveva rapita durante un attacco alla carovana con cui viaggiava insieme alla sua famiglia. La forza di volontà dimostrata da Mary nel costringere l’intera popolazione di quel paesino ad accettare il fatto che lei fosse un essere umano come gli altri e non una persona indegna di vivere solo perché aveva amato un indiano, la sua grinta, il suo carattere indomabile, gliela facevano sentire vicina. Anche lei avrebbe voluto essere in grado di mettere a tacere le malelingue con la semplice dimostrazione dell’innegabile superiorità del proprio coraggio, e invece provava solo l’impulso di prendere a schiaffi tutti quelli che, dietro le sue spalle, l’accusavano di essere un’intrigante puttanella. Sapeva che era soltanto invidia perché, per la quarta volta in poco tempo, girava un film per la Antar, il secondo con la sceneggiatura di ZOA, ma ciò non era sufficiente a calmarla.
Eileen, che spesso era testimone dei suoi aspri sfoghi, faceva del suo meglio per consolarla, tuttavia, non appena lasciava il set, sentiva l’amarezza sopraffarla. Che senso aveva, si domandava, continuare a fingere di non sapere quel che dicevano di lei? In maggioranza gli attori, per non parlare del personale dello staff tecnico, erano amichevoli, simpatici, però c’erano quelle due donne che, a quanto pareva, non la sopportavano. Era sciocco da parte sua dar loro tanto peso, se ne rendeva perfettamente conto, ciononostante non riusciva a farne a meno.
Non ne aveva mai parlato con Andrea, anche se sentiva la sua curiosità. Come spiegare, dopo un difficile inizio, tutti quegli ingaggi, gran parte dei quali per produzioni della Antar Films? A dire il vero se lo domandava pure lei. C’era dietro Maxwell Evans, oppure si trattava solo di una coincidenza? E comunque, perché Evans avrebbe dovuto aiutarla? No, doveva trattarsi di semplici coincidenze... Erano trascorsi due anni da quando Eileen lo aveva soccorso in strada, e da allora non era più capitato che si trovassero faccia a faccia. E, con suo grande imbarazzo, le dispiaceva da morire. Voleva rivederlo, voleva toccarlo, voleva averlo vicino. Le aveva lasciato un segno indelebile nel cuore, anche se lo aveva capito solo in quel momento. Adesso che aveva scoperto che c’era qualcuno che dubitava della sua correttezza sentiva il disperato di bisogno di parlargli, di dirgli che non doveva credere a quelle parole, che lei meritava rispetto, che non aveva tradito la sua fiducia. Ma come poteva farlo senza alimentare in questo modo le chiacchiere? Abbassò lo sguardo sulle mani che ancora serravano il tessuto dai colori tenui dell’abito che indossava. Mary Sutton, nel suo inimitabile stile, si era conquistata il diritto di vivere la propria vita, e lei non poteva essere da meno di un personaggio fittizio! Trasse un respiro profondo e alzò gli occhi fino ad incontrare quelli grigioverdi di Halford, che con un sorriso le diede alcune indicazioni precise.
Poi l’uomo la fissò attento. - Ti senti bene? - le chiese paternamente.
Dopo una brevissima esitazione lei annuì. - Sì, grazie. - rispose con sincerità. Ed era vero. Aveva deciso di agire, e ciò l’aveva rasserenata come nient’altro avrebbe potuto fare.

- La signorina Parker -
“- Falla entrare -”
Nell’udire la voce dell’uomo, sia pure filtrata dal citofono, Elizabeth sentì l’agitazione crescerle dentro. Non voleva tornare indietro, dichiarare la sconfitta, ma varcare la soglia di quell’ufficio si stava rivelando terribilmente difficile. Sentì i battiti del cuore farsi sempre più rapidi e la gola serrarsi. Dandosi della stupida, si scostò i capelli dal viso con dita gelide per l’ansia e obbedì al gesto di invito della segretaria.
Maxwell Evans era lì, in piedi davanti alla scrivania, con quell’aria sexy e sbarazzina che ben ricordava, una lunga frangia a coprirgli la fronte spaziosa dando maggior risalto alla sfumatura color ambra dei suoi occhi.
- Salve. - Si tese verso di lei e le strinse la mano. - Cosa posso fare per te? -
La ragazza provò un curioso senso di perdita quando le loro dita si separarono. - Io... avevo bisogno di parlarle... C’è... - Si schiarì la gola. - C’è della gente che pensa che io sia andata a letto con qualcuno per ottenere i ruoli che ho interpretato. Volevo assicurarle che non è affatto vero - disse in fretta, prima che il coraggio l’abbandonasse.
Maxwell la fissò senza espressione. Era al corrente di quelle voci, ma sapeva pure che non era quel tipo di donna. Si sentì dispiaciuto che avesse sentito il bisogno di difendersi. Evidentemente aveva sentito i pettegolezzi e ne era rimasta ferita. - Non l’ho mai creduto. So che sei una persona molto corretta. Non era necessario che venissi a dirmelo... -
- Invece ci tenevo. Volevo che non avesse dubbi sulla mia serietà, dato che lavoro per lei. -
- Non ne ho mai avuti - rispose, sorprendendola per la dolcezza con cui pronunciò quelle parole.
