Il Camaleonte Fan Fiction

L'ultimo segreto


RIASSUNTO: seguito del racconto "La tregua". Scoperto il segreto di Catherine, Jarod e Miss Parker, con l’aiuto di Sydney e Broots, lanciano la sfida decisiva contro il Centro e la storia giunge finalmente all’epilogo.

DATA COMPOSIZIONE: ultimato il 24 gennaio 2004

VALUTAZIONE : adatto a tutti

DISCLAIMER
Si ricorda che tutti i diritti del racconto sono di proprietà del sito “Jarod il Camaleonte Italia”, e che tutti i personaggi della serie “Jarod il Camaleonte / The Pretender” utilizzati nel racconto sono di proprietà MTM Productions / 20th Century Fox, e sono utilizzati senza il permesso degli autori e non a fini di lucro.


Era sopravvissuto. Ancora una volta era sfuggito a chi lo voleva fuori gioco, ridotto ad inerme marionetta per sfruttare le sue conoscenze ed impossessarsi di ciò che doveva essere suo.

Idioti a pensare di poterlo fermare! Lui era di nuovo lì, determinato e pronto a tutto pur di arrivare allo scopo.

Oramai i tempi erano maturi…il progetto di Catherine Parker non era più un mistero, ne era certo. Non doveva fare altro che pazientare ancora un po’, restare nell’ombra, nascosto, proprio nell’ultimo luogo al mondo in cui i suoi nemici lo avrebbero cercato, ad aspettare che le uniche persone in grado di farlo svelassero l’ultimo segreto e lo conducessero fino alla lista… solo allora avrebbe finalmente ottenuto ciò che da sempre voleva…il potere.

*             *             *

Da qualche parte nel Delaware – ore 08:00 p.m.

 

La vecchia berlina, dall’aria a dir poco anonima, procedeva alla massima velocità consentita sull’immensa superstrada, illuminata da possenti lampioni che si susseguivano velocemente lungo la corsia di destra, i cui coni di luce colpivano l’abitacolo ad intervalli regolari, quasi tenessero il tempo di un noioso ritmo sincopato.

Le mani ben salde sul volante, lo sguardo concentrato sul fascio luminoso dei fari, Jarod lasciava la sua mente libera di vagare, rincorrendo le note della malinconica ballata rock trasmessa alla radio…

 

Desperado, why don’t you come to your senses?
You been out ridin’ fences for so long now

. . .
Your prison is walking through this world all alone
. . .
Come down from your fences, open the gate
It may be rainin’, but there’s a rainbow above you
You better let somebody love you, before it’s too late…

“E’ strano come certe canzoni inspiegabilmente rispecchino la tua vita, almeno in parte...come se chi le ha scritte sapesse di te, dei demoni contro cui devi combattere...” pensò Jarod piegando le labbra in un sorriso amarognolo. Bé, lui aveva trovato qualcuno che lo amasse, qualcuno che a sua volta amava profondamente, tuttavia era ancora costretto a vivere nella prigione della sua solitudine e quell’arcobaleno, che a volte gli pareva d’intravedere oltre il turbine di  segreti e menzogne che da sempre costellavano il suo cammino, sembrava ogni giorno più lontano.

La sua fuga dal Centro aveva posto fine ad una prigionia che certo non rimpiangeva, ma non era stata che l’inizio di un tormentoso sentiero: una volta libero, era stata la sete di giustizia a consumarlo, il bisogno di rimediare in qualche modo alle nefandezze che la spietata organizzazione aveva compiuto grazie alle sue simulazioni si era poco a poco trasformato in necessità irrinunciabile di proteggere i più deboli, di  aiutare gli altri ad essere felici, forse per poter vivere almeno di riflesso quella gioia che a lui sembrava essere negata…o forse per appagare il suo bisogno di espiazione per quelle colpe che non erano sue, ma per le quali si sentiva responsabile. Diamine era lui il genio! Lui era il soggetto estremamente dotato, quindi era compito suo impedire che certe terribili cose accadessero, punire le ingiustizie, proteggere gli innocenti.

La disperazione ed il senso di colpa che l’attanagliavano quando non riusciva nel suo intento stavano quasi per condurlo alla pazzia, ma poi, sebbene a fatica, aveva capito di non poter salvare il mondo da solo e le sue aspirazioni erano divenute quelle che accomunano tutti gli esseri umani…una casa, una famiglia, una vita serena, un’identità. Sì, proprio così: un’identità. Perché anche se all’inizio era stato interessante, persino divertente, calarsi nei panni di tanti personaggi diversi, oramai non ne poteva più di vivere la vita di persone che lui non sarebbe mai stato. Jarod voleva la sua vita, voleva essere se stesso, ma c’erano ancora troppe cose che non sapeva sul proprio conto.

Era così stanco di lottare, di inseguire una verità che assomigliava sempre più ad un miraggio, che gli si rivelava centellinata in piccoli frammenti, parti di un misterioso puzzle in cui il suo ruolo ancora non era ben definito. Il progetto di Catherine Parker era stato svelato e con esso la vera natura del Centro, ma cosa aveva a che fare lui con tutto questo? Perché lo rivolevano ad ogni costo, come mai per loro riprenderlo era importante a tal punto da continuare a braccarlo invano anche dopo cinque anni dalla sua fuga?

Era stanco…stanco di pensare e ripensare, di lambiccarsi il cervello con interrogativi in apparenza senza risposta, ma mai come in quel momento si era sentito motivato a non arrendersi, anzi aveva una ragione in più per non farlo, perché scoprire tutta la verità e distruggere il Centro significava soprattutto poter finalmente stare accanto alla donna che amava, invece di limitarsi a sognarla.

Anche in quel preciso istante pensava a lei, rivedeva i suoi incredibili occhi blu cielo che lo fissavano ingenui e maliziosi allo stesso tempo, il suo sorriso radioso che le illuminava il volto, l’espressione dura e risoluta con cui nascondeva la sua fragilità. Tutto ciò che desiderava in quel momento era stringerla tra le braccia…e partire con lei verso un altro mondo, un’altra vita…ma ancora non poteva.

Avrebbe tanto voluto riunire la sua famiglia, anziché essere costretto a vedere solo saltuariamente e di nascosto il Maggiore Charles, Emily, Ethan e Jay, il suo giovane clone…e avrebbe voluto riabbracciare sua madre, che ancora lo stava cercando proprio come lui cercava disperatamente lei, ma senza successo. Infatti, dopo quella fugace apparizione a Boston, quasi tre anni prima, Margaret sembrava essere svanita nel nulla. Nemmeno Emily né suo padre avevano più avuto sue notizie, eppure Jarod sentiva che la donna non si era arresa, che come lui seguitava a lottare per vedere la sua famiglia riunita …ed avvertiva anche che si trovava in grave pericolo, ma non poteva far niente per aiutarla, se non continuare a cercare, a sperare…

Dio quanto avrebbe voluto che tutto finisse in quell’istante! Che le sue ardue ricerche si concludessero, che le sue tormentose domande trovassero risposta. Quanto desiderava che il motivo per cui Miss Parker gli aveva lasciato quel messaggio nella mailbox “Rifugio”, chiedendogli di mettersi urgentemente in contatto con lei, fosse dirgli che aveva trovato la lista, che il Centro aveva i giorni contati, che oramai erano liberi…e  magari che aveva persino notizie di sua madre…chissà! Certo Miss Parker doveva essere preoccupata per lui, anzi, doveva avercela a morte con lui, visto che avendo letto il messaggio solo quella mattina, non si faceva vivo con lei da oltre due settimane. Purtroppo non è facile comunicare con l’esterno quando sei rinchiuso in un carcere di massima sicurezza…eh già, perché così aveva passato gli ultimi giorni, impegnato a smascherare un gruppo di secondini che costringevano i prigionieri a battersi in incontri di lotta clandestini, per alimentare un lucroso giro di scommesse illegali. In tal modo avevano causato la morte di un detenuto, cercando poi di farla passare per un incidente. Quel poveretto era sul punto di uscire per buona condotta, era cambiato, aveva messo la testa a posto e desiderava soltanto ritornare al più presto dalla moglie e dalla figlia…e Jarod non poteva certo permettere che quei bastardi la facessero franca, dopo aver distrutto una famiglia che stava per riunirsi.

“Blue Cove” indicava il cartello materializzatosi improvvisamente sul ciglio della strada. Eccolo di nuovo lì, nel luogo dei suoi incubi peggiori, nel punto in cui tutto ebbe inizio e dove tutto forse sarebbe finito. Era estremamente rischioso per lui andarsene a zonzo in quei paraggi, anche se quello era probabilmente l’ultimo angolo di mondo in cui chi gli dava la caccia avrebbe pensato di trovarlo. Tuttavia qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo e per lui sarebbero stati guai seri, ne era consapevole, ma non aveva potuto fare a meno di spingersi fin lì, non si era potuto accontentare di una semplice telefonata. Era troppo forte il desiderio di rivederla, toccarla…stringerla a sé, affondando il viso tra i suoi capelli…sfiorare le sue labbra…

Jarod fermò l’auto davanti all’elegante villetta che ben conosceva: imposte chiuse, luci spente, nessuno in giro. Tutto sembrava tranquillo, poteva attenderla senza pericolo. Erano appena le otto e mezza e Miss Parker avrebbe tardato ancora un paio d’ore almeno prima di rincasare…sarebbe stata dura ingannare il tempo tanto a lungo…

 

Il Centro, Blue Cove – ore 09:45 p.m.

                                                                                                                                                                                                             

Come ogni sera, l’ascensore raggiunse rapidamente il sottolivello 7 e le porte scorrevoli si aprirono silenziose sul vasto parcheggio sotterraneo, illuminato dalla luce diafana ed innaturale di numerose lampade al neon.

Oltrepassando la soglia, Miss Parker rivolse un’occhiata infastidita ad una delle tante telecamere che la seguiva subdola, spiando ogni mossa sua e di chiunque altro si trovasse in quella sorta di prigione. Nuovi e sofisticati dispositivi di sicurezza, eludibili solo con codice, impronta digitale o scansione della retina…quasi raddoppiato il numero degli uomini di sorveglianza al perimetro dell’edificio ed al suo interno…massiccio aumento dei sistemi video a circuito chiuso dotati di microfoni ultrasensibili…mancava soltanto che installassero telecamere persino nelle toilettes…anzi, forse già lo avevano fatto! Da un paio di settimane una strana atmosfera aleggiava nei tetri corridoi del Centro e Miss Parker non aveva certo mancato di notarlo, nonché di chiedere il motivo di un tale spiegamento di forze e di mezzi tecnologici. Le era stato detto di stare tranquilla (…e già questo era bastato a metterla sul chi vive!), che si trattava soltanto di normali precauzioni per evitare nuove intrusioni, come l’ultima di Jarod nell’ufficio di suo padre ma…no, lei sentiva che qualcosa non andava. Mr. Parker e Lyle, dietro la loro solita, ostentata indifferenza, stavano nascondendo qualcosa…qualcosa di grosso, che li preoccupava non poco… ma cosa?! Che qualcuno si fosse accorto delle sue indagini? Eppure aveva preso ogni possibile precauzione, si era mossa con estrema cautela nel cercare la lista in buona parte degli archivi cartacei e magnetici del Centro, si era fatta spiegare da Broots come entrare in un qualsiasi computer via rete senza lasciare tracce, ma aveva tenuto sia lui che Sydney all’oscuro di tutto, come stabilito. Quindi no, era quasi certa che quello smisurato rafforzamento dei sistemi di sicurezza non fosse dovuto alle sue ricerche, peraltro del tutto vane…ma a che cosa allora?!

Miss Parker si ripromise di indagare a fondo, per scoprire quale nuova porcheria stesse bollendo nella pentola del Centro, quindi procedette risoluta verso il suo posto auto, lo sguardo gelido e l’espressione altera di sempre dipinta sul bel volto. Guardandola incedere decisa sui suoi tacchi vertiginosi, fasciata dall’immancabile, raffinatissimo tailleur, nessuno avrebbe potuto immaginare che da qualche mese qualcosa in lei fosse radicalmente cambiato, che nel suo cuore apparentemente di ghiaccio pulsasse invece il calore di un tenero sentimento, di un amore che credeva perduto per sempre, insieme quella felicità che non aveva più provato dopo la morte di sua madre…un amore al quale purtroppo aveva ormai capito di dover rinunciare.

Concedendosi un lungo sospiro carico di sconforto,  si sistemò al volante, mise in moto e si allontanò in tutta fretta da quel luogo che la soffocava fin da quando era venuta al mondo. Quel luogo che si sarebbe sempre insinuato tra lei e Jarod come un’ombra malevola, un subdolo veleno nell’aria, trasformandosi col tempo in ostacolo tangibile, in un muro invalicabile, a dispetto dei sentimenti che provavano…o che credevano di provare l’uno per l’altra. Ci aveva riflettuto a lungo ed aveva dovuto ammetterlo: nonostante desiderasse credere con tutta se stessa alle sue parole, un sottile ma persistente dubbio che Jarod un giorno si sarebbe reso conto di non averla mai veramente amata continuava a tormentarla e quella spada di Damocle appesa sulla testa avrebbe finito per logorare  il tenero, profondo affetto (…amore) che da sempre sentiva per lui. Doveva farsene una ragione: il loro legame, germogliato tra le oscure pareti di quell’inferno, forse…anzi, quasi sicuramente non sarebbe mai nato in circostanze diverse. Il Centro li aveva costretti a crescere insieme, li aveva avvicinati provocando la loro solitudine ed il loro dolore, poi li aveva separati. Aveva portato via loro tutto ciò che di più caro avevano al mondo ed infine li aveva messi uno contro l’altra, inducendo lei a dargli la caccia, a tenerlo lontano dalle persone che amava, obbligando la sua stessa famiglia a separarsi, a fuggire, a nascondersi.

Cose del genere non si potevano certo cancellare con un colpo di spugna: lei stessa non riusciva a perdonarsi per tutte le sofferenze di cui era stata causa insieme al Centro, come potevano farlo Jarod e la sua famiglia? Lui al momento lo negava, le diceva che il passato non aveva importanza, ma Miss Parker era certa che quel passato sarebbe sempre rimasto tra loro ed avrebbe finito col separarli, perciò, per non rovinare tutto, per preservare almeno la sincera amicizia che dividevano fin da quando erano bambini, non le rimaneva che…Dio quant’era difficile! Ma era davvero inevitabile? Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter passare il resto della sua vita accanto a Jarod, lo desiderava a tal punto che forse la sua sola volontà sarebbe bastata a far avverare il suo sogno…sì, forse…

No, ma cosa stava dicendo?! Tutto giocava a loro sfavore, persino quel funesto presagio che ormai da settimane le tormentava il sonno…e se si fosse avverato, per l’uomo che amava sarebbe stata la fine…

Ah basta! Non voleva nemmeno pensarci.

I fari delle auto che incrociava  lungo la strada le apparivano ormai come chiazze di luce senza forma, attraverso il velo di lacrime che, pur lottando strenuamente non era riuscita a trattenere. Le si spezzava il cuore al solo pensiero, ma doveva farlo, non aveva altra scelta. Doveva allontanarlo da lei, perché il Centro era più che mai un pericolo per Jarod e lei suo malgrado ne faceva ancora parte.

Ma lui non l’avrebbe mai accettato. Per quanto Miss Parker si fosse prodigata a spiegarsi, non avrebbe mai capito le sue motivazioni, quindi non c’era che un’unica soluzione: doveva mentirgli, dirgli che tra loro era finita, che aveva commesso un errore, che in realtà non lo amava affatto. Sì, non appena il suo dannato cellulare si fosse deciso a squillare, non appena  Jarod si fosse messo in contatto con lei glielo avrebbe detto, anche se era meschino, anche se era da vigliacca fargli sapere una cosa del genere per telefono e lei lo sapeva bene.

“Certo che lo so…ma so anche che non potrei mai farlo guardandolo dritto negli occhi…”

 

Il Centro, Blue Cove – ore 10:00 p.m.

                                                                                                                                                                                                             

«Lo hai trovato?» chiese Mr. Parker con un’impercettibile nota d’ansia nella voce, non appena Lyle ebbe varcato, con aria inquieta, la porta a vetri del suo elegante ufficio.

«No. Sembra proprio essere sparito nel nulla» replicò questi a denti stretti, piuttosto seccato di dover ammettere il proprio momentaneo fallimento.

«Diamine, non può certo essere andato lontano nelle sue condizioni!» esclamò irritato il direttore del Centro, sobbalzando sulla poltrona in pelle e rinunciando per un attimo il suo imperturbabile autocontrollo.

«La mia squadra sta ancora setacciando la zona palmo a palmo. Se si trova nei paraggi non ci sfuggirà» promise il figlio, ostentando una sicurezza che era ben lontano dal provare. Non poteva proprio permettersi di fare fiasco, non quella volta e lo sapeva bene, prima ancora che suo padre lo confermasse.

«Sarà meglio, perché in caso contrario le conseguenze sarebbero tragiche per te…e anche per me…»

Davanti a quel tono duro, unito allo sguardo torvo che balenò nei gelidi occhi grigi del genitore, Lyle faticò non poco a tenere la propria tensione sotto controllo.

«Non preoccuparti, non ti deluderò – promise apparentemente tranquillo, ma quanto mai ansioso di andarsene – E’ tutto?»

«Sì…anzi, no. Ancora una cosa: sta attento a come ti muovi – lo ammonì serio Mr. Parker  - Tua sorella non è affatto stupida, al contrario, sono certo che già sospetta qualcosa»

«Sospetta che lui sia..?» azzardò allarmato Lyle.

«No, non ne sa niente. Ma tutte queste nuove misure di sicurezza l’hanno messa sul chi vive e dubito che abbia preso per buone le spiegazioni che mi sono inventato»

«Se la conosco bene come credo, questo significa che comincerà ad indagare»

«Allora fa in modo che non scopra la verità! – replicò bruscamente Mr. Parker - Attira la sua attenzione su qualcos’altro. Lei non deve sapere, altrimenti manderà tutto a monte!»

«Ma perché è così importante per te catturare quell’individuo? - chiese Lyle cedendo alla curiosità - Oramai, nelle sue condizioni, non può certo nuocerti»

«Perché lui conosce la verità…quella verità che sto cercando da una vita e che spettava a me sapere, non a lui» confessò il direttore del Centro con malcelato rancore, gli occhi ridotti a due fessure.

«Ma di che parli?»

Mr. Parker sospirò pesantemente. Quel suo figlio non era proprio una cima in quanto ad intuito! Certo sua sorella era tutt’altra cosa, gli era senza dubbio superiore, ma sfortunatamente somigliava troppo alla madre…in tutti i sensi!

«Parlo di un segreto Lyle – chiarì infine seccato, fissando il vuoto davanti a sé – Di un segreto che Catherine scoprì tanti anni fa riguardo al Centro…un segreto di portata tale da esserle costato la vita…un segreto – aggiunse puntando sugli occhi di Lyle uno sguardo carico di cupidigia – che mi consentirebbe di tenere in pugno il Triumvirato, invece di dover dipendere da quei dannati zulu!»

«E Catherine avrebbe rivelato un’informazione così importante…a lui?! – osservò scettico l’altro – Ma com’è possibile?! Non si può certo dire che corresse buon sangue tra loro»

«Non so come ci sia riuscito, ma lui lo ha scoperto – asserì Mr. Parker, sicuro di quanto diceva – e noi dobbiamo assolutamente riportarlo qui per convincerlo a parlare, con le buone o con le cattive»

«E quando l’avrà fatto?»

«Non mi sarà più di alcuna utilità – dichiarò tranquillo Mr. Parker, nella sua voce un’inquietante nota di cinismo, il suo volto come sempre una maschera impassibile - Perciò, come si fa con le cose superflue, ce ne sbarazzeremo …definitivamente».

 

Casa di Miss Parker, Blue Cove – ore 10:30 p.m.

                                                                                                                                                                                                             

Miss Parker entrò in casa, si chiuse la porta alle spalle ed appoggiò la borsetta sulla mensola, quindi, come era solita fare, cercò a tastoni l’interruttore per accendere la luce, quando improvvisamente si sentì afferrare con forza alle spalle.

«Ma che..?!» ebbe appena il tempo di farfugliare, prima di ritrovarsi bloccata con la schiena al muro, il cuore che le batteva all’impazzata nel petto.