- Grazie. - bisbigliò dopo qualche secondo, terribilmente a disagio.
- Ti va di sfidare Hollywood? -
Le sorrideva, e lei lo guardò senza capire.
- Posso invitarti a cena? -
- Oh! - Sorrise a sua volta. - Sì, certo! -
- So dove abiti. Sarò da te alle sette. -
- Ok. A dopo -
- A dopo. - L’accompagnò fino alla porta, che richiuse subito dietro di sé. Era una strana sensazione quella che stava provando. Aveva voglia di rivedere Elizabeth Parker, di parlare con lei, di stare in sua compagnia. Sentiva che era diversissima da Tess, e desiderava conoscerla. Una conoscenza che doveva rimanere superficiale, ma andava bene anche così. A vent’anni, il fascino e la sensibilità di Elizabeth si erano accresciuti rendendola una donna molto attraente. Era certo che quella serata sarebbe stata davvero piacevole...

Le continue domande di Eileen, i suoi suggerimenti per una corretta applicazione dei cosmetici, l’offerta dei pochi gioielli preziosi che possedeva, la esasperarono e divertirono allo stesso tempo. - Ascolta, è solo una cena, non un ballo di gala! -
- Non importa. E’ la vostra prima uscita insieme, quindi devi essere perfetta! - Le porse un paio di orecchini costituiti da una singola perla color crema. - Che ne dici di questi? -
- Va bene - cedette.
Indossava un semplice abito rosso scuro con la scollatura a V e sorretto da un’unica bretellina che passava dietro il collo. Una stola dello stesso colore, le scarpe col tacco alto e una pochette neri completavano il tutto.
- Fatti vedere! -
Più che un invito suonò come un’ingiunzione, e lei rise mentre si lasciava ammirare.
L’amica la controllò con cura, dal sottile orologio che aveva al polso alla catenina d’oro che poggiava delicatamente sull’incavo del collo. - Anelli? -
- Giusto! - Si affrettò ad infilare il semplice cerchio adornato da un rubino, ricordo di sua nonna Claudia, poi sorrise. - Posso andare? -
- Adesso sì. -
Sobbalzarono nel sentire il suono del campanello, e Eileen la sospinse ridendo attraverso il soggiorno. - Ha spaccato il secondo! Mi raccomando: divertiti! -
Nel vedere il suo cavaliere, elegantissimo pur essendo vestito in maniera sportiva, camicia candida fuori dei pantaloni e giacca scura lasciata aperta, sentì il calore salirle alle guance. - Ciao. - Sarebbe stato sciocco continuare a dargli del lei, data la situazione...
- Ciao. - Le porse galantemente il braccio e la condusse fino alla propria vettura. - Spero ti piaccia la cucina messicana. -
- Sì, molto. - Avrebbe risposto di sì a qualunque cosa, ma amava davvero quel tipo di cucina e scoprire che avevano gli stessi gusti in fatto di cibo la rincuorò. Si sentì più sicura di sé, più tranquilla, e si affidò completamente a lui.
Il ristorante era curato fin nei minimi dettagli e, pur affollato, offriva privacy e relax coi suoi tavoli seminascosti tra le innumerevoli piante che lo decoravano.
Diversi sguardi curiosi seguirono la coppia mentre si dirigeva al proprio posto ma né Elizabeth né Maxwell vi prestarono attenzione. Che la gente pensasse quel che voleva, loro erano lì soltanto per godere della reciproca compagnia...
Dopo la cena fecero un lungo giro in macchina, fino ad arrivare in uno dei tanti luoghi da cui si poteva ammirare l’immensa distesa di luci della città di Los Angeles.
Continuarono a conversare amichevolmente, tuttavia la ragazza poté percepire la barriera che, fino a quel momento inavvertita, in realtà era sempre stata presente. Perplessa, si girò così da poterlo guardare in viso. - C’è qualcosa che non va? - chiese sottovoce.
- No, perché? -
- Sei diventato... distante... -
- Scusami. Si è fatto tardi, vuoi che ti riporti a casa? -
Scosse lentamente la testa. - No - mormorò. Poi, con delicatezza, sollevò le mani e le pose sulle sue guance. Sentì che lui si tirava indietro irrigidendosi, ma ormai era troppo tardi per cambiare idea quindi si alzò in punta di piedi e gli sfiorò le labbra in un bacio leggerissimo.
Rimase immobile a spiare la sua reazione, trattenendo il fiato intimorita, e si sentì morire quando lo sentì prenderle un gomito e guidarla verso l’auto. - Andiamo, è ora di rientrare. - fu tutto ciò che le disse.