“Okay. Niente panico” si impose, cercando lucidamente di ipotizzare perché quell’individuo di trovasse in casa sua: rapinatore …maniaco…sicario del Centro…

Mentre quelle congetture tutt’altro che rassicuranti attraversavano la sua mente in una frazione di secondo, la donna, con gesto rapido ed improvviso, tentò di estrarre la sua 9mm dalla fondina, ma invano, perché prima ancora che la sua mano potesse agguantarla, il misterioso aggressore le aveva già ghermito entrambi i polsi, immobilizzandola contro la parete.

A quel punto Miss Parker, disorientata, fu sul punto di gridare, quando il fantomatico assalitore le chiuse la bocca …con un bacio! Solo allora i suoi nervi poterono rilassarsi. Avrebbe riconosciuto dovunque quelle labbra morbide come il velluto che accarezzavano lente e sensuali le sue, quelle dita sottili e forti che s’insinuavano sotto la sua camicia di seta e le sfioravano languidamente la schiena, facendole accapponare la pelle.

“Ora mi ricordo perché ti trovo irresistibile..!” ammise la donna tra sé e sé, avvinghiandosi a lui, affondando voluttuosamente le dita tra i suoi capelli, senza riuscire a trattenere la propria passione, desiderando ardentemente che le sue mani non finissero mai di toccare ogni centimetro del suo corpo.

 «Dobbiamo smetterla di vederci così, Miss Parker – le mormorò Jarod all’orecchio, il respiro affannoso - O la gente comincerà a spettegolare..!»

Ripreso possesso dei propri sensi, lei arrivò finalmente ad accendere la luce: «E tu non dovrai preoccuparti di stare a sentire, perché se mi fai prendere un altro spavento del genere ti strappo le orecchie!!!» sibilò allontanandolo mentre Jarod ridacchiava soddisfatto e lo squadrò furiosa, incapace di decidere se volesse prenderlo a schiaffi o baciarlo di nuovo…

Poi optò per volgergli prudentemente le spalle: non doveva dimenticare quali erano i suoi propositi. Maledizione! Non aveva proprio calcolato che Jarod sarebbe venuto di persona. Ma perché non si era limitato a telefonarle?! Così sarebbe stato tutto più difficile…tremendamente più difficile.

«Sono giorni che ti cerco - lo rimproverò acida, dirigendosi verso il divano - Dove diavolo sei stato tutto questo tempo?!»

«A San Quintino» rispose lui seguendola.

«In prigione? A fare che?!»

«A scoprire le cause di uno strano incidente…che non è stato affatto un incidente»

Miss Parker non riuscì a trattenere un sorriso indulgente: «Sempre a fare il buon samaritano, eh?»

«E’ nella mia natura, lo sai. Non posso farne a meno! – si giustificò Jarod con aria innocente – Mi sei mancata Allison» aggiunse cercando di baciarla di nuovo, ma lei gli sfuggì.

«Sei stato un imprudente a venire qui!» lo rimbeccò ancora, dando sfogo al proprio disappunto. Come poteva dirgli che tra loro era finita se in quel momento desiderava soltanto lasciarsi sedurre da lui?!

«Il tuo messaggio diceva che era urgente»

«Non così urgente da correre il rischio di farti catturare» insistette lei, versando due bicchieri di soda…le ci sarebbe voluto ben altro, ma purtroppo aveva smesso di bere dannazione!!!

«Non ti agitare – continuò lui sorseggiando la sua bibita - Casa tua non è sorvegliata, non ci sono microfoni né telecamere in giro e il tuo telefono non è sotto controllo - lei lo fissò sbigottita – Non sapevo come ingannare il tempo mentre ti aspettavo!»

«Oltre a punire a dovere il cattivo di turno, hai scoperto qualcosa nelle ultime settimane?» domandò Miss Parker sedendosi di fronte a lui.

«Purtroppo no. Non c’è nessuna traccia della lista nemmeno nelle banche dati del Centro indicate sull’ultimo elenco che mi hai mandato…e tu? Trovato niente?»

«Sfortunatamente no, però ho imparato un sacco di cose sui computer – commentò lei ironica, tamburellando nervosamente con le unghie sul suo bicchiere di soda - Broots a questo punto penserà che voglia laurearmi in ingegneria informatica!»

Jarod sorrise: «Allora di cosa volevi parlarmi?» le chiese allungandosi verso di lei, i gomiti appoggiati alle ginocchia, ed affondando uno sguardo suadente nei suoi occhi colmi d’inquietudine.

«Ecco… - No, decisamente non poteva farcela! – Ehm…so che avevamo deciso di non coinvolgere nessuno in questa faccenda, ma a questo punto credo che non possiamo più evitarlo – riuscì finalmente a dire Miss Parker, iniziando a passeggiare agitata per il salotto…bè, infondo anche quell’argomento le stava comunque a cuore - Sono mesi che cerchiamo senza concludere nulla: devi ammetterlo, non possiamo riuscirci da soli. Abbiamo bisogno d’aiuto»

«Pensavi a Sydney e Broots?»

Lei annuì: «Forse Syd sa qualcosa o ha sentito parlare della lista, magari da mia madre e Broots potrebbe aiutarmi a spulciare negli archivi»

«D’accordo. Non si può certo negare che ci serve una mano – convenne lui – Ma dovremo essere molto chiari sui rischi ai quali andranno incontro. Dopodiché la decisione spetterà solamente a loro»

«Certo»

«Dovevi dirmi altro?» domandò ancora Jarod, avvicinandosi pericolosamente.

«No» mormorò lei volgendogli bruscamente le spalle.

“Dannazione Allison ! – si rimproverò esasperata – Ci sei cresciuta in mezzo alla falsità e alle menzogne, non dovrebbe essere poi così difficile per te dire una bugia!”

«Cioè sì… - esordì improvvisamente, afferrando a due mani tutto il suo coraggio per poi voltarsi a guardarlo dritto negli occhi - A dire la verità c’è un’altra cosa che dovrei dirti»

«Ti vedo così strana – osservò impensierito lui, cercando nuovamente di abbracciarla, col solo risultato di farla allontanare – Allison, cosa c’è che non va?»

«Ecco io…io credo – Miss Parker tirò un lungo sospiro per farsi forza –  Io ci ho pensato bene…e ho capito che tra noi non può funzionare Jarod»

«Cosa..?» sussurrò lui incredulo, un amaro stupore dipinto sul volto. No, aveva capito male. Lei non intendeva dire quel lui aveva appena ascoltato…ma allora perché si sentiva come se un fulmine lo avesse improvvisamente colpito in pieno petto?

“Okay, il dado è tratto. Ora viene la parte più difficile” si diceva intanto la donna, cercando di non pensare a quanto le facesse male vedere una tale amarezza dipinta negli occhi di Jarod.

«Mi dispiace, ma credo che tutti e due abbiamo preso una decisione affrettata – lui scosse il capo contrariato, però Miss Parker non lo lasciò parlare – Andiamo! Ci sentivamo tutti e due soli…eravamo a Parigi, in una cornice romantica e ci siamo semplicemente fatti prendere la mano. Può succedere»

«E’ davvero questo che pensi?» mormorò lui fissandola ancora incredulo.

«Sì Jarod – confermò la donna con ostentata convinzione - Ci ho riflettuto e…insomma, è innegabile che adesso mi senta attratta da te, ma questo non può bastare»

«Attrazione fisica?! – proruppe Jarod, dando finalmente sfogo alla propria disperazione, mentre il mondo sembrava cadergli rovinosamente addosso - Per te si riduce a questo quello che c’è tra noi?»

«No…non è solo questo - dovette ammettere lei scossa. In quel momento più che mai non era affatto certa di poter arrivare fino infondo – Ma non significa che...»

«Io non ti capisco – insistette ancora lui prendendola per le spalle e costringendola ad affrontare il suo sguardo carico di dubbi e di malcelate speranze - Allison, se è successo qualcosa, se c’è un problema che ti preoccupa devi solo dirmelo e lo affronteremo insieme»

«Non è possibile…» disse lei in un sussurro appena percettibile.

«Niente è impossibile – l’interruppe deciso lui – Anche tu, fino a poche settimane fa pensavi che insieme potessimo superare qualunque ostacolo…»

«Bè…forse mi sbagliavo» mormorò Miss Parker, sempre meno convinta di ciò che stava facendo.

«Allison…ti ho guardata negli occhi mentre mi dicevi che mi amavi e non stavi mentendo. Che cosa è cambiato da allora?»

Diamine doveva farlo! Proprio per questo, perché lo amava, doveva allontanarlo da lei .

«Niente. Non è cambiato niente e niente cambierà mai!» dichiarò lei a quel punto liberandosi del suo abbraccio e scoccandogli un’occhiata fredda quanto la sua voce.

«Non ti seguo» ammise Jarod sconcertato.

«Io non faccio che pensare a te e a me come a due relitti viventi – continuò lei con malinconica disillusione - Caricature di esseri umani che hanno sempre vissuto prigionieri di un’esistenza senza vita, che non riusciranno mai a trovare pace…e normalità, men che meno insieme»

«Non è vero, noi insieme possiamo…» provò ad obiettare lui.

«Ma non capisci?! – sbottò a quel punto la donna, con tutta la durezza di cui fu capace - Stare insieme a te per me significa ricordare continuamente il Centro e tutto quello che ho dovuto passare per causa loro…la morte di mia madre…Tommy…io invece voglio dimenticare…voglio guardare avanti, pensare al futuro»

«Un futuro dove la mia presenza non è contemplata – commentò lui con profonda amarezza, oramai resosi conto che lei stava dicendo sul serio - E pensare che credevo ti importasse di me»

«Mi importa di te e molto anche! – si lasciò sfuggire d’istinto Miss Parker, ferita a morte dallo sguardo sconfortato e disilluso che lui le rivolse, salvo poi correggersi un po’ goffamente - Ma…ma non in quel senso»

«Che significa non in..?!»

Il rumore di un’auto che si fermava lungo il vialetto li interruppe, attirando repentino la loro attenzione.

«Aspetti visite?» chiese guardingo Jarod.

«Non che io sappia – mormorò preoccupata lei, afferrando la pistola - In cucina presto…e appena puoi taglia la corda!» gl’intimò prima di spegnere la luce, per poi appostarsi accanto alla porta, le orecchie tese, i nervi a fior di pelle, la mente che valutava a ritmo frenetico tutte le più tragiche eventualità. Accidenti, se lo sentiva che prima o poi sarebbe successo! Altro che convinti della storia che aveva raccontato, quelli avevano capito tutto maledizione! E non avevano fatto altro che aspettare la loro prima mossa azzardata per piombare loro addosso. Certo che non era proprio nel loro stile arrivare così in sordina, in un caso del genere di solito si usava intervenire con un imponente e rumoroso spiegamento di uomini…ma a quel punto poco importava.

Le portiere si chiusero…un breve scambio di bisbigli, poi i passi presero lentamente ad avvicinarsi…dovevano essere in due, oramai ad un paio di metri dall’ingresso…un metro…ora! Con uno scatto fulmineo, Miss Parker aprì violentemente la porta, cogliendo di sorpresa i visitatori inattesi, e puntò decisa la sua pistola in fronte a…

«Broots…Sydney - esclamò stupita, tirando un sospiro di sollievo - Che diavolo ci fate qui a quest’ora?!» aggiunse riponendo la pistola nella fondina.

«Scu…scusa Miss Parker – balbettò Broots a corto di fiato e con gli occhi sbarrati, ancora scosso per lo spavento – Ma dovevamo parlarti subito…cioè io devo parlarti, ma la mia auto non voleva saperne di mettersi in moto, così ho chiesto a Syd di darmi uno strappo per…»

«Broots taglia corto e vieni dentro! – esclamò esacerbata la donna, afferrandolo per il colletto e trascinandolo in casa sua senza tanti complimenti, per poi lasciar entrare un compassato Sydney – Allora?!» continuò impaziente, dopo aver acceso per l’ennesima volta la luce.

«Non crederai alle tue orecchie quando lo saprai! Il mio amico Rodney, il sordomuto che sta all’Ufficio Protocolli, dove vengono registrati tutti i nuovi progetti …sai, non ci sente e non parla ma tiene gli occhi bene aperti, non gli sfugge niente e…»

Miss Parker ebbe un moto di stizzita impazienza, così Sydney pensò bene di arrivare al dunque.

«Il Centro sta rimettendo in funzione il SL-27»

«Cosa?! E perché mai?!»

«Rodney ha registrato oggi stesso il fascicolo nei progetti approvati – spiegò Broots - Vogliono riprendere il Programma Simulatore»

«Ma non è possibile! Quello era un progetto di Raines e il maledetto bastardo, con buona pace di noi tutti, ha tirato le cuoia proprio davanti ai miei occhi!»

«Probabilmente sarà qualcun altro ad occuparsene» le fece notare Sydney, flemmatico come sempre.

«E chi accidenti..?!»

«Non lo immagini?»

«Ma certo, l’imbalsamatore! - arguì Miss Parker dopo qualche istante con un sorrisetto sarcastico – L’infido, compiacentemente sadico Dott. Cox …proprio il degno successore del nostro Nosferatu!»

«Sì, la richiesta è stata sua» confermò Sydney.

«Chi ha autorizzato il nuovo progetto?» chiese ancora lei, temendo però di conoscere fin troppo bene la risposta.

«Bè…ecco… - tentennò infatti Broots – La firma è …è di Mr. Parker»

La donna chiuse gli occhi e sospirò, scuotendo il capo. Lo aveva fatto di nuovo. Eppure glielo aveva promesso, le aveva giurato che, tolto di mezzo Raines, non ci sarebbero più stati esperimenti disumani, che lui stesso si sarebbe impegnato per far sì che il Centro ritornasse ciò che sua madre avrebbe voluto che fosse: un’organizzazione umanitaria, che poneva le sue conoscenze scientifiche al servizio degli esseri umani e del loro benessere…il solito mucchio di parole al vento! Ma quando avrebbe imparato a non fidarsi più di suo padre?!

«Un momento! – esordi preoccupata Miss Parker, accantonando repentina l’ennesima cocente delusione ricevuta da papà – Chi sarà la cavia stavolta? Syd, credi che vogliano rapire un altro bambino, come cercarono di fare con Davy Simpkins?»

«E’ possibile – rispose meditabondo il dottore - Ma più ci penso e più…no, piuttosto temo che per evitare problemi questa volta potrebbero essersi procurati il soggetto…alla fonte»

«Che vuoi dire?»

«Qualcuno che nessuna famiglia verrà mai a reclamare, perché la sua famiglia si trova al Centro»

«Il piccolo baby Parker..?» esclamò Broots incredulo.

«Vi va di scherzare?! – sbottò Miss Parker fissando indignata entrambi gli uomini – Sean è mio fratello, è figlio del direttore del Centro. Mio padre non…»

«Tuo padre sposò Brigitte solo per avere quel bambino - le ricordò Sydney con aria grave -  E ad essere sincero non sono nemmeno certo che sia figlio loro, geneticamente parlando»

«In effetti Brigitte aveva detto di non poter avere bambini…» ricordò perplessa la donna.

«…tant’è che portare a termine la gravidanza l’ha uccisa – aggiunse il dottore - Non sarebbe mai potuta rimanere incinta in modo naturale»

«Forse Brigitte e Mr. Parker si sono rivolti ad una di quelle cliniche della fertilità» ipotizzò Broots.

«La Nugenesis..?» azzardò turbata Miss Parker.

«Anche questo è possibile – ammise Sydney - Dobbiamo controllare»

«E lo faremo. Ad ogni modo come sia nato quel bambino non fa differenza. Non permetterò che gli facciano del male! – dichiarò la donna categorica – Porterò Sean fuori da lì a costo di..!»

«Non prendere decisioni affrettate – le consigliò pacato il dottore – Le nostre per il momento sono solo ipotesi, non possiamo muoverci finché non le avremo verificate».

Miss Parker annuì sospirando pesantemente. Dio quanto odiava dover aspettare…e sentirsi così impotente!

«Questo significa che ora possiamo andarcene a letto?» chiese speranzoso Broots.

La donna lo trafisse con un’occhiataccia, ma riuscì miracolosamente a trattenere la caustica battuta  che aveva oramai sulla punta della lingua…le vecchie abitudini sono dure a morire!

«Bè, visto che siete qui – disse invece - Anch’io dovrei parlarvi. Anzi noi dovremmo parlarvi…» precisò volgendo lo sguardo alla porta della cucina, che lentamente si aprì, mostrando un’ospite inaspettato.

«Jarod?! – proruppe trasecolato Broots fissando il simulatore mentre usciva dalla stanza attigua e si sedeva tranquillo accanto alla padrona di casa - Syd…credo di essermi perso qualcosa»

«Ho idea che ce lo siamo perso tutti e due Broots» commentò misurato il dottore, limitandosi a studiare incuriosito la donna ed il suo protetto, il mento appoggiato come al solito alla mano destra.

«Riguardo la mia missione a Parigi…bé, non vi ho detto proprio tutto…» confessò Miss Parker scambiando con Jarod uno sguardo d’intesa.

«…a cominciare dal fatto che il DSA che abbiamo trovato non era danneggiato – aggiunse questi – Noi sappiamo qual era il progetto segreto di Catherine Parker» chiarì, prima di raccontare del messaggio che avevano rinvenuto, della lista, del loro sodalizio contro il Centro e delle ricerche fino a quel momento infruttuose.

«Che mi prenda un colpo!» mormorò sconcertato Broots, accasciandosi sulla poltrona.

«Allora è questo ciò che Catherine aveva scoperto, la vera natura del Centro» mormorò Sydney scuotendo tristemente il capo, mentre ripensava alla tragica scomparsa dell’amica.

«Ora che sapete la verità siete potenzialmente in pericolo quanto lo siamo noi» li avvertì Jarod.

«Che significa potenzialmente?» chiese confuso Broots.

«Che siete ancora in tempo per tirarvi indietro – chiarì Miss Parker - Per  fingere che questa conversazione non sia mai avvenuta e continuare a vivere tranquilli senza mettere in sicuro pericolo voi stessi e le vostre famiglie»

«Perché è questo che succederà se il Triumvirato dovesse scoprire che conoscete il loro segreto e purtroppo non è una possibilità tanto remota - confermò Jarod – Sapete meglio di me di cosa è capace il Centro. Nessuno di voi sarebbe più al sicuro, nessuna delle persone a cui tenete»

«Ci servirebbe davvero il vostro aiuto – aggiunse ancora la donna - Ma se non intendete rischiare la vostra vita e quella di chi vi sta accanto noi vi capiremo»

Un pesante silenzio cadde sulla stanza, mentre tutti i presenti, ognuno immerso nei propri pensieri, evitavano di guardarsi negli occhi…lunghi, imbarazzanti minuti che sembravano non dover finire mai.

«Io non mi tiro indietro – si decise infine a dire Sydney, lo sguardo risoluto, la voce ferma e sicura di sempre - Non vi lascerò soli proprio adesso che posso rimediare almeno in parte ai miei errori»

«Non devi sentirti obbligato a farlo per questo, Sydney» asserì turbato Jarod, rivolto all’uomo che gli aveva fatto da padre, l’uomo che amava e rispettava come un padre. Sapeva quanto si sentisse colpevole per le sofferenze che il Centro gli aveva inflitto, ma per quanto lui stesso lo ritenesse in parte responsabile, lo aveva perdonato da tempo e mai e poi mai gli avrebbe permesso di rischiare la vita per riparare a torti altrui.

«Io voglio farlo Jarod – replicò pacato il dottore, intuendo cosa passasse per la testa del suo protetto – Lo devo a te, ma soprattutto a me stesso»

Jarod annuì, quindi, imitando i presenti, rivolse la sua attenzione a Broots, che ancora non aveva aperto bocca.

«Bè, contate pure anche su di me – esordì timidamente questi, dopo qualche istante – Sto sudando freddo dalla paura, ma non posso permettermi di fare il codardo proprio al momento decisivo!»

«Grazie» gli sussurrò Miss Parker, lo sguardo carico di riconoscenza.

«Ma il problema dei vostri cari rimane – insistette Jarod - L’ultima cosa al mondo che vorrei è che succedesse a loro ciò che è successo alla mia famiglia»

«Dirò a Michelle e Nicholas di partire – propose Sydney – Ho un buon amico che vive nei pressi di Bruxelles e che li aiuterà a nascondersi finché sarà necessario. Debbie potrebbe andare con loro, che ne dici Broots?»

«Non saprei – replicò questi visibilmente preoccupato per l’incolumità della figlioletta – Voi credete che il Belgio sarà abbastanza lontano per..?»

«…per impedire al Centro di trovarli? – disse Jarod, terminando la frase che l’altro non aveva il coraggio di concludere – Nessun posto al mondo lo sarebbe, però…»

«…però in Europa saranno al sicuro, almeno per qualche tempo – aggiunse fiduciosa Miss Parler – E con un po’ di fortuna forse troveremo la lista prima che il Centro si metta sulle loro tracce. In fin dei conti ancora non sanno che noi sappiamo»

«Miss Parker ha ragione Broots» intervenne Sydney con fare rassicurante.

«D’accordo» assentì infine l’altro.

«Bene. Organizzerò io la fuga – propose a quel punto Jarod - Documenti e prenotazioni con nomi falsi e false prenotazioni a loro nome per depistare le eventuali ricerche del Centro. Mi serviranno solo un paio d’ore. Nel frattempo voi penserete ad avvisare Michelle Nicholas e Debbie di fare le valige – continuò afferrando la sua giacca e dirigendosi risoluto verso la porta – All…ehm...Parker… - aggiunse poi fermandosi davanti a lei – Più tardi vorrei riprendere il discorso che abbiamo interrotto»

«Io penso sia meglio di no» mormorò Miss Parker, cercando di mostrarsi convinta.

Esasperato, lui si lasciò sfuggire un sospiro: «Mi faccio vivo io, okay?»

Lei annuì, lasciando indugiare il suo sguardo in quello accorato di Jarod un po’ troppo a lungo.

Senza staccare gli occhi da quelli della donna, lui fece per muovere la mano, forse nell’intento di prendere la sua, ma si sforzò di reprimere il gesto, quindi, senza aggiungere altro, le voltò le spalle e se ne andò.

Sydney, che aveva osservato la scena sempre più incuriosito, non mancò certo di cogliere quel significativo scambio di occhiate e cominciò a chiedersi se Miss Parker non avesse taciuto altri interessanti particolari circa la sua missione a Parigi, ma si astenne prudentemente dal farle domande.

 

Ashland High School – Ashland, Wisconsin – ore 12:00 a.m.

                                                                                                                                                                                                             

Il sole era alto sul parco della scuola, affollato per la pausa del pranzo. L’aria era limpida quanto pungente e grazie alla fredda brezza proveniente dal lago, sapeva di buono.

Jay stava seduto in disparte, come al solito, ad osservare le vite normali dei suoi coetanei: scherzare con gli amici, fare due tiri a football, rimorchiare ragazze…tutte cose che a lui sembravano essere negate. Per la sua incolumità, gli era vietato divertirsi, stringere amicizie, mostrare le sue straordinarie capacità: troppo pericoloso. Lui doveva cercare di non dare nell’occhio, guardarsi sempre le spalle, evitare ogni contatto con chi gli stava intorno, a meno che non fosse strettamente necessario. Gli era stato detto che, nonostante fossero passati quasi due anni dalla sua fuga, il Centro era ancora sulle sue tracce, quindi doveva restare nascosto, limitandosi a guardare gli altri vivere…e lui lo detestava. Detestava sentirsi come un fantasma che attraversava non visto luoghi ed esistenze altrui, un intruso che non avrebbe mai avuto nulla in comune con tutti gli altri.

Ma d’altra parte, Jay non era come gli altri. Non era un normale adolescente con un padre ed una madre, cresciuto con l’affetto di una famiglia e degli amici, libero di giocare in un parco, di leggere fumetti, di mangiare cioccolata e fare indigestione di gelato…lui non sapeva nemmeno che esistesse il gelato, finché Jarod non l’aveva praticamente costretto ad assaggiarlo. E sebbene ormai da tempo vivesse con la sua famiglia, sentiva di non farne parte. In realtà, per il maggiore e per Emily, lui era soltanto il clone di Jarod, vale a dire un impiccio in più di cui occuparsi, una scocciatura di cui avrebbero volentieri fatto a meno.

Quella situazione lo faceva impazzire. Sentimenti contrastanti tormentavano costantemente il suo animo: amore e odio per una vita che gli era concesso di vivere solo a metà; bisogno di essere amato e diffidenza verso quella famiglia che non lo aveva cercato e che sicuramente lo aveva accolto solo perché si era sentita in dovere di farlo; speranza e paura per ciò che gli riservava il futuro; senso di superiorità ed invidia nei confronti dei suoi coetanei, di certo meno dotati di lui ma tanto più fortunati. Tuttavia la più forte fra tutte quelle sensazioni era senz’altro la rabbia…rabbia per essere soltanto il frutto di un esperimento genetico, concepito dalla mente diabolica e disumana del Dr. Raines, che non aveva nemmeno mai voluto dargli un nome, se non Progetto Gemini…rabbia, per essere stato catapultato contro la sua volontà in un mondo di cui, pur desiderandolo, non avrebbe mai fatto parte e nel quale nessuno sembrava potesse capire ciò che provava. Ma perché era dovuto succedere proprio a lui?!

In un moto di stizza, dettato da un’incontrollabile frustrazione, Jay si alzò di colpo, senza fare troppo caso a chi gli stava intorno…l’urto fu inevitabile.

«Ah!» gridò la ragazza, sottraendolo di colpo ai suoi tristi pensieri, prima di cadere a terra.

«Scu…scusami…non volevo - balbettò Jay sbalordito e mortificato, chinandosi per soccorrerla – Ti sei fatta male?»

«No, va tutto bene – lo tranquillizzò una voce garbata – Toglimi una curiosità: sei sempre così travolgente quando decidi di alzarti?!» lo schernì poi la sua vittima, osservando divertita il suo forte imbarazzo.

«Ecco io…»

Jay era incapace di staccare gli occhi dalla bella biondina: capelli lunghi, inanellati in morbidi riccioli, viso ovale, occhi limpidi, azzurri come il mare, sorriso delizioso. Non gli era mai accaduto di sentirsi così in tutta la sua breve vita. Mai fino a quel momento almeno. La bocca impastata, il cuore che gli martellava impazzito nel petto, la mente in preda alla più totale confusione, incapacità di articolare anche la più semplice delle frasi. Anche se i sintomi erano simili, quel che provava non era esattamente panico. Ma che gli stava succedendo?!

«Guarda che non tocca a te essere sconvolto…è stato il mio fondoschiena a finire per terra!» lo rimbeccò ancora la ragazza con un sorrisetto ironico, facendolo arrossire come un peperone.

«Hai ragione…scusami» balbettò Jay offrendole impacciato la mano per poi aiutarla ad alzarsi.

«Ora puoi smetterla di scusarti. Come vedi non ho niente fuori posto»

“Questo è poco ma sicuro!” si disse il ragazzo, osservandola ammirato da capo a piedi. Era più bassa di lui di una spanna abbondante, di costituzione minuta ma con tutte le curve decisamente al posto giusto, messe in risalto dai jeans e dalla maglietta attillata.

«Qualcosa non va?» chiese lei un tantino irritata dal suo modo di divorarla con gli occhi.

«Cosa..? No…ehm..ti è caduto questo – farfugliò lui distogliendo imbarazzato lo sguardo – Gli Elementi di Euclide – lesse poi raccogliendo il massiccio volume rimasto a terra – Un po’ impegnativa come lettura di svago»

«Forse. Comunque questo è uno svago per me – replicò lei con aria di sufficienza, riprendendosi il libro – Vedi, non tutti traggono soddisfazione dal leggere pettegolezzi e notizie sportive. Ma non pretendo che tu possa capire» aggiunse spocchiosa, accennando ad andarsene.

“Hei con chi credi avere a che fare?! – sbottò lui risentito, tra sé e sé, punto sul vivo -  Io conosco quasi a memoria i   tredici i libri degli Elementi, per non parlare di molte altre cose che tu nemmeno riusciresti ad immaginare!”

«Al contrario, capisco benissimo – esordì poi con sottile sarcasmo, prima che lei si allontanasse - Se vuoi possiamo parlare della teoria delle proporzioni, dei postulati sulle rette parallele o della dimostrazione dell’infinità dei numeri primi, ma francamente preferisco fare altro per…svagarmi»

Lei lo osservò un attimo piacevolmente stupita, prima di commentare in tono pungente: «Per esempio tramortire le ragazze per poi cercare di abbordarle?»

«No guarda che ti sbagli…io… – si affrettò a giustificarsi Jay, poi notò che la ragazza lo stava fissando con un piglio beffardo dipinto sul bel viso. Lo stava di nuovo prendendo in giro, ma non c’era più traccia di scherno nel sorriso che gli stava rivolgendo  - Ehm…frequenti il corso del prof. Harris per caso?» le chiese quindi disorientato, accennando a sua volta un flebile sorriso.

«Sì - confermò lei sedendosi ed invitandolo inaspettatamente ad imitarla - Anche tu, immagino»

«Già. Strano però, non ti ho mai vista in classe»

A dire la verità lui non notava mai nessuno, visto che si sistemava sempre nel cantuccio più isolato della stanza, mimetizzandosi quasi contro la parete e che entrava ed usciva dall’aula tenendo gli occhi bassi, nella speranza che nessuno si accorgesse di lui.

«Forse perché non ci tengo a farmi notare - replicò evasiva la ragazza - Ad ogni modo nemmeno io ti ho mai visto a lezione»

«Bè, diciamo che anch’io cerco di non farmi notare» ammise lui con una buffa espressione di ostentata ingenuità, che provocò la spontanea, cristallina risata della ragazza.

«Io sono Kimberly Law… - fece per presentarsi lei, salvo poi interrompersi di colpo a disagio, quasi si fosse improvvisamente ricordata di qualcosa che, suo malgrado, non doveva fare - Cioè… soltanto Kimberly»

«Jay – rispose lui sorridendo - …soltanto Jay»

Lei ricambiò il sorriso con aria complice, fissando intensamente i profondi occhi scuri che guardavano timidi e curiosi i suoi…fu in quel momento che si creò tra loro una sorta d’intesa, un’incredibile sintonia, un’inspiegabile eppure autentica sensazione di essere sulla stessa lunghezza d’onda.

«Come mai ti interessa tanto Euclide?» chiese Jay distogliendo turbato lo sguardo. Tutte quelle nuove sensazioni erano e a dir poco incomprensibili per lui e non facevano che confonderlo sempre di più.

«Non so, forse perché lui ha reso tutto più chiaro, più semplice – provò a spiegarsi Kimberly - Ha fissato dei principi, termini oltre i quali non si può andare, entro i quali ciò che accade è sempre prevedibile e comprensibile. A volte vorrei che anche la realtà fosse così, senza incognite, senza misteri. Sarebbe rassicurante, magari un po’ noiosa, ma rassicurante…non so se riesci a capirmi»

«Sì, credo di sì – assentì lui, lo sguardo fisso su di un punto imprecisato del piccolo parco. Altroché se capiva! - A volte, quando meno te l’aspetti, ti succedono le cose più impensabili e ti rendi conto che ciò che davi per scontato non lo è affatto e che ti piaccia o no, lo devi accettare, anche se ti senti confuso e impotente e arrabbiato…»

«…e daresti qualsiasi cosa perché nella tua vita tutto fosse di nuovo semplice» terminò tristemente lei.

Pareva impossibile, eppure quella ragazza sapeva esattamente ciò che lui sentiva e ancora più incredibile, sembrava provare le sue stesse sensazioni.

«La tua vita è davvero così complicata?»

«Non sai quanto! – si lasciò sfuggire lei – Cioè…voglio dire…non più della tua, credo»

“Tu non hai la più pallida idea di quanto sia incasinata la mia vita!” stava per commentare Jay, ma fortunatamente riuscì a pronunciare solo un neutro : «Già»

«Mi piace parlare con te Jay – gli confessò, rivolgendogli uno sguardo schietto - Vorrei che fosse così facile anche con gli altri»

«Chi sarebbero gli altri?»

«Gli adulti – esordì Kimberly con aria scocciata – Coi miei genitori ad esempio non c’è dialogo. Non ci riesco proprio a parlare con loro, anche perché loro non considerano mai il mio punto di vista! Decidono della mia vita senza nemmeno chiedere il mio parere, sostengono di agire per il mio bene e che quando sarò più matura capirò… figurati! Non si sforzano minimamente di capirmi. Avere una famiglia a volte è proprio insopportabile!»

«Non dirlo a me!»

«Anche tu hai qualche difficoltà in casa eh?»

«Sì, qualcuna»

«Vivi qui ad Ashland da molto tempo?»

«Bè…ecco…»

«JAY!»

La voce perentoria della graziosa brunetta, che lo chiamava dal finestrino abbassato della sua utilitaria, tolse il ragazzo dall’impiccio di dover inventare le solite, plausibili frottole per nascondere il proprio passato.

«A proposito di famiglia – esordì - E’ mia sorella. Devo andare»

«Allora ci si vede in giro…soltanto Jay»

«Certo…soltanto Kimberly» mormorò lui con un timido sorriso prima di allontanarsi.

La domanda arrivò, come previsto, non appena ebbe chiuso la portiera.

«Chi era quella ragazza?»

«Kimberly – rispose laconico - Siamo nella stessa classe di matematica»

«Jay, lo sai che devi stare molto attento alle persone che frequenti» replicò secca Emily, lo sguardo fisso sulla strada mentre si destreggiava nella guida.

Non lo stava fissando, ma Jay sapeva bene che, se lo avesse fatto, nei suoi espressivi occhi verdi avrebbe trovato solo disapprovazione…come al solito del resto!

«Sicuro che lo so – replicò infastidito, lasciando vagare uno sguardo indifferente fuori dal finestrino – Rilassati. Abbiamo solo parlato del più e del meno. Non le ho raccontato la mia tragica storia e se anche lo avessi fatto, lei non ci avrebbe di certo creduto!»

“Indisponente come sempre!” pensò irritata Emily, sforzandosi tuttavia di mantenere pacati i suoi modi ed il suo tono di voce.

«Lo so che questa situazione è opprimente per te – esordì dopo qualche istante di pesante silenzio - Ma come ti ho già detto tante volte, non sei l’unico a dover fare dei sacrifici. Pensa a…»

«Già, pensa a Jarod!» sbottò Jay con aspro sarcasmo, oltremodo stanco di sentir tessere le lodi del suo originale.

Emily sospirò pesantemente, faticando non poco a conservare il proprio autocontrollo…ma perché quel ragazzino aveva il potere di farla uscire dai gangheri?!

«Sì, dovresti proprio»

«Ma sì! Pensa al tuo povero sfortunato fratello, rimasto per trent’anni nella spietata morsa del Centro ed ora braccato come un animale! – continuò imperterrito il ragazzo, sfogando improvvisamente tutta la sua rabbia repressa - Bé né io né te stiamo certo meglio mi pare. E tutto questo sta succedendo a causa sua!»

«Non dire sciocchezze! – proruppe Emily, a sua volta oramai in collera con l’impudente fratellino. Ma come si permetteva quell’ingrato?! - Jarod sta cercando di tirarci tutti fuori dai guai ma…»

«E come mai ancora non c’è riuscito, visto che è un genio?!»

«Ora falla finita! – lo rimbrottò severamente lei, zittendolo di colpo, mentre fermava l’auto davanti alla graziosa casetta che avevano preso in affitto col Maggiore - Dovresti essergli riconoscente. Se non fosse stato per lui adesso non saresti che un esperimento, saresti ancora nelle grinfie del Centro a farti torturare dal Dr. Raines! – quelle dure parole, dettate dall’ira e dalla frustrazione, le uscirono di bocca prima che potesse rendersene conto e ad Emily non restò che pentirsene – Perdonami Jay. Non volevo dire quello che ho detto, io…» provò a giustificarsi davvero dispiaciuta. Ma il ragazzo, profondamente ferito, stava già scendendo dall’auto, sbattendo con rabbia la portiera.

“Maledizione, ma perché sbaglio sempre tutto con lui?!” si chiese accasciandosi amareggiata sul sedile.

Forse perché all’università le avevano insegnato come poter aspirare al premio Pulitzer, ma non come si fa da sorella maggiore ad un ragazzo difficile…né tanto meno da madre.

Il suo pensiero corse inevitabilmente a lei: “Dio quanto mi manchi mamma, soprattutto in questi momenti. Tu sapresti di sicuro cosa fare, mentre io…”

Si sentiva così sola. Erano anni che non vedeva sua madre, infatti dopo quanto era successo a Boston, Margaret aveva preferito, seppur a malincuore, separarsi da lei, per far sì che almeno la figlia fosse al sicuro ed Emily aveva creduto di esserlo, finché Lyle non l’aveva trovata e l’aveva quasi uccisa, costringendola a rinunciare alla sua promettente carriera al giornale, ad abbandonare la sua dinamica Philadelphia per lavorare sotto falso nome in piccole e monotone redazioni di provincia.

Non poteva contare nemmeno su suo padre, che aveva ritrovato circa un anno prima, ma che quasi sempre era lontano, alla ricerca di Margaret, lasciando lei sola ad occuparsi di Jay. Compito assai arduo che, pressoché subito aveva capito di non essere in grado di svolgere. Dapprima si era mostrata fin troppo comprensiva con lui, senza riuscire a placare la rabbia che questi sembrava provare verso tutto e tutti. Allora era passata alla linea dura, ma i risultati non erano certo stati migliori, non era mai riuscita ad aprirsi, ad instaurare un dialogo col fratello e  la situazione oramai le stava sfuggendo di mano. Tutto era troppo complicato e decisamente al di sopra delle sue possibilità.

Eppure voleva bene a quel ragazzo, dannazione! Avrebbe dato la vita pur di proteggerlo. Ma allora perché non riusciva a fargli capire quanto lo amasse, visto che lui ne aveva sicuramente bisogno? Forse la paura, l’inquietudine di doversi sempre guardare le spalle, le impedivano di lasciarsi andare e di mostrare apertamente i propri sentimenti. Probabilmente poco prima si era arrabbiata tanto per le parole di Jay perché lei stessa a volte, suo malgrado, aveva pensato che Jarod fosse la causa di tutti i suoi guai. Momenti di debolezza, che non poteva e non voleva concedersi di nuovo.

“Pazienza Emily. Devi farti forza ed avere pazienza” si disse ripensando alla sua ultima conversazione telefonica con Jarod, quella in cui lui le aveva promesso che un giorno non lontano tutto questo sarebbe finito, che tutti loro sarebbero tornati alle loro vite e che sarebbero finalmente stati una famiglia…una tranquilla famiglia felice.

Forse si stava solo illudendo, ma in quel momento come non mai aveva bisogno di credere alle parole di suo fratello, aveva bisogno di aggrapparsi a quella flebile speranza, altrimenti avrebbe rischiato d’impazzire.

 

Istituto Psichiatrico di Pleasant Wood – Tosen, Maryland  - ore 07:00 a.m.

 

Le prime ore del mattino erano quelle che preferiva per camminare lungo i sentieri deserti del parco, ormai vestito dei caldi colori autunnali. Pennellate d’ocra, castano e amaranto, che parevano delineate dalla mano di un abile maestro. L’aria leggera e pungente arrivava fresca sulle sue gote e gli stuzzicava piacevolmente le narici, portando con sé il profumo tenue del muschio e delle foglie ingiallite, cariche di rugiada, che scintillavano come preziosi gioielli alla luce dei primi, tiepidi raggi del sole. Tranquillità e silenzio, interrotti talora da flebili cinguettii, erano l’unico sottofondo alle sue solitarie passeggiate mattutine ed infondevano nel suo animo un profondo senso di pace.

Poco meno di un anno prima, Ethan credeva che non sarebbe mai stato possibile per lui raggiungere una tale quiete. Allora desiderava soltanto porre fine in qualche modo alle sue sofferenze, all’aspro conflitto che si combatteva nella sua testa da quando era venuto al mondo. Le voci sommesse, delle quali ignorava la provenienza e che lo terrorizzavano, contro le parole arcigne di quell’uomo malvagio, l’unico di cui purtroppo si era sempre fidato, che gli imponevano di non ascoltare. Ethan aveva capito che, per quanto si fosse sforzato, non sarebbe mai riuscito a far cessare quelle voci, eppure doveva fermare l’acuto contrasto che dilaniava la sua mente tormentata fino a farlo impazzire, perciò non aveva trovato che una soluzione: desiderava soltanto morire, pur di non dover più sopportare quello strazio.

Ma Jarod e Miss Parker lo avevano impedito, avevano salvato appena in tempo la sua vita e quella di migliaia di innocenti che il Dr. Raines gli aveva ordinato di uccidere, piazzando quella bomba nella metropolitana di Washington. Ancora non riusciva a spiegarsi come Jarod fosse stato capace di farli uscire incolumi da quella tremenda esplosione, però gliene era profondamente grato. E gli era riconoscente anche di averlo portato lì, a Pleasant Wood, un posto sicuro dove gli spazzini del Centro non lo avrebbero mai cercato, perché già erano stati lì anni prima seguendo le tracce dello stesso Jarod.