Avrebbe voluto piangere, invece annuì in silenzio e batté più volte le palpebre per trattenere le lacrime. Aveva rovinato tutto. Adesso si sarebbe convinto che quel che dicevano di lei era vero. Perché, altrimenti, avrebbe accettato il suo invito ad uscire? Ma non era così, non era così... Desiderò poter tornare indietro, cancellare quel che aveva fatto, e strinse le labbra per non lasciarsi sfuggire un singhiozzo. Si era comportata come una stupida, e non desiderava altro che sparire dalla faccia della terra.
Quando furono davanti all’edificio dove si trovava l’appartamento di Elizabeth, Maxwell spense il motore e si volse a guardarla, un’espressione indecifrabile sul bel volto. - Buona notte - disse sommesso. E inaspettatamente le sfiorò il viso col dorso della mano.
Sentendo che stava per crollare, la ragazza sussurrò a sua volta buona notte e quasi fuggì dalla vettura.
Eileen dormiva già da un pezzo e non la sentì rientrare, con suo grande sollievo. Non avrebbe sopportato di subire il suo amichevole interrogatorio. Non voleva parlare di quello che era successo. Non voleva ricordare il modo in cui lui aveva accolto il suo bacio. Non voleva pensare più a niente.
L’indomani, per fortuna, Eileen si alzò prestissimo per andare all’università ed ebbero appena il tempo di scambiarsi un rapido saluto, e la giornata sul set fu talmente impegnativa da richiedere tutta la sua capacità di concentrazione rendendole impossibile pensare ad altro.
Nei giorni che seguirono non ebbe occasione di vedere Maxwell, il che non era una novità dato che di rado si presentava agli studios mentre erano in corso le riprese, ciononostante in un angolino molto ben nascosto del suo cuore aveva sperato di incontrarlo di nuovo per avere la possibilità di capire se la disprezzasse o meno. Era l’unica cosa che desiderava. Poi, lo sapeva, non avrebbe accettato altri ruoli in film prodotti da lui.

Il lavoro lo aveva letteralmente sommerso, lasciandogli a malapena il tempo di respirare. Questo, però, non gli aveva impedito di riandare ogni tanto a quegli incredibili momenti sulla strada, quando lei lo aveva baciato. Ancora adesso non riusciva a decidere cosa avesse prevalso, se la sorpresa, la tensione o... il piacere. Sì, non poteva negare che quel fugace contatto lo avesse colpito profondamente, ma anni di condizionamento lo avevano portato a sopprimere il proprio desiderio. Con Tess non era stato necessario, lei era diversa. Era come lui. Elizabeth, invece... No, non era possibile. Doveva evitare qualsiasi rapporto tra di loro. Non poteva coinvolgerla, non voleva ferirla più di quanto avesse già fatto. Poteva solo continuare a vigilare da una distanza di sicurezza, stando attento ad evitare che lei o altri se ne accorgessero. Purtroppo c’era sempre della gente pronta a stravolgere il significato di un gesto gentile e a gettare fango su chiunque capitasse a tiro...
L’idea lo tormentava eppure non poteva fare altrimenti. Nei lunghi mesi trascorsi da quando l’aveva vista per la prima volta sul set di Halford era rimasto colpito da lei, e a poco a poco l’interesse che provava nei suoi confronti era cresciuto fino a trasformarsi in qualcosa che sapeva non avrebbe mai potuto essere. Tuttavia le cose avrebbero potuto andare avanti in quel modo per un tempo indefinito se soltanto... Ma era stata colpa sua. Lui l’aveva invitata a cena, lui l’aveva portata in quel posto isolato, lui aveva creato l’illusione. Non c’era punizione abbastanza dura per il modo in cui si era comportato...
Con un sospiro chiuse gli occhi e mosse piano le spalle per dare sollievo ai muscoli contratti poi controllò di avere in tasca il palmare e lasciò l’ufficio. Erano le due del mattino, e all’alba lo aspettava l’aereo che lo avrebbe portato in Arizona. Prima di trasferire il set per poter iniziare a girare gli esterni doveva incontrare un’ultima volta lo staff tecnico del dipartimento municipale. La città fantasma continuava ad essere molto richiesta e il sindaco di Tucson era piuttosto pignolo per quel che concerneva l’affitto alle troupes cinematografiche. Quella riunione serviva a definire gli accordi finali dopodiché, nell’arco di pochi giorni, tutto sarebbe stato pronto per accogliere gli attori.
Si sentiva stanco, sì, ma allontanarsi per qualche ora da Los Angeles gli avrebbe fatto bene e quella era un’ottima scusa.

- Sei sicura che non ci saranno altre serate? - insistette Eileen.
Elizabeth scosse il capo desolatamente. - Ho combinato un enorme pasticcio, l’ho messo in imbarazzo... ho messo tutti e due in imbarazzo... - si corresse. Era rannicchiata sul divano con le braccia strette intorno alle ginocchia, lo sguardo fisso nel vuoto. - Dopo il bel discorsetto che gli avevo fatto... Dio, che stupida... -
- Beh, non è che tu lo abbia baciato per ottenere un ruolo in uno dei suoi film! Casomai, lo hai fatto dopo... -
- Credimi, non mi è affatto di conforto - mormorò.
- Il fatto che non ti abbia licenziato non significa niente, per te? - cercò di rincuorarla l’amica.
- Sono la protagonista. Sarebbe troppo complicato mandarmi via adesso e trovare un’altra attrice, tutto qui. -
- L’hai più visto? -
- No, e domani pomeriggio ci trasferiamo a Old Tucson. -
La mestizia con cui pronunciò quelle parole le fece capire quanto le costasse andarsene. Elizabeth non lo aveva mai detto ma ormai era perfettamente chiaro che fosse innamorata persa di Maxwell Evans. Il guaio era che, a quanto sembrava, lui era ben lungi dal provare la stessa cosa. Forse faceva bene a lasciar perdere. Niente poteva essere più inutile di un amore senza speranza...
- Mi piacerebbe assistere alle riprese. Pensi che possa venire a trovarti? -
- Avvertirò la sicurezza. Fammi sapere quando arrivi. -
- Fantastico! Dai, va’ a dormire, qui metto a posto io! - Così dicendo la prese per i polsi e tirò fino a costringerla ad alzarsi. - E non preoccuparti per quell’uomo. E’ abbastanza cresciuto da saper badare a se stesso! -
- Io non mi preoccupo per lui! - fu la veemente protesta.
- Ma certo - commentò l’altra con tono piatto.
Sbuffando Elizabeth si diresse nella propria stanza. “No, non mi preoccupo per lui. Mi preoccupo per quel che lui pensa di me. E’ molto diverso...” pensò risentita. Eileen non riusciva a capire. L’idea che Maxwell potesse ritenerla capace di andare a letto con qualcuno pur di conquistarne il favore la faceva star male, e non sapeva cosa fare per rimediare. Mentre si cambiava per la notte pensò che prima di tuttto doveva finire di girare quel benedetto film, dopodiché avrebbe riflettuto sulla mossa successiva.

In quei territori desertici l’arrivo della primavera portava un discreto aumento della temperatura, perlomeno durante il giorno, ed Elizabeth si passò un fazzoletto dietro il collo per detergere il sudore. La troupe aveva fatto un ottimo lavoro nel rendere di nuovo viva l’antica città di frontiera. Le costruzioni di legno, dal saloon all’ufficio dello sceriffo fino alle stalle in fondo alla via, erano state completate con un adeguato mobilio e gli attori vi si muovevano disinvolti.
Halford era molto soddisfatto del lavoro che stavano facendo e ciò si rifletteva nell’atmosfera distesa che regnava ovunque.
Eileen era arrivata molto presto e si era sistemata nel punto indicatole da un tecnico, dove non sarebbe stata d’impaccio a nessuno. All’inizio si era divertita ad osservare il via vai delle comparse, l’attività frenetica che seguiva ogni stop, quando sembrava che tutto venisse smontato e spostato altrove, l’incredibile naturalezza con cui gli attori recitavano pur essendo circondati da decine di persone, ma poi era subentrata la noia. Ogni scena veniva ripetuta non meno di tre volte, ed era praticamente impossibile seguire lo sviluppo della storia perché sembrava di essere nel bel mezzo di un puzzle gigante composto da quadri viventi. Forse, a ripensarci, il mestiere dell’attore non era poi così entusiasmante... Quando il sole fu alto nel cielo qualcuno diede il segnale della pausa pranzo, e solo allora realizzò quanto fosse affamata. Si affrettò quindi ad estrarre alcuni sandwiches ed una bottiglietta di limonata dalla borsa termica che aveva portato con sé poi, con sua grande sorpresa, si vide raggiungere dall’amica, a sua volta rifornita di panini e acqua. Mangiarono e chiacchierarono piacevolmente insieme per alcuni minuti finché l’addetto al ciack, su ordine del regista, richiamò tutti all’ordine.
- Ci vediamo più tardi, se vuoi. A che ora parte il pullman per Phoenix? -
- Alle sei, e l’aereo è a mezzanotte meno un quarto. Per fortuna domani ho lezione tardi, altrimenti dubito che sarei arrivata puntuale all’università... -
- Scusami, adesso devo proprio scappare. - Con un sorriso la ragazza si mise in piedi e, dopo aver scrollato via le briciole dal vestito, si diresse veloce verso il luogo del raduno.
L’altra la osservò allontanarsi pensierosa. Elizabeth sembrava serena, completamente dimentica delle angosce che l’avevano torturata solo una settimana prima. Ma era proprio così? Oppure era il fatto di trovarsi in un ambiente diverso, dove Maxwell Evans non aveva posto? Comunque fosse, stava molto meglio di quando era partita da Los Angeles e quella era l’unica cosa che contasse, e nel lasciarsi la città alle spalle, alcune ore più tardi, si sentì contenta per lei. Forse sarebbe riuscita a superare quella storia più in fretta di quanto avesse temuto...