Non era stato facile, né indolore, ma grazie all’aiuto della dottoressa Goetz, Ethan aveva finalmente imparato a convivere con il suo senso interiore, a non aver paura di quelle voci, ad ascoltarle e a credere in ciò che gli dicevano…soprattutto la voce di lei, soave, rassicurante, carica di infinita tenerezza: la voce di sua madre.

Sapeva che a malincuore avrebbe lasciato quell’oasi di pace e tranquillità, il luogo che aveva segnato la sua rinascita fisica e spirituale, l’unico posto dove si era sentito veramente al sicuro. Ma per lui era quasi giunto il momento di andarsene, di tornare ad affrontare il mondo esterno.

Le voci erano state chiare in proposito: una terribile minaccia incombeva sulle persone che più gli erano care, un’entità estremamente malvagia si stava muovendo subdola nell’ombra, in attesa del momento più propizio per colpire. Ancora non aveva capito chi o cosa fosse, ma poteva percepirne la crudele determinazione. Nonostante l’idea di lasciare quella sorta di guscio in cui aveva trovato pace e serenità lo spaventasse più di quanto volesse ammettere, non poteva tirarsi indietro. Sua sorella avrebbe presto avuto bisogno di lui.

 

Aeroporto di Dover, Delaware  - ore 04:00 a.m.

 

Faceva ancora buio quando Jarod uscì esausto dal terminal delle partenze internazionali, per poi dirigersi a passi lunghi e frettolosi verso il parcheggio, guardandosi sempre attorno con circospezione. Probabilmente non ce n’era bisogno, lì e a quell’ora, ma oramai, dopo anni di clandestinità, era talmente abituato a muoversi in quel modo che forse non sarebbe più stato capace di farne a meno per il resto della sua vita, anche se (magari…) non fosse più stato necessario, o si fosse sforzato di evitarlo.

Era stata una lunga notte quella appena trascorsa, una notte che aveva fatto seguito a due giorni altrettanto intensi, fatti di febbrili preparativi, di spiegazioni solo accennate, che avevano reso tuttavia fin troppo chiara la gravità del pericolo incombente. Era stata una notte di frettolosi ma per questo non certo meno penosi commiati, di frenetiche corse in auto, di sensi sempre all’erta. Una notte estenuante, ma ne era valsa la pena. Michelle, Nicholas e Debbie erano ufficialmente spariti nel nulla e viaggiavano in incognito sull’aereo che li stava portando in Europa, dove sarebbero stati al sicuro, dove per il Centro sarebbe stato molto più difficile trovarli, anche se non impossibile.

Seduto al volante della sua auto, mentre viaggiava alla volta del tranquillo sobborgo di Dover in cui aveva affittato un monolocale, Jarod iniziò finalmente a rilassarsi. La tensione si allentava poco a poco sui suoi nervi e sui muscoli spossati, cedendo il passo alla stanchezza, così, nell’intento di combattere il sonno, che già incombeva minaccioso sulle sue palpebre ormai troppo pesanti, Jarod accese la radio. Un romantico motivo si diffuse nell’abitacolo.

Ancora una volta chi ne aveva scritto le liriche, pareva aver misteriosamente intuito quali fossero i suoi tormentosi pensieri…

 

How can you just walk away from me,

when all I can do is watch you leave

Cos we’ve shared the laughter and the pain

and even shared the tears

You’re the only one who really knew me at all…

 

L’incalzante susseguirsi degli avvenimenti lo aveva aiutato a non pensarci troppo nelle ultime ore, ma a quel punto le dure parole di Miss Parker tornarono a risuonare nella sua mente col loro crudele significato e una dolorosa fitta trafisse ancora il suo povero cuore, già colpito a morte.

“Perché Allison…perché?!” riprese a domandarsi esasperato, ricacciando indietro con rabbia le lacrime che già bruciavano nei suoi occhi.

La maledizione che da sempre lo condannava alla solitudine si era di nuovo abbattuta inesorabile sulla sua vita, proprio nel momento in cui aveva ripreso a credere in un lieto fine, a lottare con maggiore tenacia per cambiare la sua sorte avversa. Proprio quando si era persuaso che non sarebbe mai più stato solo, la donna che amava aveva distrutto in pochi istanti tutte le sue speranze.

Un doloroso groppo tornò a serrargli la gola al solo pensiero di quelle spietate affermazioni e una parte di lui, quella più irrazionale ed emotiva, quella che si sentiva amareggiata e confusa, che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non dover mai ascoltare simili parole, si struggeva per le sue pene d’amore, tuttavia…

Tuttavia un campanello aveva preso a suonare flebile nel sua mente geniale: qualcosa non gli tornava.

Innanzitutto Miss Parker non era tipo da giocare coi sentimenti, specialmente con quelli di Jarod, se non altro per la profonda amicizia che li aveva uniti tempo addietro. Era diretta e schietta, sapeva esserlo fino alla brutalità, quindi non gli avrebbe mai detto di amarlo se non ne fosse stata più che sicura e questo lo portava a chiedersi cosa l’avesse mai spinta ad affermare il contrario un paio di giorni prima.

E poi c’erano i suoi occhi. A volte limpidi laghi di montagna che palesavano tacitamente segrete emozioni, oppure trasparenti, impetuose cascate cariche di passione o ancora cupi mari in tempesta, in cui trasparivano rancore e sete di giustizia. Ma quella sciagurata sera di due giorni prima, gli occhi di Miss Parker, sempre così espressivi, lo sfuggivano inafferrabili ed enigmatici, quasi volessero tenere celati i veri sentimenti della donna, come se…

Lo sguardo sempre fisso sulla strada, Jarod aggrottò di colpo le sopracciglia: un’intuizione aveva messo in moto gli ingranaggi del suo brillante cervello. Sì, più ci pensava e più si faceva strada nella sua mente l’idea che lei gli stesse nascondendo qualcosa. Ma che poteva mai essere?! Una notizia così sconvolgente da indurre Allison a tenerla per sé..? Uhm…poco probabile…oppure un pericolo così grave che…e se lei avesse voluto tenerlo all’oscuro per proteggerlo? Ma da cosa?! Ah stava farneticando!

Erano le quattro del mattino e non dormiva da quasi ventiquattr’ore: aveva troppo sonno per poter ragionare lucidamente. Forse, anzi di sicuro si stava solo illudendo. Miss Parker si era davvero resa conto di aver commesso un errore ed in tutta franchezza si era sentita in dovere di dirglielo, tutto lì. Anche se il solo pensiero lo faceva impazzire, doveva riuscire a farsene una ragione: con lei era tutto finito.

 

Il Centro, Blue Cove  – Ala Rinnovamento  – ore 07:00 p.m.

 

Quando le porte dell’ascensore si aprirono, un insopportabile senso di nausea  gli attanagliò lo stomaco e Sydney sapeva che non era dovuto al forte odore di disinfettante misto a formaldeide che impregnava quel luogo asettico.

Si era augurato di non dover mai più mettere piede in quel posto, quella sorta di anticamera dell’inferno, ma Cox aveva trasferito proprio lì il suo laboratorio. L’Ala Rinnovamento non conservava certo buoni ricordi per lui, dopo che vi era stato segregato, quando aveva temporaneamente perso la vista in seguito all’esplosione della bomba che lui stesso aveva piazzato nel SL-27.

Già, il famigerato Sottolivello 27: mettendo in atto il suo gesto disperato, aveva creduto che almeno quella spregevole parte del Centro sarebbe morta per sempre col suo ignobile significato e le sue orribili memorie, cose che non avrebbe mai voluto vedere, che gli avevano ricordato gli anni terribili passati con Jacob a Dachau e gli esperimenti disumani del Dr. Krieg.

Quel posto sarebbe dovuto sparire, inghiottito dalla deflagrazione e dalle fiamme, invece Cox voleva riportarlo in vita, riprendere gli esperimenti di Raines sui simulatori, sacrificare altre vittime innocenti, come lo erano stati Jarod, Kyle, Angelo e lui era lì per impedirglielo a qualunque costo. Non poteva più restarne fuori, imporsi di non vedere ciò che stava accadendo per mettere a tacere la sua coscienza.

In passato non aveva voluto ascoltare né Jacob né Catherine, non aveva voluto aiutarli e loro invece avevano sacrificato la vita nel tentativo di fermare il Centro. Sapeva che, per quanto avesse cercato di porvi rimedio, non si sarebbe mai perdonato quel terribile errore, avrebbe dovuto convivere per sempre con il rimorso di aver abbandonato il suo stesso fratello e la sua più cara amica quando maggiormente avevano avuto bisogno di lui…così come non si sarebbe mai perdonato di non aver fatto di più per proteggere Jarod.

Ma finalmente gli si presentava l’occasione per riscattarsi, per porre fine alle malefatte del Centro e Sydney era più che mai deciso a coglierla e ad andare fino in fondo. Al momento la sua priorità era proteggere il piccolo Baby Parker e ciò implicava scoprire quali fossero le intenzioni di Cox nei suoi confronti. Purtroppo, fino a quel momento, i suoi sospetti si erano rivelati fondati: dalle analisi del DNA era risultato che Sean non poteva assolutamente essere figlio di Brigitte e Mr. Parker. Non solo il bambino era stato concepito artificialmente, ma il suo patrimonio genetico presentava inspiegabili anomalie, che Sydney, anche se lo aveva taciuto a Miss Parker, sospettava non fossero opera della natura. Non ne aveva la certezza, ma temeva che Cox, come il suo predecessore, stesse giocando a fare Dio, utilizzando ignare vittime innocenti alla stregua di cavie, proprio come i crudeli aguzzini di Dachau…il solo pensiero gli faceva orrore ed attizzava la sua rabbia troppo a lungo repressa. Doveva scoprire la verità e la sola persona che potesse rispondere alle sue domande si trovava oltre la porta che si ergeva chiusa di fronte a lui.

Senza indugiare, Sydney bussò e si fece strada all’interno del laboratorio verso l’unico astante.

«Sydney» l’apostrofò questi, senza scomporsi troppo per la sua improvvisa intrusione, alzando incuriosito lo sguardo dal tabulato che stava esaminando.

«Dr. Cox»

«Cosa la porta nel mio laboratorio?»

«Circolano strane voci – replicò Sydney avvicinandosi a lui – e mi chiedevo se lei potesse confermarle»

«Ah sì? E cosa si dice in giro?»

«Che il SL-27 sarà rimesso in funzione per riprendere il programma simulatore» asserì flemmatico l’altro senza tanti preamboli, fissandolo dritto nei suoi occhi scuri, liquidi e sfuggenti.

«Interessante. Ma perché io dovrei esserne a conoscenza?» chiese ancora Cox, con finto candore.

«Perché in giro si dice anche che sarà lei ad occuparsene»

«Se anche fosse – ribatté l’altro con un viscido sorrisetto – Non capisco che cos’ha che fare con lei tutto questo»

«Forse dimentica che fui io ad avviare il programma simulatore insieme al Dr. Raines più di trent’anni fa – obiettò Sydney con pacata fermezza – Quindi sono venuto a proporle la mia piena collaborazione per renderlo di nuovo operativo»

«Ma che offerta generosa – commentò Cox con palese sarcasmo – Immagino che l’idea di mandarla quaggiù a fare la talpa sia stata di Miss Parker, anche se questo non è proprio il suo stile – aggiunse sedendosi con eccessiva lentezza alla propria scrivania, senza smettere di studiare con aria inquisitoria ogni reazione dello psicologo – In effetti Miss Parker, come la sua povera mamma, preferisce affrontare le situazioni a viso aperto…abitudine assai rischiosa da queste parti, non trova anche lei Sydney?»

«Lasci Miss Parker fuori da questa storia – replicò l’altro affatto turbato, almeno in apparenza, per la minaccia non troppo velata di quelle ultime parole – Lei non sa che sono qui, non potrebbe mai capire»

«Cosa non capirebbe? Il perché una delle poche persone di cui si fida mi stia chiedendo di partecipare ad un progetto che lei stessa ha sempre disapprovato?»

«Miss Parker è un’idealista – spiegò Sydney seguitando a sostenere impassibile lo sguardo di Cox – vede tutto bianco o nero. Non si rende conto che ci sono cose per cui vale la pena di scendere a compromessi. Ma lei è uno scienziato, come me e capirà che…»

«Sono colpito dalla sua dedizione verso il progresso della scienza, Sydney, tuttavia…»

«Maledizione Cox!!! – esclamò a quel punto Sydney con tutta l’enfasi di cui fu capace, nel tentativo di vincere l’evidente scetticismo del suo interlocutore - Ho dedicato tutta la mia vita a questo progetto e non voglio esserne tagliato fuori proprio ora che sta per riprendere!!!»

Silenzio…sguardi di sfida incrociati che si studiavano sospettosi l’un l’altro.

«Io non mi fido di lei, Sydney – esordì Cox mellifluo, ma senza mezzi termini, dopo un lungo silenzio - Ciò nonostante, devo ammettere che la sua decennale esperienza maturata su Jarod potrebbe essermi molto utile con il mio soggetto…»

«Di chi si tratta?» chiese lo psicologo, forse un po’ troppo interessatamente.

«…anche perché, vista l’età, potrei incontrare gravi problemi a livello psichico»

«Vista l’età? Non starà mica parlando di un neonato? – si lasciò sfuggire Sydney allarmato - Non si può certo…»

«No, stia tranquillo. Non sto parlando del piccolo Baby Parker»

«Io non…»

«Non faccia l’ingenuo con me, Sydney – lo interruppe Cox con falsa cortesia, la sua voce quasi un sibilo - So benissimo che ha effettuato delle analisi sul DNA del piccolo. Immagino che abbia trovato i risultati quantomeno …interessanti»

Raccapriccianti è la parola giusta maledetto bastardo!!!” pensò Sydney tra sé e sé.

«Oh, a dir poco – si limitò poi a replicare pacato – Suppongo che l’anomalia genetica sia opera sua»

«Esattamente – confermò soddisfatto Cox -  Quella piccola modifica lo porterà a sviluppare doti simili a quelle di Jarod ma in una forma assai superiore»

«Quindi Baby Parker è stato inserito nel programma» osservò Sydney, dissimulando tutto l’orrore che provava in quel momento.

«Certo, fin dalla sua nascita – affermò Cox – Ma non è lui il soggetto di cui parlavo prima. Non lo si può certo utilizzare…per il momento – Sydney non poté impedirsi di rabbrividire di collera e disprezzo per le parole di quell’essere inumano - No, io mi riferivo ad un nuovo acquisto del Centro, che sarà qui tra poco»

«Il Centro rapirà un altro bambino?»

«Sì, possiamo dire di sì – asserì tranquillo Cox, con perverso compiacimento - Spero che la cosa non sia un problema per lei Sydney, visto che dovremo…collaborare»

 

Il Centro, Blue Cove - Ufficio di Broots - ore 07:00 p.m.

 

Miss Parker passeggiava nervosamente avanti e indietro di fronte alla scrivania, in attesa che il computer terminasse la scansione dell’ennesimo gruppo di files, alla ricerca di qualcosa legato alla lista.

«Sei assolutamente certo che questa stanza sia sicura Broots?» esordì ad un tratto.

Sapeva benissimo che la domanda era superflua, che naturalmente il tecnico aveva sistemato tutto, ma doveva in qualche modo scaricare la tensione accumulata nelle sue lunghe notti insonni, durante le quali non faceva che rivedere la profonda amarezza negli occhi di Jarod, mentre il suo incubo ricorrente seguitava a tormentarla con oscuri presagi.

«Sì Miss Parker, non preoccuparti – rispose infatti Broots - Non ci sono né microfoni né telecamere qui dentro. Possiamo parlare liberamente»

Di nuovo silenzio, spezzato soltanto dall’inquieto picchiettio dei tacchi a spillo sul pavimento.

«Ancora niente?» chiese di nuovo lei dopo qualche minuto, indicando il computer.

«Non…ah, ecco. La ricerca è finita ora. Nessun risultato purtroppo»

«Maledizione! Deve pur essere da qualche parte!» sbottò esasperata  la donna.

«Non credo che rimangano molti altri archivi da controllare» osservò scettico il tecnico.

«Forse stiamo sbagliando tutto - gli fece eco sfiduciata Miss Parker – Forse non è propriamente una lista ciò che dobbiamo cercare»

«Credo che tu abbia ragione – confermò perplesso Broots – Vista l’importanza dei dati, è probabile che quei nomi siano conservati sotto una qualsiasi forma…numerica ad esempio»

«Un codice vuoi dire?»

«Sì, più o meno. In questo modo potrebbero essere archiviati dovunque, persino sotto il nostro naso, ma sarebbero comunque al sicuro, perché a noi sembrerebbero…che so? Un elenco di fatture, ad esempio»

«Allora ricominceremo a spulciare tutti gli archivi e cercheremo meglio»

«Sarebbe tempo sprecato – commentò dissuasivo lui - Dovremmo avere almeno un indizio per sapere cosa cercare, o meglio la soluzione per decifrare il codice…tipo “Il codice Rebecca”! – esclamò di colpo pimpante - Lo hai letto Miss Parker? Parla di una spia nazista del Cairo che durante la seconda guerra mondiale sottrae segreti militari agli inglesi per poi passarli cifrati a Rommel e…»

«BROOTS!!!» l’interruppe esacerbata la donna, scoccandogli un’occhiataccia raggelante, ma astenendosi dall’apostrofarlo, come suo solito, con ulteriori epiteti ingiuriosi.

«Scu…scusa Miss Parker» bofonchiò intimidito il tecnico. Si lasciava sempre prendere la mano al momento meno opportuno accidenti!

«Accantoniamo la lista per un attimo – continuò lei in tono più composto, dopo un lungo sospiro - Come procede la ricerca nella banca dati della Nugenesis? Scoperto qualcosa su Sean?»

«Per ora no, ma ci sto lavorando. Ho trovato una serie di strani archivi criptati, relativamente recenti. Se davvero Sean è stato concepito in quella clinica, le informazioni che cerchi potrebbero essere lì dentro, ma mi serve ancora un po’ di tempo per decriptare i dati»

«Vedi di sbrigarti -  ammonì lei - Se i sospetti di Syd sono fondati, il tempo è l’unica cosa di cui non disponiamo… a proposito, dov’è Syd?»

«Uhm…credo che sia da Cox, per scoprire se le sue intenzioni su Sean…insomma…»

«Capisco. Tu comunque cerca di accelerare i tempi»

L’uomo stava per assicurarle che lo avrebbe fatto, ma proprio in quel momento il sonoro beep del computer annunciò l’arrivo di un video-messaggio.

«Jarod!» esclamò Broots quando il sorriso sornione del simulatore apparve sullo schermo.

«Ma sei matto a chiamare qui?!» proruppe al donna, la voce carica di rimprovero ed apprensione.

«Non preoccuparti Parker, la linea è protetta – la tranquillizzò pacato Jarod - Volevo informarvi che i viaggiatori sono arrivati a destinazione senza intoppi – annunciò poi, riferendosi naturalmente a Michelle, Nicholas e Debbie -  Sanno già che per la loro sicurezza non devono mettersi in contatto con voi. Tu e Sydney farete altrettanto, intesi Broots?»

«Certo» confermò l’altro sospirando, mentre un’ombra di rammarico gli incupiva lo sguardo.

«So che è difficile stare lontano da chi ami…nessuno lo sa meglio di me, credimi» cercò di consolarlo Jarod.

A quelle parole, il cuore di Miss Parker sembrò chiudersi in una morsa, mentre senso di colpa e frustrazione le procuravano un’irrefrenabile voglia di piangere, ma nulla di tutto ciò trasparì sul suo bel volto.

«Devi farti forza Broots e avere pazienza» riuscì persino a dire in tono rassicurante.

«Useremo la mailbox Rifugio per comunicare – aggiunse Jarod - Ma solo in caso di emergenza»

«D’accordo» assentì Broots.

«Ci sono novità sulla lista?» chiese quindi l’altro.

«Purtroppo no» replicò il tecnico, per poi condividere con lui le conclusioni a cui era giunto poco prima insieme a  Miss Parker.

«Bè, a questo punto, visti i risultati delle nostre ricerche, l’ipotesi di un archivio cifrato è l’unica possibile – convenne Jarod – L’idea mi aveva già sfiorato, ma speravo di sbagliarmi…accidenti! – imprecò – Senza una traccia potremmo tirare ad indovinare per i prossimi vent’anni prima di trovare qualcosa e noi non abbiamo tutto questo tempo!»

«Forse tuo padre potrebbe sapere qualcosa, non credi Miss Parker?» azzardò Broots.

«Mia madre non era sicura che lui fosse al corrente dei veri progetti del Centro – replicò lei ricordando le parole di Catherine registrate sul DSA - Dubito che sappia qualcosa della lista»

«Ho passato al setaccio il suo PC qualche mese fa e non ricordo di aver visto nulla al riguardo» confermò Jarod.

«Allora che altro possiamo fare?» domandò scoraggiato il tecnico, forse più a se stesso che agli altri due.

Un silenzio opprimente, carico d’inquietudine avvolse la stanza.

«E’ inutile girarci intorno – esordì infine Jarod – Se vogliamo scoprire qualcosa, dobbiamo concentrarci su chi ha ideato il complotto, vale a dire sul Triumvirato»

«Ma il Triumvirato risiede in Africa, non si sa nemmeno dove di preciso – obiettò Miss Parker – Come pensi di arrivare alla loro banca dati, ammesso e non concesso che ne esista una?»

«Innanzitutto potremmo concentrarci sull’unico membro del Triumvirato che soggiorna regolarmente al Centro» replicò lui.

«Uhm…a pensarci bene, l’unico archivio che non abbiamo ancora controllato, quindi la nostra ultima speranza – ammise la donna - è il PC personale di Matumbo, che si trova nel suo ufficio, all’ultimo piano della Torre»

«Cosa?! Volete entrare nel computer di Matumbo?! – sussurrò sgomento Broots, rabbrividendo da capo a piedi – Ma è impossibile! A quel PC non si può accedere dagli altri terminali del Centro, perché non è in rete, proprio come quello di Mr. Parker – spiegò, sempre più spaventato dall’idea che presumeva si fosse malauguratamente fatta strada nella mente dei suoi interlocutori – L’unico modo per arrivarci é…sarebbe…intrufolarsi in quell’ufficio e…»

«…ed è esattamente quello che farò» dichiarò Jarod.

«Questo è fuori discussione!» sbottò categorica Miss Parker, con una foga tale da attirare su di sé gli sguardi stupiti di entrambi gli uomini.

Maledizione! Stava facendo l’impossibile pur di tenerlo lontano da lì, aveva persino deciso di rinunciare a lui per questo ed ora lui voleva…ah no! Non glielo avrebbe certo permesso!

«A dire la verità, i sistemi di sicurezza qui al Centro sono quasi triplicati negli ultimi mesi, proprio a causa della tua visita nell’ufficio di Mr. Parker…telecamere, microfoni, agenti di guardia…» gli fece osservare Broots.

«Troverò il modo di eluderli, non temere» asserì sicuro l’altro.

«Non puoi farlo Jarod. E’ troppo rischioso » ribadì la donna con immutata veemenza.

«All…ehm…Parker, ne abbiamo già parlato – replicò per nulla dissuaso il simulatore - Non possiamo evitare di correre rischi se vogliamo portare a termine il progetto di tua madre. E poi lo hai detto tu stessa: il computer di Matumbo è la nostra ultima speranza»

«E’ vero, qualcuno deve entrale là dentro – ammise lei – quindi lo farò io» aggiunse in tono perentorio.

«Cosa?!» esclamò sbigottito Broots, fissandola con gli occhi strabuzzati.

«Parker ragiona – ribatté Jarod, ancora esterrefatto per le sue parole - Quel computer sarà di certo superprotetto. Eludere il sistema non è roba da dilettanti...insomma, non puoi farlo tu!»

«E tu non puoi entrare di nuovo qui dentro! – rimarcò imperiosamente lei. Qualsiasi scusa potesse addurre, non gliel’avrebbe data vinta…mai! – Broots mi aiuterà. Sono sicura che possiamo farcela»

«Co…COSA?!» ripeté questi, a quel punto spaventato a morte. Miss Parker gli aveva spesso imposto compiti rischiosi, ma addirittura l’ufficio di Matumbo…oh santo cielo!!!

«Andiamo! Voi due non avete mai fatto cose del genere!» osservò scettico il simulatore.

«Questo non è del tutto esatto, non è vero Broots?»

Il tecnico fece per ribattere, ma Jarod fu più veloce di lui.

«E come la mettiamo con la sorveglianza? Come farete ad eludere i nuovi sistemi di sicurezza? O credi che non sia rischioso per voi due essere scoperti?!»

«Non quanto lo sarebbe per te»

«Dannazione Parker! – proruppe a quel punto esasperato Jarod - Tutto questo è al di sopra delle tue possibilità, vuoi rendertene conto?!»

«Non esserne tanto sicuro – replicò secca lei - Non sarebbe la prima volta che mi sottovaluti, ragazzo prodigio!»

«Risparmia le tue frecciatine. Non è proprio il momento di giocare a fare la dura!»

«Se pensi che stia giocando significa che non mi conosci poi così bene, genio!»

«Non posso lasciartelo fare. Dal buon esito di questa operazione potrebbe dipendere tutto ciò per cui abbiamo lottato finora, lo capisci?»

«Perfettamente. Solo non capisco cosa ti fa pensare di poterla portare a termine meglio di me»

«Ora basta Parker! – tagliò corto aggressivo, con piglio deciso, in un tono che non ammetteva repliche - Se vuoi entrare là dentro dovrai passare sul mio cadavere!!!»

«Non mi tentare…potrei anche prenderti in parola!!!» sibilò minacciosa Miss Parker, più che mai determinata a non cedere, lo sguardo gelido rivolto verso il monitor. Lui non doveva nemmeno più avvicinarsi al Centro, per nessun motivo!

A quelle parole, Jarod ammutolì, fissando confuso l’espressione oltremodo ostile dipinta sul volto della donna. Ma che le stava succedendo?! Non gli aveva più parlato così dopo Parigi, non lo aveva mai guardato in modo tanto torvo, nemmeno quando erano ancora nemici, quando stava sulla difensiva e non si fidava di lui. Ma perché si comportava così? Non aveva senso. Prima lo aveva allontanato da lei di punto in bianco, ponendo fine alla loro storia ed ora voleva persino impedirgli di entrare al Centro…no, non si era affatto sbagliato, non si stava illudendo. Miss Parker gli nascondeva qualcosa e Jarod era più che mai deciso a scoprire cosa, ma purtroppo avrebbe dovuto farlo in un’altra occasione, non poteva certo affrontare l’argomento in presenza di Broots.

«Hem…ragazzi…voi due state ancora dalla stessa parte…vero?» chiese intanto questi titubante, spezzando il silenzio carico di tensione.

Nessuno dei due rispose, entrambi impegnati a fronteggiarsi con lo sguardo.

Poi Miss Parker girò le spalle ai suoi interlocutori e sospirò, gli occhi chiusi, la mano destra che massaggiava nervosamente la sua fronte. Anche se lo aveva fatto a fin di bene, non avrebbe dovuto aggredirlo a quel modo. Aveva decisamente esagerato, senza contare il fatto che la sua reazione eccessiva aveva di sicuro insospettito Jarod. Doveva subito scusarsi con lui e rimediare al guaio che aveva combinato.

«Perdonami Jarod, non volevo…io…» iniziò a spiegare, ma lui l’interruppe prima che potesse aggiungere altro.

«D’accordo Parker, come vuoi. Sarai tu ad entrare in quell’ufficio – si arrese infatti questi, studiando pensieroso la reazione della donna attraverso il video, nel vano intento di capire cosa avesse in mente  - Ma lo farai a modo mio – quindi si rivolse al tecnico - Avrò bisogno anche di te Broots, perciò preparatevi tutti e due. Domani notte si entra in azione».

 

Casa di Sydney, Blue Cove - ore 10:00 p.m.

 

L’inaspettato trillo del telefono lo colse di sorpresa e lo fece sobbalzare, mentre sedeva alla scrivania del suo studio, immerso nell’attenta analisi dei pochi dati che Cox gli aveva fornito sul nuovo Programma Simulatore.

«Sì, sono Sydney» rispose laconico.

«Secondo te perché non riusciamo a fare a meno di amare?» chiese come sempre senza preamboli la voce di Jarod.

L’espressione dello psicologo si fece di colpo interessata, mentre abbandonava le sue carte e, togliendosi gli occhiali, si appoggiava lentamente allo schienale della sua poltrona.

«Perché l’amore è in assoluto il più intenso dei sentimenti umani – rispose quindi pacato - Più forte della nostra stessa volontà, dei pregiudizi, delle tragedie che ci colpiscono…e checché se ne dica, persino più forte dell’odio»

«Allora è per questo che non possiamo imporci di non amare, anche quando non siamo corrisposti? Perché l’amore è più forte della nostra volontà?»

«Purtroppo è così. Non si può semplicemente premere un interruttore e…»

«Alcune persone sembrano riuscirci però» commentò ironico Jarod con una punta di tristezza nella voce.

«Ti riferisci a qualcuno in particolare?» domandò con falsa noncuranza il dottore.

«Può darsi» fu la sfuggente replica.

«Comunque hai detto bene – continuò Sydney, cercando di tenere a freno la propria curiosità - sembrano riuscirci»

«Che vuoi dire?»

«Che non sempre le cose sono come appaiono, soprattutto riguardo ai sentimenti – chiarì lo psicologo, assumendo un tono quasi accademico – Oramai dovresti averlo capito, dopo cinque anni trascorsi a studiare il genere umano»

«Sì dovrei – ammise Jarod, le labbra increspate in un sorriso appena accennato – Il fatto è che il mio ruolo è sempre stato quello di spettatore e…insomma è molto più facile capire le cose in cui non si è coinvolti»

«Dunque stavolta sei tu ad essere coinvolto? – nessuna risposta – Ad ogni modo l’amore non si può spegnere così come si smorza una candela, te l’assicuro. Possono subentrare problemi e difficoltà più o meno gravi in una relazione, ma se l’amore è sincero sopravvive a tutto»

«Quindi secondo te il vero amore può superare qualunque ostacolo»

«Ne sono convinto – ribadì Sydney - Ma come mai tutte queste domande? C’è forse qualcosa che dovrei sapere?»

«Per il momento è meglio di no» rispose evasivo Jarod.

«Toglimi una curiosità – non poté fare a meno di insistere a quel punto l’altro – Che cosa è successo tra te e Miss Parker a Parigi?»

«Credo sia meglio che tu lo chieda a lei»

«Senti Jarod, non pensi che sia giunto il momento di chiarirvi e capire finalmente cosa provate l’uno per l’altra?»

«Ma io so benissimo che cosa provo per lei, Sydney. E’ Miss Parker a non avere ben chiaro quel che sente per me» spiegò mestamente il simulatore, prima di interrompere la comunicazione.

Lo psicologo sospirò meditabondo. “Lo sospettavo” si disse poi, rimettendosi al lavoro.

 

Cimitero di Blue Cove - ore 08:30 a.m.

 

I tiepidi raggi del sole autunnale filtravano debolmente attraverso l’esile coltre di nuvole e la leggera bruma, avviluppata attorno agli alberi e ai sepolcri insieme al silenzio. Le gocce di rugiada brillavano appena di una luce diafana sulla soffice erbetta e sulle aiuole ben curate. Il cimitero era deserto, fatta eccezione per due figure, avvolte nei loro pesanti cappotti, ferme e taciturne di fronte alla tomba di Catherine Parker.

«Allora è vero – sussurrò ancora sconvolta Miss Parker, distogliendo finalmente lo sguardo dalla lapide, per rivolgerlo verso l’uomo accanto a lei – Quel miserabile necroforo ha usato mio fratello per i suoi subdoli giochetti genetici…ma stavolta non la passerà liscia perché io..!»

«Calmati Miss Parker» Sydney interruppe pacato il collerico sfogo.

«Calmarmi?! Syd, io ho fatto nascere quel bambino e quant’è vero Dio non lascerò che..!»

«Sean ancora non corre rischi per il momento. Non possiamo permetterci di eliminare Cox…non ancora»

«Non possiamo?!»

«Ti ricordo che il Centro sta per rapire un altro bambino e noi dobbiamo assolutamente impedirlo. Purtroppo Cox è l’unico che possa darci le informazioni necessarie, anche se non sarà facile ottenerle. Ha accettato la mia offerta di collaborare, ma non si fida di me, questo è certo»

La donna serrò i pugni, cercando di controllare l’ira ed il ribrezzo che crescevano a dismisura dentro di lei.

«Ne parlerò a mio padre – dichiarò ad un tratto turbata, una flebile nota di speranza nella voce – Forse lui non sa esattamente…lui non permetterebbe mai che…»

«Io non lo farei»

Quelle semplici, franche parole ebbero l’effetto di una poderosa scrollata sul suo castello di illusioni oramai pericolante.

«Syd, tu credi che lui sia..?» mormorò senza concludere la domanda, forse perché non ne aveva il coraggio, o magari perché già conosceva la risposta.

«Non lo so, Miss Parker – confessò lo psicologo con aria grave. Odiava farla soffrire, ma lei doveva pur aprire gli occhi, rendersi finalmente conto che la lealtà incondizionata che nutriva per suo padre era mal riposta. Non poteva permettere che la storia si ripetesse - So soltanto che Catherine ha voluto affidare a te il suo segreto, non a lui. Questo dovrebbe dirti qualcosa»

Lei lo squadrò confusa per un lungo istante, poi sospirò amareggiata. Sua madre aveva inscenato la propria morte ed era arrivata a chiedere aiuto a Raines. C’era un’unica spiegazione per tutto questo.

«La mamma non si fidava di lui» dovette ammettere.

Sydney annuì con rammarico: «Promettimi che nemmeno tu lo farai» le chiese con aria grave.

Miss Parker assentì a sua volta. Lui aveva ragione, come poteva dargli torto? Suo padre le aveva mentito così tante volte da perderne il conto, nascondendosi sempre dietro la scusa di aver agito solo per proteggerla. Ma in verità non aveva mai alzato un dito per impedire al Triumvirato di usare il Centro per  i propri abbietti scopi. Non aveva fatto una sola mossa per salvare sua madre e non avrebbe fatto nulla per difendere lei. Il motivo, la finalità di questo suo comportamento ambiguo non le erano del tutto chiari, ma sospettava che non fossero affatto nobili. Questa era la realtà e, sebbene a malincuore, doveva accettarla.

«Dobbiamo scoprire l’identità del bambino prima che il Centro riesca a mettergli le mani addosso – esordì di nuovo risoluta - Cosa sappiamo di lui?»

«Molto poco, purtroppo. Ho scoperto soltanto che verrà utilizzato per un progetto collegato al programma simulatore ideato da Raines e…che non si tratta di un bambino, ma di un’adolescente»

«Cosa?!»

«Da quanto ho potuto capire, Raines aveva seguito passo a passo lo sviluppo del bambino in seno alla sua famiglia con l’intento di… prelevarlo quando lo avesse ritenuto opportuno»

«Ma è mostruoso!»

«Lo so. E il fatto di dover stare a qui guardare mi fa impazzire!»

«Noi non staremo a guardare – dichiarò categorica Miss Parker – Sono certa che scopriremo chi è quel bambino, passando al setaccio gli archivi dell’unico posto in cui può essere stato concepito»

«La Nugenesis…sì, è molto probabile» convenne Sydney.

«Dirò subito a Broots di mettersi al lavoro. Tu intanto continua a tener d’occhio Cox e informaci subito se ci sono novità».

 

Il Centro, Blue Cove - Ufficio di Mr. Parker - ore 10:00 a.m.

 

Miss Parker posò le mani sulle possenti maniglie d’acciaio e fece per aprire la porta a vetri dell’ufficio di suo padre, ma improvvisamente esitò, chiedendosi ancora una volta se ciò che stava per fare fosse davvero necessario. Aveva promesso a Sydney che non si sarebbe più fidata di quell’uomo, lo stesso che forse aveva tradito sua madre, che sicuramente aveva sempre ingannato lei, che non aveva mai ricambiato il suo affetto e la sua devozione. Lo aveva promesso e non aveva intenzione di venir meno ai suoi propositi, ma quell’uomo era pur sempre suo padre e lei non poteva non concedergli il beneficio del dubbio.

Si rendeva conto che era un’imprudenza, che così facendo rischiava di scoprire le sue vere intenzioni, mettendo in pericolo la sua incolumità, ma doveva assolutamente capire perché suo padre si fosse fatto coinvolgere nell’ignobile progetto di Cox. Voleva la verità, anche se sapeva che avrebbe dovuto cercarla attentamente tra le righe delle sue risposte ambigue.

La donna trasse un profondo respiro e con la solita espressione altera dipinta sul bel volto entrò infine nell’ufficio del direttore del Centro.

«Angelo!» l’apostrofò questi col suo solito tono mellifluo, salutandola con un freddo bacio sulla fronte.

«Buongiorno papà»

«Che posso fare per te tesoro?» tagliò corto l’uomo, evidentemente ansioso di liberarsi quanto prima di lei.

«Potresti dirmi che cos’hai in mente, per esempio» replicò lei senza mezzi termini, studiando la reazione di suo padre.

«Non capisco cosa intendi» replicò questi visibilmente a disagio, sfuggendo lo sguardo inquisitorio della figlia. Aveva forse saputo di lui?!

«Sono molto preoccupata per Sean papà. E’ soltanto un bambino e non dovrebbe passare le sue giornate rinchiuso nell’Ala Rinnovamento. Quel posto mette i brividi»

«Bè…ecco… - Mr. Parker assunse di colpo un’espressione più rilassata, quasi fosse appena scampato ad una grave insidia – Sì, forse quello non è propriamente il luogo adatto per far crescere un bambino, ma non dimenticare che il piccolo Parker ha avuto gravi problemi di salute. Ha rischiato più volte la crisi respiratoria e…»

«Ma oramai è guarito – obiettò Miss Parker – Raines stesso lo aveva già dichiarato fuori pericolo»

«Lo so, lo so. Ma vedi Angelo, Baby Parker non è un bambino normale»

«Ah no? Non è forse figlio tuo e di Brigitte?» domandò a bruciapelo.

«Ma…ma certo tesoro…cosa..?» balbettò Mr. Parker di nuovo in agitazione. Forse il pericolo non era affatto scampato, dopotutto.

«Papà, conosco i risultati delle analisi sul suo DNA – Miss Parker fissava severa il volto dell’uomo, ridotto ormai ad una maschera di ghiaccio priva di emozioni. Lui sapeva di essere stato colto in fallo e non aveva nessuna scusa – So che Sean è stato concepito in vitro e che biologicamente non è figlio tuo, né di Brigitte. Quello che voglio sapere è…papà, per favore, dimmi che non l’hai fatto solo per ottenere una cavia da laboratorio»

«Ma che cosa dici tesoro?! – replicò a quel punto lui sdegnato - Io e Brigitte lo abbiamo salvato!»

«Salvato da chi?»

«Quel piccolo embrione congelato era destinato ad essere soppresso»

«Cosa?»

«E’ la verità – proseguì Mr. Parker atteggiando il proprio volto ad un’espressione addolorata e compassionevole che davvero non gli si addiceva – Io e Brigitte desideravamo tanto un figlio, ma non siamo mai riusciti a concepirlo, così ci rivolgemmo alla Nugenesis»

«Questo già lo sapevo» commentò scettica la donna.

«Lì apprendemmo che i genitori biologici di Sean erano morti in un incidente stradale proprio mentre si recavano alla clinica per sottoporre la madre all’innesto e che in assenza di altri famigliari che potessero reclamare l’embrione questo sarebbe stato eliminato, così…»

«…così, mossi da umana compassione, decideste di adottarlo, in senso molto allargato, anche se la cosa era a dir poco illegale – proruppe Miss Parker scrutando suo padre con evidente ostilità – E naturalmente non ti passò nemmeno per l’anticamera del cervello di informare tua figlia dell’accaduto»

«So che avrei dovuto essere io a dirtelo – ammise lui con aria colpevole, per poi aggiungere in tono palesemente adulatorio – Anche perché era inevitabile che lo scoprissi da sola prima o poi, vista la tua…»

«Non cercare di addolcirmi con le lusinghe!» lo interruppe lei stizzita.

«Tesoro io non…»

«Piuttosto, c’è per caso qualcos’altro che dovrei sapere?» domandò decisa, guardandolo dritta in quei suoi occhi sfuggenti.

«Altro? Perché questo non ti sembra forse abbastanza?» replicò l’uomo con ostentata disinvoltura.

«Oh a me sembrerebbe anche troppo, ma non saprei dire se tu e il caro Dr. Cox sareste d’accordo» ribadì Miss Parker continuando a sostenere risoluta lo sguardo di suo padre.

«Che c’entra Cox adesso?» chiese questi con aria innocente.