- Non riesco ancora a crederci... - Isabel si guardò intorno osservando con divertito distacco i lussuosi gioielli e gli elegantissimi abiti delle donne che affollavano la grande sala. - Zoa che si concede alle folle... -
Il marito si curvò a deporrle un piccolo bacio sotto la nuca. - Non è proprio così, dato che nessuno conosce la sua identità. -
- Non fa niente. Quello che è davvero importante è che Maxwell sia presente alla prima di un suo film. Non lo aveva mai fatto, finora. - S’interruppe di colpo nel vedere il fratello. Un sorriso smagliante le incurvò le labbra mentre quasi correva da lui. Lo abbracciò forte e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, cui lui rispose scuotendo piano la testa. - ...della Antar Films. -
Fu tutto ciò che Michael Guerin riuscì a sentire, ma fu sufficiente per strappargli una risatina soffocata. - Ah, ecco, mi sembrava strano! -
Nell’udire la sua voce Maxwell si staccò dalla sorella e si volse per salutarlo con affetto. - Mi fa piacere che siate potuti venire nonostante lo scarso preavviso. -
- Non saremmo mancati neppure se ce lo avessi detto stamattina. Isabel non credeva ai suoi occhi quando è arrivato l’invito... -
La giovane donna passò distrattamente la punta delle dita sul tessuto lucente dell’abito che indossava per eliminare alcune invisibili pieghe. - Come mai questa decisione? Anzi, no, non dirmelo, non m’importa saperlo. Sono solo contenta di essere qui e vederti nel tuo elemento. Fino adesso avevo semplicemente letto il nome della tua casa di produzione oppure il tuo acronimo... -
- Halford ha insistito molto perché facessi uno strappo alla regola. -
- La tua regola - sottolineò Michael.
Lui si strinse nelle spalle.
- Non badargli - disse Isabel lanciando un’occhiata di fuoco al marito. Poi, dato che avevano cominciato ad abbassare le luci, si protese a baciare il fratello su una guancia. - Va’ a goderti il tuo momento di gloria. - E, preso Michael sottobraccio, si diresse verso i posti assegnatigli.
Maxwell sentì un’ondata di calore travolgerlo. Era felice per la loro presenza. Amava molto Isabel, e Michael era più di un amico. Avrebbe voluto presentare loro Elizabeth ma sapeva che lei non avrebbe apprezzato il gesto. Era ancora estremamente a disagio quando le stava vicino, poteva sentirlo benissimo.

Il ricevimento che seguì la proiezione in sala fu splendido. Il ricco buffet, la musica che faceva da sottofondo discreto, la conversazione animata, tutto contribuì a rendere la serata indimenticabile.
C’erano tutti gli attori tranne il giovanissimo Rick Thunder, che a quell’ora dormiva già da un pezzo nel suo lettino, il regista e parecchi membri della troupe. Maxwell aveva cercato di rimanere in disparte per quanto gli era stato possibile, godendosi la compagnia della sorella e del cognato, poi si era accomiatato dal suo staff per scortarli fino all’albergo in cui alloggiavano.
Quando infine si ritirò nel proprio appartamento scoprì di non riuscire a prendere sonno. Il ricordo dei grandi occhi scuri ed espressivi di Elizabeth continuava a perseguitarlo. Ma non poteva farci niente. O avrebbe osato correre il rischio di lasciarla avvicinare?
Isabel e Michael si trattennero a Los Angeles ancora un paio di giorni dopodiché tornarono a Barcellona, in Spagna, dove vivevano.
Isabel avrebbe voluto rimanere più a lungo perché si era accorta che qualcosa rodeva il fratello, tuttavia lui aveva scelto di non parlarne e dunque non aveva potuto far altro che ritirarsi in buon ordine. - Chiamami quando hai voglia di fare due chiacchiere, ok? -
- Certo, sorellina. - L’aveva abbracciata, poi aveva fatto lo stesso con Michael. - Grazie per essere venuti... -
- Grazie per averci invitati. -
Lei gli strinse affettuosamente una mano. - Cerca di star bene. -
- Faccio del mio meglio -
- Lo so. -
Una volta fuori portata d’udito il marito fece una smorfia. - Su, cosa c’è? -
- Ho l’impressione che stia soffrendo. Ricordi quando morirono Tess e Leanna? -
L’uomo rabbrividì. - Pensi che sia di nuovo in crisi? -
- Non come i primi tempi, però... non so.. non sono sicura... -
- Forse ha incontrato una ragazza e teme che... - Non finì la frase. Non ce n’era bisogno.
- Non può rimanere solo per il resto della vita - sospirò Isabel, - ma non c’è nessun’altra che possa prendere il posto di Tess. -
Nel lasciare l’aeroporto Maxwell si infilò le mani in tasca. A testa bassa affrontò le folate di vento gelido che improvvisamente spazzarono l’immenso parcheggio.

Pioveva a dirotto quando arrivò davanti al palazzo che ospitava gli uffici della Antar Films. L’ombrello e l’impermeabile erano letteralmente intrisi d’acqua e la giovane fece un sorriso di scusa agli altri occupanti dell’ascensore.