“Perché non me lo dici tu? Dimmi per quale motivo hai approvato ciò che sta facendo Cox nell’Ala Rinnovamento e come hai potuto coinvolgere mio fratello in tutto questo?! Come puoi permettere che un altro ragazzino innocente venga strappato alla sua famiglia?! Perché lo stai facendo, perché non mi dici tutta la verità una buona volta?!” stava per gridargli esasperata, ma qualcosa la fermò. Forse il suo senso interiore o forse la mano benevola di sua madre, che si posava lieve sulla sua spalla per dirle di non correre inutilmente altri rischi. Non ne era certa.

Sapeva soltanto che, nonostante il forte senso di frustrazione, a dispetto della rabbia e della delusione che provava in quel momento a causa di suo padre, si limitò ad esibire un sorrisetto enigmatico, a distogliere lo sguardo con aria nauseata e a girare sui tacchi senza aggiungere altro.

Sapeva soltanto…anzi, a quel punto ne aveva l’assoluta certezza, che non poteva fidarsi di quell’uomo.

 

Blue Cove – In un furgone anonimo a pochi passi dal Centro – ore 00:30 a.m.

 

«Tutto a posto lì dentro Broots?»

«Sì qui è tutto normale - rispose il tecnico dal suo ufficio, attraverso il monitor – Potete procedere»

Jarod si volse allora verso Miss Parker, che aveva appena completato la sua preparazione: pantaloni spessi e morbidi, maglioncino dolcevita caldo e leggero, scarpe da palestra comode e silenziose, il tutto rigorosamente nero…ah e una fondina, con l’immancabile Smith & Wesson.

«Allora? Che te ne pare?» gli chiese compiaciuta, facendo un giro su sé stessa.

«Niente male per una principiante..! – commentò beffardo lui, ricevendo in cambio una torva occhiataccia – Ma dovrai indossare anche i guanti per non lasciare impronte e questo passamontagna – le disse porgendole gli indumenti - in modo che se qualcosa andasse storto e le telecamere dovessero entrare in funzione al momento sbagliato nessuno ti riconoscerà…per lo meno non con assoluta certezza»

Mentre lei indossava guanti e berretto, Jarod le sistemò l’auricolare ed il sensore di movimento, quindi le mise sulle spalle lo zainetto contenete l’attrezzatura di cui avrebbe avuto bisogno e le consegnò la piccola torcia.

«Parker - c’erano una quantità di cose che avrebbe voluto dirle, chiederle…non voglio che tu vada…cos’è che mi stai nascondendo..? mi manchi da morire…tuttavia non era certo quello il momento adatto, perciò si limitò a guardarla dritto negli occhi con aria inquieta e a raccomandarle - Sta attenta»

Miss Parker lo fissò a sua volta. Per una frazione di secondo fu tentata di buttargli le braccia al collo, confessargli che aveva mentito, che niente era cambiato nel suo cuore, cha aveva tanta paura e che aveva tremendamente bisogno di lui…ma dovette resistere.

«Tranquillo – replicò infatti con ostentata sicurezza - Non farò niente che tu non faresti»

«E’ questo che mi preoccupa» mormorò impensierito lui guardandola allontanarsi, finché l’oscurità della notte, fredda e senza stelle, non l’ebbe inghiottita.

Jarod si sedette di nuovo alla consolle che aveva allestito nel furgone ed accese il secondo monitor, così, accanto al volto teso di Broots, comparve la mappa dell’impianto di aerazione fornitagli proprio dal tecnico, sulla quale avrebbe seguito e guidato le mosse di Miss Parker, grazie al sensore.

Dopo qualche minuto, un’osservazione dal tono disgustato, gl’indicò che la donna era giunta alla sua personale via segreta d’accesso al Centro: lo scarico della fognatura.

«Dio che schifo!»

«Non lagnarti tanto Parker! Sei stata tu ad insistere per farlo, no?» commentò la voce ironica di Jarod nell’auricolare.

«Sì…sì -  borbottò lei avanzando nella melma che le arrivava alle caviglie, in quella sorta di tunnel alto poco più di un uomo, impregnato di umidità e di vapori nauseabondi – Francamente non riesco a spiegarmi come in tutti questi anni nessuno sia mai riuscito a capire come entri ed esci dal Centro. Una volta passato di qui ti si riconosce dall’odore!»

«Che vuoi che ti dica, Parker? Forse i segugi del Centro non hanno abbastanza…fiuto

«Molto divertente!»

«Ci sei quasi. Oramai dovresti vedere la botola»

Miss Parker alzò il fascio di luce della torcia verso il soffitto del tunnel e vide la chiusura stagna del portello di cui Jarod le aveva parlato.

«Sì, eccola»

Tenendo la torcia tra i denti, la donna fece girare il volantino, dapprima a fatica, poi più agevolmente finché non riuscì ad aprire il tombino spingendo il portello verso l’alto. Quindi, con un leggero balzo, si appese per le mani al bordo e si issò agilmente attraverso l’apertura, ritrovandosi sul pavimento di un’angusta stanzetta buia, odorante di muffa e d’immondizia.

«Sono nel vano di servizio» disse mentre si guardava attorno spostando lentamente la luce della torcia.

Era incredibile che il Centro ignorasse l’esistenza di quel vecchio stanzino, utilizzato per la manutenzione durante i primi anni di vita dell’edificio e poi andato in disuso, che collegava ancora l’impianto fognario con quello di ventilazione. Come al solito, Jarod era sempre un passo avanti a loro.

«Hai visto la presa dell’impianto di aerazione?»

«Sì» confermò lei, notandola accanto alla porta arrugginita, che probabilmente un tempo dava accesso al SL-1.

«Okay. Ora togli la grata ed entra nel condotto, poi procedi verso sinistra»

Miss Parker obbedì ed iniziò ad avviarsi carponi in quel dedalo di cunicoli bui, impolverati ed infestati da enormi ragnatele, nella direzione che di volta in volta Jarod le indicava…destra, sinistra, ora sali…fino a raggiungere finalmente la meta, cioè ad intravedere oltre la grata l’ufficio di Matumbo, deserto ed immerso nell’oscurità.

«Sono in posizione – avvisò – Broots?»

«Eccomi – rispose pronto questi – Meno tre…due…uno…okay Miss Parker, il filmato è partito. Hai dieci minuti»

«Bene - assentì lei, quindi tolse la grata e l’appoggiò con cautela alla parete del condotto, calò a terra la fune che le sarebbe poi servita per andarsene, dopodiché si sistemò il passamontagna sul viso e raggiunse con un salto il pavimento, senza fare il minimo rumore – Sono entrata» sussurrò poi a Jarod.

La luce dei fari, disposti lungo il perimetro esterno dell’edificio filtrava attraverso la grande vetrata, che costituiva la parete destra della stanza, da cui si dominavano il parco ed il lago, ma non era abbastanza intensa da permetterle di fare a meno della torcia.

«Per prima cosa metti fuori uso l’audio» le ricordò Jarod.

Miss Parker estrasse la bomboletta spray dallo zainetto e ne spruzzò il contenuto sul piccolo microfono installato alla base della telecamera: l’acido avrebbe prodotto lo stesso effetto di un corto circuito.

«Fatto»

«Ora accendi il PC e collega il decodificatore all’uscita per il modem…sai qual è, vero?» la punzecchiò Jarod.

«Spiritoso!» replicò ironica la donna mentre inseriva il jack del piccolo dispositivo, per poi metterlo in funzione.

Dopo una manciata di secondi, il led rosso iniziò a lampeggiare e uno ad uno, lentamente, gli asterischi che componevano la password comparvero sul monitor: “power” indicava il display dello strumento.

“Ma che fantasia!” commentò sarcastica Miss Parker tra sé e sé, prima di confermare: «Accesso consentito»

«Bene. Ora stacca il decodificatore e collega il modem che hai con te al PC e al tuo cellulare, poi configuralo…lo sai come si fa?»

«Fingerò di non aver sentito! – replicò stizzita lei - Okay, fatto» aggiunse poco dopo.

«Adesso inserisci il floppy nel drive “A” e lancia il programma, che farà una copia di tutti i files del PC e li trasferirà automaticamente via modem al portatile di Broots»

«Okay, l’operazione è cominciata – confermò la donna  passato qualche istante - Ricevi qualcosa Broots?»

«Sì, i dati stanno arrivando regolarmente – assicurò il tecnico - Miss Parker, hai ancora cinque minuti prima che la telecamera rientri in funzione e prima che la guardia arrivi per il giro di…oh no!» esclamò di colpo contrariato.

«Che c’è?» chiesero all’unisono gli altri due.

«Il sorvegliante è già all’ultimo piano, ma non dovrebbe ancora esserci…insomma è in anticipo e questo significa che abbiamo solo quattro minuti maledizione!» farfugliò Broots tutto d’un fiato.

«Non ti agitare – lo ammonì la donna – Ci vorranno ancora tre minuti scarsi per completare il trasferimento. Sarò fuori di qui prima che arrivi il nostro amico»

Nell’attesa che l’invio dei dati fosse completato, Miss Parker si dette un’occhiata intorno: l’ufficio di Matumbo era arredato in modo decisamente minimalista…per non dire impersonale. Niente schedari per conservare documenti, né mobili o suppellettili che rivelassero un gusto soggettivo. Soltanto la grande scrivania in mogano, i cui cassetti erano vuoti,  con la poltrona in pelle nera sulla quale si era seduta e un divano dall’aria assai scomoda sul lato opposto della stanza. Bè, dopotutto Matumbo passava in quel posto solo pochi mesi all’anno, non c’era da stupirsi che l’unica nota di colore in quella stanza fossero le grandi fotografie raffiguranti paesaggi africani appese alle pareti…anzi no, c’era persino un quadro. Incuriosita, la donna lo illuminò meglio con la torcia e un profondo stupore si dipinse all’istante sul suo volto: “ Non è possibile…”

Si trattava di un dipinto astratto e rappresentava tre figure umane, incolori, le cui forme stilizzate erano delineate da un gioco di luci ed ombre. I tre soggetti si stagliavano contro uno sfondo piatto e monocromatico rosso vermiglio ed incombevano minacciosi su quello che probabilmente era un paesaggio…o meglio ciò che ne rimaneva, vale a dire un cumulo di rovine. La figura centrale, la più alta delle tre, reggeva tra le mani un bizzarro oggetto, grossomodo a forma di rombo, anche se assai irregolare. Sembrava quasi un pesce stilizzato…anzi no, piuttosto uno strano utensile…e il nome dell’autore? Miss Parker spostò il fascio di luce in basso a destra e come in un’inquietante déjà-vu, lesse quel nome scritto sulla tela…Doom.

“Ma come può essere..?!”

Il leggero beep proveniente dal computer attirò l’attenzione della donna e la riportò repentina alla realtà.

Non aveva tempo per i suoi misteri paranormali in quel momento. Aveva una missione da compiere.

«Operazione terminata – annunciò – Ora scollego il modem e spengo tutto»

«Hai quarantacinque secondi» l’avvertì Broots palesemente in ansia.

«Sbrigati» l’incalzò anche Jarod.

In pochi istanti Miss Parker ripose l’attrezzatura nello zainetto e fece per andarsene, ma alzandosi notò l’angolo di un foglio che spuntava sotto la cassettiera della scrivania.

“E questo cos’è? - si chiese raccogliendo quello che sembrava un memorandum destinato al cestino – Oh mio Dio!” si disse iniziando a leggere .

«Miss Parker, hai trentacinque secondi!»

«Un momento» mormorò lei mentre cercava di memorizzare quanto più possibile di ciò che aveva scoperto.

«Ma che stai facendo?!» chiese impaziente Jarod.

«Ho trovato qualcosa che…» provò a spiegare senza staccare gli occhi sbarrati dal foglio.

«Venti secondi…la guardia è già nel corridoio!» insistette Broots sempre più agitato.

«Dannazione Parker esci subito di lì!!!» sbottò allarmato Jarod nell’auricolare.

Miss Parker rimise il foglio dove lo aveva trovato, afferrò lo zainetto e raggiunse svelta il condotto di aerazione.

«Dieci secondi…se continuo così mi verrà un infarto!»

Facendo attenzione a non lasciare segni sulla parete, la donna si arrampicò agilmente fino alla presa e s’infilò nell’apertura, poi raccolse rapidamente la fune.

«Santo cielo…cinque secondi…» continuò Broots stropicciandosi nervosamente le mani.

«Parker?!» esclamò preoccupato Jarod, alzandosi di scatto intenzionato a raggiungerla.

«Tranquilli, sono già nel condotto» sussurrò la donna, accingendosi a richiudere la presa d’aria…purtroppo non aveva notato quella bava così appuntita quando aveva tolto la grata per entrare.

L’aculeo trapassò la sottile protezione del guanto e si conficcò nel palmo della sua mano destra proprio nel medesimo istante in cui la guardia aprì la porta dell’ufficio. Miss Parker soffocò un grido, ma non riuscì a controllare il sommesso gemito di dolore che uscì dalla sua gola, né ad impedire che la sua mano ferita allentasse la stretta sulla grata quel tanto necessario a farla inesorabilmente scivolare verso il basso.

Tutto si svolse in una frazione di secondo.

La guardia stava alzando il fascio di luce della propria torcia verso la presa d’aria. Cercando invano di riafferrarla, la donna già immaginava la scena che di lì a poco si sarebbe svolta: il sorvegliante si sarebbe reso conto che la grata mancava, dopodiché si sarebbe accorto di lei e avrebbe dato l’allarme e magari le avrebbe puntato contro una pistola e lei sarebbe stata costretta ad usare la sua…e questo sarebbe stato un gran bel guaio maledizione!!!

Ma quando credeva che fosse ormai troppo tardi per evitare l’inevitabile, qualcosa le sfiorò improvvisamente le spalle, una mano aveva già afferrato il lato destro della grata prima ancora che lei tentasse di riacciuffarla e l’aiutò a rimetterla a posto giusto in tempo, perché la luce della torcia raggiunse la presa d’aria giusto un istante dopo.

Stupita e spaventata, Miss Parker trattenne nuovamente un grido mentre si voltava di scatto. Ma poi riconobbe i capelli biondi sempre arruffati e i grandi occhi azzurri, imperscrutabili sul volto irregolare, dall’aria perennemente assente. Entrambi trattennero il respiro per pochi ma interminabili secondi,  finché la guardia riabbassò la torcia e borbottando un: «Ancora quei dannati topi!» uscì dall’ufficio per continuare il proprio giro.

«Che fortuna che ti trovassi a passare di qua!» esclamò sottovoce la donna, tirando un sospiro di sollievo.

Era incredibile come quello strano individuo riuscisse sempre ad essere nel posto giusto al momento giusto.

Lui si limitò ad alzare le spalle, sorridendole con quel suo buffo ghigno, quindi si allontanò, muovendosi svelto e silenzioso fino a sparire, inghiottito dal labirinto di cunicoli da cui era venuto e che conosceva come le sue tasche.

«Miss Parker…sei ancora lì?» chiese la voce titubante di Broots nell’auricolare.

«E’ tutto a posto?» gli fece subito eco Jarod.

«Sì, non preoccupatevi. Va tutto bene, grazie al nostro…Angelo custode!»

 

Rifugio di Jarod – Dover, Delaware – ore 01:00 p.m.

 

Scorrendo con lo sguardo l’ennesima videata sul monitor del suo portatile, Jarod si sentiva gli occhi bruciare. Da ore stava fissando costantemente il video, scacciando il sonno a colpi di caffè e caramelle PEZ, ma purtroppo la sua ricerca ancora non aveva dato alcun esito. Era sfinito, dopo un’altra notte insonne, eppure non poteva arrendersi, doveva assolutamente scoprire chi fosse quella persona…

Senza lasciare lo sgabello sul quale sedeva ormai da troppo tempo, cercò un po’ di sollievo massaggiandosi il collo e le tempie, mentre ripensava alla sua ultima conversazione con Miss Parker.

«La vita di un uomo è in grave pericolo!» gli aveva rivelato concitata la notte precedente, una volta raggiunto il furgone, prima che lui potesse rimproverarla per la sua bravata.

«Cosa?»

«Si tratta di un certo agente Frank Dawson»

«Chi diavolo è Frank Dawson?»

«Non ne ho idea. Un poliziotto forse.  So soltanto che il Centro lo vuole morto e che l’omicidio avverrà nelle prossime ventiquattro ore»

Quell’incosciente aveva rischiato di farsi scoprire per leggere le informazioni su di un memo trovato per caso, che Lyle aveva indirizzato a Matumbo in persona. Però ne era valsa la pena. Gli restava poco tempo, ma forse poteva ancora fare qualcosa.

Tuttavia, per poter intervenire, doveva scoprire chi fosse la vittima predestinata. Così, lasciato a Broots il compito di esaminare i files sottratti a Matumbo, aveva passato il resto della notte e l’intera mattinata a forzare protezioni e a spulciare archivi su archivi, incluse le banche dati della Polizia, dell’FBI e della DEA, in cerca di un eventuale “agente Frank Dawson”. Niente da fare.

Da qualche minuto stava esaminando i files dell’NSA…

«Eccoti finalmente!» esclamò soddisfatto scorrendo velocemente la scheda che aveva appena trovato.

Non c’era un minuto da perdere: doveva partire subito per Washington.

 

Ashland High School – Ashland, Wisconsin – ore 12:30 a.m.

 

Il trillo della campanella segnò finalmente la fine della lezione, giusto un attimo prima che la noia lo uccidesse!

Jay si affrettò ad infilare i libri nello zaino e a sgattaiolare fuori dall’aula dell’arcigna professoressa Potter.

La sua innata curiosità di conoscere in tutte le sue forme quel mondo che gli era sempre stato negato e la sua incredibile capacità di apprendimento lo portavano ad apprezzare praticamente tutte le materie del suo programma di studi, ma la storia antica…che strazio!

A dire la verità, forse non era solo la sua avversione per il passato remoto a rendergli così insopportabile l’ultima lezione della mattinata…Jay accennò un sorriso mentre si affrettava verso l’uscita: sì, forse il vero motivo era un altro, magari la speranza che Kimberly lo stesse aspettando al solito posto, per non parlare del fatto che lui moriva dalla voglia di vederla!

Il loro non era un vero e proprio appuntamento, ma da quando si erano incontrati la prima volta, vale a dire da un paio di settimane, si trovavano casualmente a passare entrambi per il parco alla fine delle lezioni del mattino e Jay non voleva certo venir meno a quel loro tacito accordo.

Frequentava Kimberly da pochissimo tempo, eppure aveva l’impressione di conoscerla da sempre. Anche se non gli era possibile raccontarle tutta la verità su se stesso, con lei poteva parlare come con nessun altro. Sapeva che era assurdo, eppure quella ragazza sembrava riuscire a capire perfettamente ciò che sentiva, i suoi problemi con la famiglia, il suo trovarsi sempre come un pesce fuor d’acqua accanto ai suoi coetanei. Pareva comprendere il suo disagio e condivideva la sua stessa sete di sapere più di quanto le venisse insegnato sugli argomenti più disparati, dall’astronomia alla fisica quantistica. Kimberly era diversa, così incredibilmente simile a lui…era talmente intelligente, sensibile e…in ritardo!

“Strano. Non è ancora arrivata – si disse infatti Jay non vedendola seduta sulla solita panchina, prima di cominciare guardarsi intorno perplesso. Poi il suo volto si illuminò, non appena vide spuntare i suoi lunghi capelli biondi tra la miriade di studenti che affollavano il parco – Ah, eccola!” esultò, facendole un cenno con la mano.

Ma il sorriso gli morì di colpo sulle labbra quando si accorse di quei due uomini alle spalle della ragazza…giacca e cravatta, occhiali scuri, aria infida. Riconobbe all’instante quello afroamericano e il sangue parve congelarglisi nelle vene: era Willie, l’uomo di fiducia del Dr. Raines ed era sicuramente lì per lui.

Lo sguardo agghiacciato, le mani sudate, il cuore che gli batteva nel petto come un tamburo impazzito, un lungo brivido che gli percorreva la schiena, facendolo tremare da capo a piedi, al solo pensiero di essere di nuovo rinchiuso in quella prigione crudele e spaventosa che era il Centro: Jay era pietrificato dalla paura.

Ma cosa aspettava ancora lì impalato?! Doveva scappare, nascondersi, doveva…un momento…che stavano facendo quei due?!

Gli spazzini sembravano non aver notato la sua presenza, infatti si erano avvicinati a Kimberly e le avevano afferrato un braccio. La ragazza, sorpresa e spaventata, tentò dapprima di divincolarsi, poi iniziò di colpo a barcollare, guardandosi intorno con lo sguardo inebetito. L’avevano senz’altro drogata, inducendola così a seguirli mansueta, per salire sulla berlina scura parcheggiata lì a pochi metri, che poi si allontanò senza fretta e senza dare nell’occhio.

Jay assistette impotente e disorientato alla scena: che cosa poteva mai volere il Centro da Kimberly?

“Non ha importanza il perché l’abbiano presa - si disse ad un tratto, scuotendosi deciso da quella sorta di stato catatonico in cui era piombato - Non permetterò che le facciano del male”.

Sapeva fin troppo bene dove l’avrebbero portata. Doveva agire in fretta e liberarla dalle grinfie di quegli aguzzini prima che per lei fosse troppo tardi. A qualunque costo.

 

Casa affittata dal Maggiore Charles – Ashland, Wisconsin – ore 01:30 p.m.

 

Ripetendo un rituale ormai quotidiano, Emily chiuse la porta, posò le chiavi sul tavolino accanto all’ingresso e si tolse il pesante cappotto.

«Jay sono a casa» disse ad alta voce, avviandosi a lunghi passi verso la cucina per preparare il pranzo.

Come sempre aveva i minuti contati, quindi si diresse decisa verso il frigorifero e poi si mise ai fornelli, intenta a scaldare il solito cibo precotto, mentre già pianificava mentalmente ciò che avrebbe fatto al lavoro nel pomeriggio.

Solo in seguito si rese conto che la tavola non era apparecchiata, la TV non era accesa, il giubbotto e lo zaino non erano appoggiati sulla solita sedia, insomma che suo fratello non era ancora rincasato, quindi notò il biglietto con su scritto il suo nome accanto al cesto della frutta e di colpo turbata, lo aprì.

Diceva soltanto: “Devo andarmene per un po’. Non stare in pensiero e non cercarmi. Jay”.

Per una frazione di secondo sentì di essere ferocemente arrabbiata con quel ragazzino sconsiderato e troppo impulsivo, che sicuramente stava per fare qualcosa di estremamente stupido. Poi la paura prese il sopravvento: e se lo avessero catturato loro..? No, in quel caso non avrebbe certo lasciato un biglietto…forse lo avevano indotto ad andarsene con l’inganno, attirato in una trappola…oddio non voleva nemmeno pensarci!

E poi no, Jay era imprudente ma non era affatto uno sciocco. Ma dove diavolo poteva essere andato allora?

E perché?!

Un’idea terribile si fece di colpo strada nella sua mente: e se fosse partito a causa sua? Lei non era stata capace capirlo, di stargli vicino, non aveva saputo dimostrargli quanto gli volesse bene e lui aveva deciso di cercare altrove ciò che lei non era in grado di dargli.

Avvilita e amareggiata, Emily si accasciò sulla seggiola, incapace di staccare gli occhi da quelle poche parole scritte di fretta…sì, era tutta colpa sua. Non solo era stata incapace di essere una vera sorella per Jay, ma aveva tradito la fiducia di Jarod e di suo padre, che contavano su di lei affinché si occupasse di lui.

Ma non erano soltanto delusione e senso di colpa a darle il tormento. Emily era soprattutto angosciata, terrorizzata per ciò che sarebbe potuto accadere a suo fratello. Jay era sempre così avventato…e se si fosse fidato delle persone sbagliate..? O avesse attirato su di sé  l’attenzione del Centro..? Oh no! Doveva cercarlo…trovarlo…ma come?!

A pensarci bene, c’era una sola cosa che potesse fare.

 

Aeroporto di Dover, Delaware – ore 03:00 p.m.

 

Jarod mise in tasca il telefonino e si avviò verso il cancello d’imbarco del volo in partenza per Washington. Aveva appena informato Miss Parker del buon esito delle sue ricerche ma lei gli aveva rivelato che la squadra di Lyle era partita non molto tempo prima, probabilmente col compito di eliminare Frank Dawson. Poteva solo incrociare le dita e sperare di arrivare in tempo.

Lo squillo del cellulare interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri.

«Sì»

«Jarod…è successa una cosa terribile…»

Quella voce tremante gli disse che la donna era quasi sul punto di scoppiare a piangere.

«Emily..?»

«E’ stata tutta colpa mia…» sussurrò incapace di trattenere oltre i singhiozzi.

«Emily, ora calmati e dimmi cosa è successo» le disse pacato, cercando di nascondere il brutto presentimento che già stava facendosi strada nella sua mente.

Seguì un penoso silenzio, poi un lungo sospiro.

«Jay se n’è andato»

 

Il Centro, Blue Cove – ore 03:05 p.m.

 

Senza prendersi la briga di bussare, Miss Parker era appena entrata risoluta nell’ufficio di Broots, facendo sobbalzare il tecnico sulla sedia, quando il suo cellulare suonò di nuovo.

«Parker» rispose scocciata, richiudendosi la porta alle spalle.

«Sono ancora io»

«Che ti prende?» chiese impensierita dal tono cupo della voce di Jarod.

«Devi farmi un favore»

«Certo ma…»

«Mio fratello se n’è andato di casa»

«Gem…volevo dire Jay?!»

«Sì, Emily è sconvolta…non so cosa stia passando per la testa di quel ragazzo! Non ci voleva proprio in questo momento dannazione!»

«Bè, è un adolescente. E non ha certo avuto una vita facile finora – cercò di tranquillizzarlo, intuendo quanto fosse in ansia per il fratello - Forse sta solo cercando un modo per sbollire la sua rabbia»

«Già - Jarod sospirò. La sua angoscia era quasi tangibile – Ad ogni modo, il mio volo sta per partire e come sai non posso perderlo»

«Cosa vuoi che faccia?»

«Niente, per il momento. Ho avvisato mio padre, penserà lui a cercare Jay. Ma ho paura che possa commettere qualche sciocchezza e farsi notare dalle persone sbagliate…mi capisci?»

«Sì, non preoccuparti. Terrò gli occhi aperti e Broots farà altrettanto»

«Grazie Allison…io… - avrebbe voluto dirle altro ma in quel momento aveva troppe cose per la testa - Ora devo proprio andare»

Miss Parker ripose impassibile il telefonino nella tasca del suo elegante tailleur, nascondendo come sempre alla perfezione i suoi veri sentimenti.

«Riguardo a cosa dovrei tenere gli occhi aperti?» chiese il tecnico.

La donna lo mise brevemente al corrente della situazione, poi gli domandò: «A che punto sei con quei files?»

«Ehm…non li ho ancora esaminati tutti, ma finora non ho trovato niente circa la lista» disse lui titubante, ben sapendo che il suo capo non avrebbe gradito la notizia.

«Maledizione!» imprecò infatti lei prendendo a passeggiare nervosamente avanti e indietro, le braccia incrociate al petto.

«Però…» azzardò incerto Broots dopo un breve istante.

«Però?»

La donna lo fissò incuriosita, alzando un sopracciglio.

«Ecco…qui ci sono tutte le schede personali di coloro che lavorano o hanno lavorato per il Centro e…»

«E allora?! – sbottò acida Miss Parker, cercando di resistere alla tentazione di inveire sul poveretto - Andiamo Broots non metterti a parlare per enigmi! Cos’hai scoperto?!»

«Forse è meglio che guardi tu stessa»

Miss Parker girò seccata intorno al tavolo per portarsi alle spalle del tecnico, quindi rivolse lo sguardo al video con aria di sufficienza, salvo poi sgranare di colpo gli occhi sbalordita. Quasi le prese un colpo quando vide quella foto, archiviata accanto ai dati che la riguardavano…

 

Sede centrale dell’NSA – Washington D.C. – ore 08:30 p.m.

 

Jarod scese con aria disinvolta dall’auto e, mentre attraversava il parcheggio sotterraneo diretto all’ascensore, appuntò sulla giacca del suo impeccabile completo scuro il finto tesserino, che lo identificava come l’agente Jarod Nash dell’NSA.

Reggendo in mano un fascicolo contenente i documenti fittizi attestanti il suo preteso trasferimento dall’unità operativa di Los Angeles a quella di Washington, Jarod premette il pulsante e attese l’arrivo della cabina.

Chiuse gli occhi per un attimo ed espirò profondamente, quasi volesse imporre a se stesso di liberarsi del suo vero io e delle sue inquietudini per fare spazio ad una nuova identità. Non doveva più pensare ai suoi problemi con Miss Parker o alla sua apprensione per Jay, da quel momento in poi non poteva più permettersi di indugiare sulle sue preoccupazioni personali. Doveva concentrarsi soltanto sulla sua simulazione, se non voleva rischiare di fallire o di farsi scoprire.

Tornò con la mente alle informazioni che aveva trovato negli archivi dell’NSA: l’agente Frank Dawson aveva uno stato di servizio impeccabile, si era costruito una brillante carriera, costellata di successi nella lotta alla corruzione e al crimine organizzato ed era ormai alle soglie della pensione. Nessun collegamento apparente coi Parker o con le società fantasma gestite dall’organizzazione di Blue Cove, nei casi che aveva seguito e risolto: perché mai il Centro doveva volerlo morto? Per quale motivo lo considerava una minaccia?

Ripensò ancora al memo di Lyle scritto alle nove di sera di due giorni prima: “L’agente Frank Dawson continua ad essere un problema, che a mio parere potrebbe trasformarsi in pericolosa minaccia per il Centro. Suggerisco di eliminarlo prima che lo diventi, vale a dire entro le prossime quarantotto ore” diceva il rapporto rinvenuto da Miss Parker e quelle quarantotto ore sarebbero scadute tra poco meno di trenta minuti.

Un flebile dlin interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri, indicando che l’ascensore aveva finalmente raggiunto il seminterrato. Le porte scorrevoli si aprirono e Jarod riconobbe all’istante l’uomo distinto sulla sessantina che reggeva una ventiquattrore scura nella mano destra e che incrociò per un attimo lo sguardo con il suo: Frank Dawson in persona.

Stava giusto valutando quale fosse l’approccio migliore per stabilire subito un contatto con lui, evitando però di insospettirlo o metterlo sulla difensiva, quando ad un tratto vide il led di un mirino ad infrarossi posarsi sulla fronte dell’uomo.

Senza esitare il simulatore si avventò su di lui buttandolo a terra un istante prima che prima che tre colpi sparati col silenziatore, sibilassero minacciosamente sulla sua testa, andando poi a conficcarsi nella parete di fondo dell’ascensore.

Scambiatisi un’occhiata d’intesa, entrambi gli uomini estrassero la pistola, uscirono carponi dalla cabina, dove erano facili bersagli e si ripararono dietro l’auto più vicina, per poi scrutare guardinghi verso l’angolo più buio del parcheggio, da cui i colpi sembravano essere partiti.

Una manciata di secondi dopo infatti, proprio da lì un’auto partì all’improvviso, sgommando rumorosamente e qualcuno dall’interno dell’abitacolo sparò loro addosso di nuovo diversi colpi, crivellando la carrozza ed i finestrini della Mercedes grigia che i due continuavano ad usare a mo’ di scudo, nella speranza che qualche pallottola vagante non colpisse il serbatoio facendoli saltare in aria con l’intero veicolo.

Mentre si buttava a terra, rispondendo al fuoco, Jarod riconobbe qualcuno tra gli occupanti della berlina scura. Anche se lo aveva intravisto per un attimo soltanto, non poteva certo aver confuso con un’altra persona quell’albino dal ghigno crudele e dallo sguardo spietato: il Centro aveva mandato Mr. White ad occuparsi della faccenda e questo poteva significare solo guai.

Scampato il pericolo, entrambi gli uomini si alzarono, scrollandosi di dosso i frammenti di vetro, e si rivolsero finalmente la parola, mentre numerosi agenti della sicurezza stavano accorrendo sul posto per verificare l’accaduto, facendosi domande a raffica l’un l’altro: «Che è successo?» «Quanti erano?» «A chi hanno sparato?» «Come sono entrati?».

«Non so ancora chi lei sia, ma grazie tante» esordì Frank recuperando la sua valigetta, per poi condurre Jarod lontano da quella confusione. La sua voce era cordiale, ma il suo sguardo tradiva una certa inquietudine.

«Jarod Nash – si presentò allora l’altro, porgendogli la mano - Sono appena stato trasferito da Los Angeles»

«Frank Dawson – rispose questi facendo altrettanto – Spero che l’accoglienza non l’abbia spaventata»

«Non più del dovuto…anche perché quella gente sembrava avercela a morte con lei, non con me» commentò in tono allusivo il simulatore, senza ottenere tuttavia apparenti risultati.

«Probabilmente qualcuno che ho sbattuto dentro deve essersene avuto a male, ma non credo che ci riproverà – cercò di sdrammatizzare Frank con un sorriso tirato – Dimentichiamo questa faccenda per il momento, tanto ci stanno già pensando i ragazzi! – aggiunse indicando la squadra della scientifica appena giunta sul posto - Venga, le mostro il suo ufficio» esordì poi tranquillo, facendogli cenno di seguirlo in ascensore.

Jarod gli andò dietro, fissandolo con aria scettica. Quell’uomo sapeva chi aveva tentato di ucciderlo, eppure, a rischio la sua incolumità, stava tenendo per sé la notizia e infrangendo la Legge…ma perché? Bè, in quel momento ancora non lo capiva, ma di una cosa era certo: Frank Dawson nascondeva un segreto, qualcosa per cui valeva la pena di mettere a repentaglio non solo la carriera, ma la sua stessa vita e lui doveva scoprire in fretta di cosa si trattasse. Forse Mr. White non lo aveva riconosciuto nel corso di quella concitata sparatoria, ma forse sì e in quel caso si sarebbe presto ritrovato una squadra di spazzini alle calcagna.

 

Il Centro, Blue Cove - Ufficio di Broots – ore 09:30 p.m.

 

Miss Parker continuava a fissare allibita il volto della donna sul monitor: gli occhi celesti, i lunghi capelli rossi raccolti in un classico chignon, il volto aggraziato ed un sorriso che esprimeva tutta la sua dolcezza.

«La madre di Jarod lavorava per il Centro» mormorò ancora incredula, quasi volesse convincersi che quella fosse proprio la verità.

«Più precisamente per tua madre, Miss Parker – aggiunse Broots, anch’egli sorpreso – Era la sua assistente personale»

«Qui dice che rimase a Blue Cove per quattro anni – seguitò la donna scorrendo velocemente i dati sul video – Poi se ne andò di punto in bianco senza dare motivazioni e sparì nel nulla insieme al marito…ma perché?»

«Per sfuggire a qualcuno…o qualcosa?» ipotizzò il tecnico.

«Per sfuggire al Centro?»

«Già. Il Centro infatti la cercò e a lungo anche, con ben due squadre – continuò Broots  - Una lo fece ufficialmente per conto di Catherine Parker, l’altra agì nell’ombra per ordine di Raines, con l’approvazione del Triumvirato»

«Purtroppo però l’ansimante sacco di ossa la trovò per primo, cinque anni dopo la sua fuga»

«Lo stesso periodo in cui Jarod venne portato al Centro»

«E poco dopo la stessa sorte toccò a Kyle - aggiunse Miss Parker con aria meditabonda, per poi esordire scettica – Possibile che Margaret non abbia collegato le cose?»

«Che vuoi dire?»

«Stento a credere che lei non ci abbia mai pensato» replicò l’altra, con aria assorta, ignorando la domanda.

«Pensato cosa?!»

«Che dietro al rapimento dei suoi figli ci fosse il Centro – chiarì finalmente Miss Parker – Forse mi sbaglio, ma secondo me Margaret ha sempre saputo dove si trovavano Jarod e Kyle, fin dall’inizio»

«Ma è assurdo! – la contraddisse subito Broots – Se così fosse perché non lo disse alla polizia quando ne denunciò il rapimento?»

«Evidentemente perché non poteva – asserì la donna sempre più convinta – Per lo stesso motivo per cui dovette mentire a suo marito e nascondergli il proprio legame col Centro»

«Credi che il maggiore Charles non ne sapesse nulla?»

«Se avesse saputo che Margaret lavorava per il Centro, se all’epoca avesse saputo cosa fosse il Centro, avrebbe fatto due più due, esattamente come me»

Il tecnico la osservò a lungo sconcertato, prima che un’idea gli attraversasse all’improvviso la mente.

«Se fosse davvero come dici – esordì infatti - Perché Margaret avrebbe assunto un investigatore privato, quello specializzato nel ritrovare bambini scomparsi, quel Sonny Hebert?»

«Perché qualsiasi madre preoccupata e in ansia per la sorte dei propri figli lo avrebbe fatto – spiegò Miss Parker – Quello fu solo un diversivo, una parte ben recitata per non insospettire il Maggiore…e forse anche il Centro»

«Ah tutta questa storia non ha senso!» commentò Broots scuotendo il capo.

«Oh sì che ce l’ha – affermò decisa Miss Parker fissando l’uomo dritto negli occhi – Margaret aveva scoperto qualcosa…qualcosa che non poté confidare nemmeno a mia madre e che la spinse a fuggire, a nascondersi per proteggere le persone che amava…qualcosa che finì col mettere in pericolo la sua intera famiglia»

 

In un misterioso luogo lugubre e buio

 

Mentre avanzava cauto verso il punto stabilito, illuminando il suo cammino con la torcia elettrica, Lyle aveva ancora nelle orecchie la collerica sfuriata di Mr. Parker, che inveiva contro di lui reggendo in mano il rapporto ricevuto da Mr. White: decisamente non aveva preso bene il fatto di essere stato scavalcato, che il suo stesso figlio avesse tramato contro di lui, gestendo la questione Frank Dawson direttamente con Matumbo senza nemmeno interpellarlo. Fortunatamente era riuscito ad inventarsi una scusa per rabbonirlo (…Ma come, non hai ricevuto il mio memo?! Quella tonta della mia segretaria ne ha combinata un’altra delle sue!), almeno per il momento.

Non poteva fare a meno di pensare che se suo padre avesse anche solo sospettato ciò che realmente stava facendo alle sue spalle, per lui sarebbe stata la fine, ma poco male. Il gioco valeva senz’altro la candela. Era stanco di aspettare nell’ormai vana speranza che il suo illustre quanto incurante genitore riconoscesse finalmente il suo valore, che gli riservasse il ruolo di comando a cui da tempo ambiva. Ma no invece. Per Mr. Parker Lyle non era che un sicario, prezioso solo per la sua totale mancanza di scrupoli, perché poteva affidargli i compiti più spregevoli, il lavoro sporco e poteva star certo che lui non si sarebbe mai tirato indietro. Lui non aveva cuore, non aveva anima, mentre la sua adorata sorellina…bé era tutt’altra cosa. Per suo padre lei era diversa, era il suo angelo, qualcosa di puro e prezioso da preservare e tenere all’oscuro delle proprie ignobili macchinazioni per il controllo del Centro. Era la figlia di Catherine e sua legittima erede…dio quanto la detestava! La vita era stata così ingiusta: a lei aveva dato tutto ciò che a Lyle era stato negato, una famiglia ricca, una vita agiata, uno status privilegiato al Centro…una madre che le aveva insegnato ad amare e che l’aveva amata.

“Non che m’importi di certe sciocchezze!” si disse rinnegando bruscamente quell’insolito cedimento emozionale, addirittura sorpreso di aver concepito un simile pensiero. Eppure non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che se fosse toccato a Miss Parker essere rapita alla nascita, creduta morta ed essere allevata dai Bowman, probabilmente sarebbe stata lei a diventare un essere abbietto e senza scrupoli. L’invidia e il rancore lo stavano lentamente consumando, ma purtroppo non gli era concesso di tornare indietro e mutare il passato, poteva soltanto cambiare  il proprio futuro.

Il destino, anzi suo padre e sua sorella, lo avevano privato di tutto, ma grazie all’aiuto di un complice inaspettato, proprio di colui che il suo avido genitore stava cercando per carpirne il segreto, Lyle si sarebbe ripreso con gli interessi ciò che gli spettava di diritto. E i responsabili della sua sfortuna avrebbero pagato...oh sì che avrebbero pagato. Dopodiché si sarebbe liberato anche del suo scomodo alleato, di cui per inciso non si fidava affatto, e da solo avrebbe controllato il Centro…sì, sarebbe andata proprio così, ma per il momento doveva essere paziente e seguitare a lavorare per lui.

Ecco, era arrivato. Il luogo era tetro, illuminato soltanto dalla  luce flebile della sua torcia e come al solito emanava un forte odore di polvere e di stantio. Sembrava non ci fosse anima viva, ma sapeva bene che così non era.