Giunta al diciottesimo piano inspirò per farsi coraggio e attraversò il corridoio fino al doppio battente in legno con la targa della casa di produzione.
- Buon giorno, vorrei vedere il signor Evans. -
La segretaria la scrutò con curiosità. - Ha un appuntamento, signorina Parker? -
- No, ma avrei urgenza di parlargli. E’ in sede? -
- Sì, è in riunione. Desidera aspettare? -
Elizabeth si morse il labbro inferiore. Era stata una vera prova di forza recarsi fin lì, e l’idea di una lunga attesa non le sorrideva affatto. Provò l’impulso di fare dietrofront e andarsene senza che lui sapesse della sua visita. Rivolse uno sguardo teso alla segretaria. Poteva chiederle di non dire che era passata? Avrebbe accettato? Oppure glielo avrebbe riferito comunque? Maledizione, perché non aveva seguito il proprio istinto? Maxwell Evans non era interessato e glielo aveva fatto capire chiaramente! Cosa doveva fare, gridarlo al mondo intero perché lei lo accettasse?
Incerta, chinò lo sguardo sui pantaloni fradici. Non era neppure presentabile...
- Non dovrebbe volerci ancora molto. Posso portarle qualcosa di caldo da bere nel frattempo? -
- La ringrazio, ma... no, non si disturbi. - E, ancora indecisa, andò a sedersi su una poltroncina dall’aria molto comoda.
L’altra sorrise e tornò al proprio lavoro.
Una decina di minuti più tardi una luce verde apparve sul display del telefono e la donna si alzò.
Comprendendo che la riunione doveva essere terminata, la ragazza si alzò a sua volta. Se voleva andarsene quello era il momento giusto per farlo. Altrimenti doveva restare e... e cosa? Combattere? si chiese con amara ironia.
- Elizabeth?! -
La voce sorpresa di lui la fece trasalire. Alzò gli occhi ad incontrare i suoi, ignara delle persone che le passavano accanto.
- Grazie, Reyna - congedò la segretaria mentre con la mano faceva segno alla giovane attrice di entrare.
Quando furono soli, Elizabeth accennò un sorriso imbarazzato. - Speravo che adesso sarebbe stato più facile parlarne, dato che il mio lavoro con la Antar Films è finito, invece... - Senza volerlo fece scivolare lo sguardo sul suo corpo snello e muscoloso avvolto in una t-shirt bianca con le maniche corte e i blue jeans. Era semplicemente bellissimo, e di nuovo provò il desiderio di scappare. Come poteva pensare di...?
- Dammi l’impermeabile, è zuppo... -
Grata per quel rinvio si sfilò l’indumento, trattenendo il respiro quando lui le sfiorò le spalle nel prenderglielo.
- Io... ti sono grata per avermi offerto la possibilità di interpretare un ruolo da protagonista. E’ stata un’esperienza molto importante e... e mi ha dato modo di crescere professionalmente. - Si schiarì la voce - Non ho mai chiesto favori, non mi sono mai venduta... anche se... posso averti dato un’impressione diversa. - Cercò di nuovo i suoi occhi. - Volevo solo che tu sapessi che quella sera... non ti ho baciato per ottenere qualcosa da te. - Sentì il rossore salirle alle guance. - Non è stato neppure un vero bacio... Non... mi hai permesso... Ti chiedo scusa. -
Maxwell la fissò in silenzio per alcuni interminabili secondi poi scosse la testa. - Non era necessario. -
- Lo era per me. Per poter chiudere definitivamente - Fece un piccolo passo indietro. - Fa... fa male... - bisbigliò.
- Cosa? - chiese, vedendo che lei non aggiungeva altro.
- Lasciarti andare - rispose con un sorriso triste.
La luce dolente del suo sguardo gli serrò il cuore in una morsa. Avrebbe voluto poterla cancellare ma, consapevole di esserne la causa, non sapeva come fare.
Lottando per riguadagnare la compostezza Elizabeth si irrigidì. Il suo viso si fece pallido e teso. Aveva bisogno di quell’ultima conferma, anche se non sarebbe stato semplice chiedere... Tremò dentro di sé. - Non... non è per quello che sono, vero? Voglio dire, un’attrice. - Deglutì a fatica. - Sarebbe stato lo stesso anche se non avessi lavorato nel mondo dello spettacolo. E’ così, ho ragione? -
L’assoluta mancanza di reazione da parte di lui fu una risposta più che sufficiente. - Scusami per averti disturbato. - disse con voce roca.
Quel che le stava facendo era orribile ma non aveva altra scelta. Non poteva permettere che entrasse nella sua vita, non poteva permettere che scoprisse il suo segreto, non poteva permettere a se stesso di cedere al richiamo di quegli occhi vellutati. “Amarti è facile, ma farti del male lo è ancora di più...” pensò rammaricato.
- Bene! Allora, dato che non ho niente da perdere... - Sconvolta dalla sensazione di annientamento che la stava per sopraffare, fece un passo in avanti. - Permetti? - E senza dargli il tempo di rispondere gli circondò il viso con le mani e lo baciò.
Lo aveva di nuovo colto di sorpresa. Santo cielo, era proprio un idiota! Ma non seppe resistere al calore della sua bocca, e con un gemito soffocato le infilò le dita tra i capelli e ricambiò il bacio.
La risposta appassionata di Maxwell cancellò ogni traccia di autocontrollo. Prima di realizzare quel che stava facendo, fece scivolare le mani sotto la sua maglietta ed accarezzò la pelle liscia e tiepida della schiena.
Incapace di pensare razionalmente, il giovane premette contro di sé quel corpo minuto, aspirando con delizia il tenue profumo dei lunghi capelli di seta. Baciare Elizabeth era come essere in paradiso, e non smise finché sentì le sue emozioni. “No! No, non posso...” Riaprì gli occhi e si trovò a fissare in quelli brillanti di lei. - Liz, io non... - cercò di dire, ma la ragazza gli mise un dito sulla bocca sorridendo imbarazzata. - Shh... Lo so. Però è stato bello. -
- Non è per te. E’ per... - Scosse la testa - per via di me, di quello che sono. Tu sei una ragazza meravigliosa e meriti di più dalla vita di quel poco che posso darti io... -
- Ma io voglio te, Max. Solo... te... - lo implorò.
- Non è possibile, cara. Lo vorrei, non sai quanto lo vorrei, però... - Le scostò una ciocca di capelli dal volto. - Non posso. -
- Perché? - insisté.
“Perché sono un alieno, perché il mio vero nome è Zan e sono originario di Antar, un pianeta che non si trova neppure in questa galassia! Maledizione, Liz, non posso amare un essere umano! Tess era la mia vita, l’unica che potesse stare al mio fianco, perché era come me! Vorrei che tu potessi prendere il suo posto, ma non è possibile!”
Vedendo la sofferenza distorcergli i lineamenti Elizabeth si sentì in colpa. - Perdonami, non volevo... - Gli accarezzò il viso. - Troverai la donna giusta, prima o poi, ne sono sicura. -
“Il destino mi ha concesso una sola compagna, e l’ho perduta.”
- Max... - Non c’era altro che potesse dire. Con fare rassegnato si mise di nuovo l’impermeabile, raccolse la borsetta e l’ombrello e se ne andò.
Il rumore della porta che si chiudeva rimbombò a lungo nella testa di Maxwell, anche se in realtà lo scatto della maniglia era stato quasi impercettibile. Il senso di vuoto che stava provando era sopraggiunto così all’improvviso da lasciarlo stordito. Il respiro gli usciva affannoso dalle labbra socchiuse. Il destino non aveva alcun diritto di esigere quel prezzo da lui... Però il destino non era immutabile, poteva essere cambiato. Bastava volerlo... volerlo davvero... Si coprì il volto con le mani. Ma aveva il diritto di mettere a repentaglio le vite di Isabel e Michael? Perché prima o poi, se fossero rimasti insieme, Liz avrebbe scoperto la verità. Non era sempre in grado di controllare i poteri di cui era dotato, proprio com’era successo pochi minuti prima mentre la baciava. Che avrebbe fatto quando si fossero connessi? Sapeva che succedeva nei momenti di maggiore coinvolgimento, e se mai avessero iniziato una relazione era inevitabile che... Scosse con violenza la testa. No, non poteva farlo! Con un singhiozzo spezzato crollò in ginocchio. “Liz...”

Non c’erano taxi in vista ma, se anche ci fossero stati, lei non se ne sarebbe accorta. Tutto ciò cui riusciva a pensare era quel bacio, la solidità dei muscoli sotto le sue dita, la pressione del suo corpo quando l’aveva stretta a sé. Liz. Nessuno l’aveva mai chiamata così, nemmeno i suoi genitori. Sospirò. Provava qualcosa per lei, era chiaro come il sole, ma allora perché continuava a respingerla?
La pioggia non accennava a diminuire, e ad un certo punto decise di averne abbastanza. Doveva rispettare la sua volontà, per quanto male le facesse, e non la consolava sapere che neppure per lui era stata una scelta facile. “Addio, Max...”

Elizabeth spalancò gli occhi incredula.
- Ciao. -
- Ciao - La voce le uscì a fatica. Non si sarebbe mai aspettata di rivederlo lì, sulla soglia del proprio appartamento...
- Ti va di uscire a fare due passi? Io... vorrei parlarti. -
- Certo! - Corse in camera a prendere un golfino poi bussò alla porta del bagno. - Eileen, esco con Maxwell. Non so a che ora rientrerò - disse piano perché soltanto l’amica la sentisse.
“ Cosa?!? -”
- Hai capito bene! - Ridacchiando tornò nell’ingresso e seguì il giovane fino alla sua vettura.
- Lo so a che stai pensando - mormorò ad un tratto mentre le apriva lo sportello.
- Ah sì? E sarebbe? - lo stuzzicò lei.
- Che sono contraddittorio, incapace di decidere e insensibile ai sentimenti altrui. Ho indovinato? -
- Solo in parte. Penso che... che tu abbia un motivo ben preciso per cui non riesci a decidere se mi vuoi o no. -
Era una semplice constatazione, fatta con tono tranquillo, ma lo fece sentire terribilmente in colpa. - Mi dispiace. -
- Non importa. Sono cose che capitano. - Gli sorrise - Devo dedurre che ora hai raggiunto una decisione definitiva? E’ di questo che volevi parlarmi? -
Annuì, poi fece il giro della macchina e salì dalla parte del guidatore.
- Dove andiamo? - chiese la ragazza ad un tratto, per rompere quel silenzio che stava diventando troppo pesante per i suoi gusti.
- In un posto tranquillo. - La guardò di sfuggita. - Ti darebbe fastidio se andassimo a casa mia? -
- No - Anzi, l’idea la attirava moltissimo. Era curiosa di vedere dove viveva, e soprattutto desiderava stare da sola con lui.
Ci volle meno di mezz’ora per arrivare, ed Elizabeth si sentì subito a proprio agio. L’arredamento era quasi spartano, essenziale, tuttavia l’insieme era molto accogliente. La cucina era piuttosto ampia e vi si accedeva dal soggiorno, poi c’era il salotto con l’angolo studio, dove troneggiavano un computer e la stampante. Davanti a un divano dall’aria comoda c’erano la televisione ed un sofisticato impianto stereo.
Il corridoio era interrotto da una porta a vetri, oltre la quale immaginò dovesse trovarsi la zona notte.
- Posso offrirti qualcosa da bere? -
La voce di Maxwell, inaspettatamente vicina, la fece trasalire. - Sì, grazie. - rispose, e andò a sedersi sul divano. - E’ piacevole, qui... -
Tornò da lei con un vassoio su cui aveva disposto due bicchieri e alcune lattine. - Puoi scegliere fra limonata, aranciata e coca cola. Non sapevo cosa preferissi... - Si accomodò vicino a lei e attese che si fosse servita dopodiché si chinò in avanti, i gomiti sulle cosce e le mani intrecciate. - Ci sono molte cose di me che non sai. Cose che potresti trovare difficili da accettare. - Girò la testa per guardarla negli occhi. - Cose di cui non mi sento ancora di parlarti ma che... che inevitabilmente scoprirai, se noi due... - Fece un sorriso triste. - Cose che potrebbero farti decidere di uscire per sempre dalla mia vita. Per questo ero così combattuto. Lo sono ancora, ad essere sincero, ma... desideravo tanto rivederti... -
La ragazza posò il bicchiere sul tavolino e rimase per qualche istante a fissarlo assorta. - Anch’io desideravo rivederti - confessò. Sollevò il viso verso di lui. - Neppure tu conosci tutto di me. Ci sono alcuni lati del mio carattere che potresti trovare molto sgradevoli, però... penso che valga la pena scoprirlo. Insieme. E’ un salto nel buio per tutti e due. Nessuno di noi conosce davvero l’altro, ed è normale che sia così. Io sono disposta a provarci. E tu? -
Esitò a lungo. Poteva farlo? Poteva rischiare di rivelare tutto se stesso a qualcuno diverso da lui? No, forse la domanda giusta era: si fidava di Elizabeth? Si fidava al punto di credere che, anche se tra loro non avesse funzionato, non lo avrebbe tradito? Aveva sempre pensato a lei come ad una ragazza onesta e sincera. Perché, adesso che doveva decidere se farla diventare parte della propria vita, gli venivano quei dubbi?
All’improvviso seppe la risposta. Perché l’amava, e se le fosse successo qualcosa sarebbe impazzito per il dolore. Non sarebbe stato in grado di superare un altro trauma come quello della morte di Tess... Strinse forte i pugni. Cosa aveva detto, prima? Un salto nel buio... Sì, giusto, ma lo avrebbero fatto insieme. E non era questo che contava? Insieme. Chiuse per un attimo gli occhi. Quando li riaprì lei lo stava fissando con trepidazione. Sorrise, un piccolo sorriso di assenso.

Il chiarore dorato della lampada sul comodino illuminava debolmente la pelle del suo braccio mentre continuava ad accarezzare con dolcezza il dorso di Elizabeth. Era ancora sdraiata su di lui, una mano appoggiata sul suo cuore e l’altra tra i suoi capelli. Liz... Aveva continuato a chiamarla così mentre facevano l’amore, e poteva ancora udire il suono del proprio nome sulle sue labbra, Max, ripetuto all’infinito, gridato con passione quando si erano perduti in un mondo di gioia ed estasi.
Non importava quanto tempo sarebbe durato, dieci anni, oppure cento. Solo la morte li avrebbe separati, e fino ad allora avrebbero vissuto pienamente ogni attimo. Insieme. Sempre.
 

Scritta da Elisa


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