«Hai fallito - esordì infatti la voce rauca ed irritata di un uomo nascosto dall’oscurità – Era un’ottima occasione per metterti nella giusta luce col Triumvirato e tu l’hai sprecata!»

«Non per colpa mia - replicò subito indispettito Lyle in propria difesa - White non è stato all’altezza e per giunta ha persino fatto rapporto a mio padre!»

L’altro sogghignò sommessamente.

«Immagino non abbia gradito scoprire che il suo stesso figlio sta cercando di fargli le scarpe!»

«Già»

«Ad ogni modo White non poteva sapere che ci fosse qualcuno a proteggere il bersaglio – sentenziò poi aspramente il misterioso individuo – Spettava a te tenere segreta questa operazione»

«Non so come sia trapelata la notizia. Avevo preso tutte le precauzioni possibili – ribatté indignato l’altro. Ma perché gli errori dei suoi subalterni incapaci dovevano sempre ricadere su di lui?! - Oltre a noi soltanto Matumbo ne era al corrente, come avevamo stabilito»

«A quanto pare Jarod è riuscito ad eludere le tue precauzioni»

«Già, sempre lui. Ma lascia che gli metta le mani addosso e..!» sibilò minaccioso Lyle.

«No. Non è ancora arrivato il momento»

«Ma dobbiamo fermarlo! Lui e soprattutto Frank Dawson. Si sta avvicinando troppo»

«Sì, questo è vero – convenne l’altro – Ma ora sarà il Centro ad occuparsi Jarod e dell’agente Dawson, dal momento che Mr. White ha già fatto rapporto a chi di dovere»

«Potrei pensarci io»

«No»

«Ma perché?! Sono sicuro che potrei catturare Jarod e…»

«Io non lo sarei se fossi in te - lo interruppe l’uomo misterioso con palese sarcasmo - E comunque dobbiamo prima scoprire chi passa le informazioni all’agente Dawson»

«Io ho già qualche sospetto. Non mi stupirei se la talpa  fosse proprio la mia cara sorellina, ci sono ancora punti a dir poco oscuri riguardo la sua ultima missione a Parigi ed i suoi rapporti con Jarod»

«Miss Parker potrà forse essere in combutta con Jarod, ma non può essere l’informatore – lo contraddisse perentorio l’altro - Frank Dawson ci sta alle costole da quasi tre anni…no, io concentrerei su qualcun altro i tuoi sospetti»

«Di chi parli?»

«Ancora non ne sono sicuro, ma so di una certa mailbox che potrebbe aiutarci a scoprirlo. E chissà, magari anche a catturare due…anzi tre piccioni con una fava»

 

Rifugio di Jarod - Pimmit Hills, nei pressi di Washington – ore 00:00 a.m.

 

Nascosto da un paio di tendine stinte, Jarod scrutava pensieroso la strada deserta dalla finestra di uno scialbo monolocale ammobiliato. I fari di un auto che rallentava, un passante che alzava distratto lo sguardo verso il terzo piano, tutto poteva celare un pericolo. Tuttavia, almeno per il momento, gli spazzini sembravano aver perso le sue tracce e quelle del suo ospite. Il simulatore volse lo sguardo verso l’uomo disteso sull’unico letto, che ancora dormiva sotto l’effetto del cloroformio.

La telefonata di Miss Parker era giunta appena in tempo, circa un’ora prima: Matumbo aveva incaricato White di catturarlo, usando l’agente Dawson come esca. Jarod si era dunque precipitato all’indirizzo di Falls Church che aveva trovato nel dossier dell’NSA, una piccola, elegante villetta nella quale Frank era appena rincasato. Purtroppo non era stato possibile dargli spiegazioni, aveva dovuto sorprenderlo alle spalle, narcotizzarlo e portarlo via passando dalla porta sul retro e poi attraverso il giardino, giusto nel momento in cui la squadra del Centro aveva fatto irruzione dall’ingresso principale. Ne era seguita una fuga frenetica per la periferia di Washington, a colpi di sgommate e repentine inversioni di marcia in mezzo al traffico, con i sicari sempre alle calcagna, finché Jarod non si era infilato in un parcheggio a sei piani. Lì aveva abbandonato la propria auto, proseguendo poi la corsa con un’altra presa in prestito ed era riuscito così a seminare gli inseguitori, dopodiché  si era diretto al suo rifugio.

L’effetto del narcotico sarebbe finito di lì a poco…

«Mhmm…»

…anzi, stava già finendo, realizzò Jarod quando Frank emise un gemito soffocato, muovendo la testa sul cuscino.

In attesa che si svegliasse, il simulatore rivolse la propria attenzione alla valigetta del suo ospite, che aveva deposto su di un tavolino impolverato ai piedi del letto, resistendo fino a quel momento alla tentazione di provare ad aprirla. Portarla con sé gli aveva complicato non poco le cose durante la fuga, però non se l’era sentita di lasciarla nelle mani del Centro. Per Frank doveva essere estremamente importante, visto che non se n’era separato nemmeno quando gli avevano sparato addosso e forse tra non molto lui stesso gli avrebbe spiegato il perché.

«Jarod…che ci facciamo qui? - mugugnò l’uomo ancora intontito dopo aver aperto a fatica gli occhi e messo a fuoco ciò che gli stava attorno – Un momento…sei stato tu a… - esordì poi indignato, iniziando a ricordare cosa gli fosse successo, un misto di paura e rabbia dipinto sul volto – Mi hai mentito! Tu non vieni dall’ufficio di Los Angeles e non sei nemmeno un agente!» inveì cercando di alzarsi, ma la testa gli girava come una trottola, tanto che sarebbe senz’altro rovinato a terra, se Jarod non l’avesse prontamente afferrato ed aiutato a sedersi.

«E’ vero, ti ho mentito – ammise con un sorrisetto sornione – Ma d’altro canto anche tu lo hai fatto, o sbaglio?»

«Che stai dicendo?!»

«Sai benissimo che quelli che ti hanno sparato non erano gente che hai sbattuto dentro, non è così?»

Frank lo squadrò un istante con diffidenza, quindi si decise a chiedere: «Ma tu chi diavolo sei?!»

«Qualcuno che ti ha salvato la pelle già due volte e che vorrebbe tanto sapere perché un’organizzazione chiamata Centro ti vuole morto»

«E tu che ne sai del Centro?!» domandò stupito l’altro, sempre sulla difensiva.

«Molto più di quanto vorrei, credimi» replicò Jarod con amaro sarcasmo.

Improvvisamente qualcosa nella sua voce, nel suo sguardo gli disse che poteva fidarsi di lui.

«Allora saprai anche che è gente pericolosa e che salvandomi la vita ti sei messo nei guai»

«Bè vecchio mio, temo che i miei guai col Centro siano iniziati molto prima dei tuoi» lo tranquillizzò Jarod, porgendogli una tazza di caffè fumante.

«Non credo, figliuolo! – replicò l’altro visibilmente più a proprio agio, sorseggiando la bevanda – Sono più di trent’anni che sto appresso a quei criminali – a quel punto fu Jarod a fissare sbalordito il suo interlocutore – Già,  però soltanto di recente sono riuscito ad arrivare a loro»

«L’NSA sta svolgendo indagini sul Centro da trent’anni…ma com’è possibile?! – esordì l’altro incredulo - Io non ho mai trovato traccia di inchieste del genere da parte di nessun ente governativo e ti assicuro che…»

«Certo – lo interruppe pacato Frank – Perché non si tratta di un’indagine ufficiale. Questa per me è una faccenda personale»

«Vuoi dire che lo stai facendo da solo?!»

«Non proprio. Qualcuno mi sta aiutando»

«Di chi si tratta?»

«Non ne ho la più pallida idea» confessò candidamente l’agente.

«Andiamo Frank!» esclamò irritato Jarod, pensando che lui gli stesse di nuovo mentendo.

«E’ la verità, te l’assicuro. Questa persona mi contattò per la prima volta circa tre anni fa, via posta elettronica e da allora ci teniamo in contatto utilizzando una mailbox segreta – spiegò Frank - L’unica cosa che posso dirti è che si firma “M” e che sa diverse cose sul Centro, perché grazie alle informazioni che mi ha passato ho saputo dei rapimenti, degli esperimenti, e dei metodi che quella gente usa per mettere a tacere chi potrebbe comprometterla. Qui dentro c’è tutto quel che ho trovato finora» aggiunse aprendo al sua misteriosa valigetta per mostrarne il contenuto: diversi fascicoli, floppy disk e un computer portatile.

Jarod dette una scorsa veloce al materiale raccolto da Dawson: non solo conosceva nomi e dati personali delle persone coinvolte, dal Triumvirato ai Parker, al defunto Dr. Raines, da Lyle, Cox e White fino all’ultimo tecnico di laboratorio, ma aveva documentato anche gran parte delle attività criminose dell’organizzazione di Blue Cove, con tanto di date e luoghi precisi. Dalla Nugenesis alla morte di Catherine Parker, dagli esperimenti illegali che fruttavano la tecnologia da vendere a caro prezzo alle grandi multinazionali, fino a Donoterase…

«Ora capisco perché il Centro ha tanta paura di te – osservò poi - Con tutte queste informazioni avresti potuto far aprire un’inchiesta ufficiale già da molto tempo. Perché non l’hai fatto?»

«Perché sarebbe stato inutile – ammise disilluso Frank - “M” dice che quella gente ha agganci politici molto in alto. Il caso verrebbe di sicuro insabbiato»

«Purtroppo temo che sia vero, almeno per il momento – convenne l’altro pensando istintivamente alla lista - Ma se sai di non poterli denunciare, perché continui ad indagare e a rischiare la tua vita?»

«Per me è una faccenda personale, te l’ho detto»

Frank si alzò lentamente dal letto, voltò le spalle al suo interlocutore e si trascinò stancamente fino alla finestra, le mani affondate nelle tasche, lasciando vagare lo sguardo nell’oscurità della notte, senza aggiungere altro.

«Una faccenda che dura da trent’anni» commentò il simulatore, raggiungendolo dopo qualche minuto e aspettando pazientemente che l’uomo si decidesse a raccontagli il resto.

«Già…da quando mio figlio sparì nel nulla»

Frank pronunciò con enorme fatica quelle poche parole, volgendosi di nuovo verso Jarod, negli occhi uno sguardo stremato, il suo volto di colpo stanco ed invecchiato…il volto di chi ha sofferto tanto, troppo e ancora non ha trovato pace.

Jarod già conosceva la risposta, ma chiese comunque: «Tuo figlio venne rapito dal Centro?»

«E’ quanto sostiene “M” – confermò Frank - Aveva solo cinque anni quando ce lo portarono via. Mia moglie non superò mai il trauma, nemmeno io a dire la verità, ma per lei fu molto peggio. Si lasciò morire lentamente ma inesorabilmente…e così rimasi solo»

«Mi dispiace Frank…credimi, so cosa significa»

«Quello che sto facendo è rischioso, ne sono consapevole – continuò imperterrito l’altro -  Ma ritrovare mio figlio è stata la sola molla che mi ha spinto ad andare avanti in tutti questi anni, è la mia unica ragione per vivere ormai»

«Ti capisco – disse Jarod, esitando prima di formulare la domanda successiva – Hai trovato notizie?»

«No, non ancora. Non so nemmeno che faccia abbia adesso. Non so neppure se sia ancora vivo, anche se lo spero con tutto me stesso – confessò sconfortato - Di lui mi è rimasta soltanto questa» aggiunse prendendo una vecchia foto dal portafoglio per mostrarla all’altro.

Posando gli occhi su quella stampa consunta, Jarod trattenne  a stento un’esclamazione d’incredulità e cercò di dissimulare in qualche modo il proprio stupore…non era possibile!

«Era proprio un bel bambino, vero? – disse ancora Frank, la voce carica di struggente malinconia - Si chiamava Timmy»

 

Casa di Miss Parker – Blue Cove – ore 02:00 a.m.

 

La stanza era immersa nella penombra, rischiarata appena da un flebile fascio di luce che filtrava attraverso le persiane accostate. L’unico rumore percettibile era il respiro leggero e regolare della donna, profondamente addormentata tra le delicate lenzuola di seta.

La mente, assopita in un sonno profondo, aveva lasciato ampio spazio all’inconscio di vagare libero in un dedalo di memorie senza spazio né tempo, cullandosi nell’ovattato oblio dei sogni.

D’un tratto eccola di nuovo là, in quella stanza vuota, dalle pareti spoglie di un bianco cangiante, a fissare come tante altre volte il dipinto lì appeso. Si trattava di un’opera astratta e rappresentava tre figure umane, incolori, le cui forme stilizzate erano delineate da un gioco di luci ed ombre. I tre soggetti si stagliavano contro uno sfondo piatto e monocromatico rosso vermiglio ed incombevano minacciosi su quello che probabilmente era un paesaggio…o meglio ciò che ne rimaneva, vale a dire un cumulo di rovine. La figura centrale, la più alta delle tre, reggeva tra le mani un bizzarro oggetto, grossomodo a forma di rombo, anche se assai irregolare. Sembrava quasi un pesce stilizzato…anzi no, piuttosto uno strano utensile…forse una chiave?

A quel punto Miss Parker, come sempre le accadeva in quel sogno, spostò lo sguardo verso l’angolo in basso a destra del dipinto per leggere il nome dell’autore – Doom - e ancora una volta la tela prese ad allargarsi a dismisura davanti ai suoi occhi, finché lei stessa non si ritrovò improvvisamente imprigionata all’interno del disegno, circondata dalle rovine di quel paesaggio desolato e dal silenzio, sotto una luce accecante. Ma fu solo per un attimo, poi tutto divenne buio e la donna udì di nuovo quel grido, la disperata richiesta d’aiuto di un ragazzino …una voce del suo passato che conosceva bene: quella di Jarod.

Miss Parker lo chiamò allora a sua volta: «Jarod? Jarod dimmi dove sei!»

«Miss Parker svegliati!» gridò ancora la voce.

Seguendola, la donna percorse, come aveva fatto altre volte, un corridoio buio dalle pareti scure, che parevano muoversi e volerle piombare addosso per afferrarla. Poi, oramai infondo al tunnel, intravide una debole luce: le grida provenivano da lì, insieme al battito dapprima smorzato ma via via sempre più forte di un orologio a pendolo… doveva fare in fretta, il tempo stava per scadere…

«Miss Parker ti prego apri gli occhi!» urlò ancora quella voce di adolescente.

La donna si precipitò allora  incontro alla luce, verso l’uscita, finché si trovò in una stanza vuota e asettica, dalle pareti metalliche, illuminata da una luce al neon che pareva provenire da ogni direzione: non aveva dubbi, si trovava da qualche parte al Centro. La testa le doleva terribilmente, causa il ticchettio divenuto quasi assordante, che tuttavia non riusciva a coprire le grida del giovane Jarod, legato mani e piedi ad un tavolo d’acciaio con robusti anelli metallici.

«Miss Parker mi senti?!»

Lei fece per muoversi verso il ragazzo, quando il pavimento sussultò di colpo sotto ai suoi piedi, la porta da cui era entrata improvvisamente sparì, inghiottita dalle pareti, che presero lentamente ad avvicinarsi mentre il soffitto si abbassava sempre più…una terribile sensazione di soffocamento l’attanagliò. Sia lei che il giovane Jarod erano intrappolati in una sorta di congegno infernale, che li avrebbe schiacciati fino a ridurli entrambi in poltiglia. Miss Parker avanzò verso il giovane per cercare di liberarlo, ma non appena lo sfiorò questi svanì e lei si ritrovò inspiegabilmente legata al posto suo, bloccata in quel micidiale meccanismo.

La donna prese a dibattersi, gridando in preda al panico, mentre le pareti ed il soffitto erano a pochi centimetri appena di distanza dal proprio volto. Respirare era sempre più difficile…impossibile…credeva ormai di essere spacciata, quando Jarod, il suo Jarod, si materializzò accanto a lei, la liberò dagli anelli metallici e la trascinò fuori di peso da quella trappola mortale.

«Non dovevi venire qui – disse lei guardandolo con aria smarrita – Hai rischiato troppo e io non merito tanto»

Di colpo la scena cambiò. Entrambi si ritrovarono in un ambiente tetro e polveroso, dal soffitto assai basso, retto da una serie di archetti a volta infestati da fittissime ragnatele, una sorta di cripta, rischiarata soltanto dalla luce soffusa di alcune candele.

«Dove siamo?» chiese Miss Parker.

«Non lo so, ma non mi stupirei se qualche fantasma si aggirasse da queste parti» scherzò Jarod.

«I fantasmi non usano candele» replicò lei accennando un sorriso, che purtroppo le morì subito sulle labbra, perché il frastuono di uno sparo echeggiò di punto in bianco nella stanza nella stanza e Jarod si accasciò esanime sul pavimento davanti agli occhi sbarrati della donna, che si chinò sconvolta a soccorrerlo.

Un misterioso uomo vestito di nero, del quale non riusciva a vedere il volto, uscì dalla penombra, reggendo ancora la pistola in mano.

«Oramai é troppo tardi, non puoi più salvarlo – le disse - Jarod é morto per colpa tua e ora anche tu devi morire» aggiunse avanzando minaccioso verso di lei e sogghignando…una risata bieca e stridula.

«Nooo!» gridò disperata Miss Parker, stringendo a sé il corpo esanime di Jarod, mentre l’ombra sinistra si avvicinava fino a sovrastarla.

«No…no…» continuava a ripetere in un tormentoso dormiveglia, scuotendo il capo sul cuscino.

«Allison…svegliati Allison» le disse a quel punto una voce, quella voce dolce e rassicurante che non aveva più sentito dagli anni della sua infanzia.

«Mamma… - mormorò confusa nel sonno - aiutami ti prego…»

«Svegliati» ripeté gentilmente la voce.

Ma non era più quella di sua madre…un momento…qualcosa la stava toccando, cioè qualcuno la stava scuotendo, cingendole le spalle. Non stava più sognando, c’era davvero qualcuno nella sua stanza!

Miss Parker si destò all’istante e fece per impugnare la sua Smith & Wesson, che dormiva sempre con lei sotto il cuscino, ma poi riconobbe la persona che le sedeva accanto sul letto.

«Ethan!» esclamò piacevolmente stupita, sedendosi a sua volta.

Lui le sorrise. Non era più il ragazzo disperato e impaurito dagli occhi spiritati, cerchiati da profonde occhiaie, con lo sguardo allucinato che aveva conosciuto a Washington, su di un treno che stava per esplodere. I tratti del suo volto erano distesi, la sua espressione seria ma serena, il suo sorriso appena accennato, ma colmo d’affetto.

«Sono felice di vederti – continuò lei abbracciandolo con calore – Ti trovo bene»

«Ora mi sento bene – confermò pacato lui, ricambiando l’abbraccio della sorella – E anch’io sono contento di vederti»

«Ma non dovresti essere qui – aggiunse severa lei mentre si alzava per indossare la vestaglia– Il Centro ti rivuole indietro e Lyle non avrà pace finché non ti avrà catturato. Blue Cove è un posto troppo pericoloso per te»

«Lo so, ma dovevo venire – replicò tranquillo Ethan - Tu hai bisogno di me»

La donna lo fissò turbata, di colpo senza parole…a cosa si riferiva? Possibile che sapesse..?

«Ti va una tazza di the?» si limitò però chiedergli, facendogli cenno di seguirla al piano di sotto e conducendolo fino alla cucina.

Qualche tempo dopo, quando erano entrambi seduti sul divano e reggevano tra le mani una tazza fumante, Miss Parker, seppur visibilmente a disagio, si decise finalmente a parlare.

«C’è un sogno, un incubo che mi tormenta da diversi giorni ormai…ma forse tu già lo sai»

Ethan annuì. «E tu sei convinta che sia una premonizione del tuo senso interiore riguardo a Jarod»

«Perché, non è forse così?»

«Non posso dirti né sì né no con certezza, ma so per esperienza che non è affatto semplice interpretare questo genere di messaggi»

«Che vuoi dire?»

«Che non è sempre facile riuscire a distinguere una vera premonizione dalle…chiamiamole raffigurazioni di ciò che speri o temi possa accadere – Miss Parker fissava perplessa il fratello – Insomma, non dimenticare che i sogni sono pur sempre il riflesso dei tuoi desideri e delle tue paure»

«Cioè secondo te io sarei una paranoica e il mio senso interiore non mi starebbe inviando nessun messaggio» esordì seccata la donna.

«Non ho detto questo – si affrettò a chiarire l’altro con fare conciliante - Il tuo incubo ha sicuramente un significato. Solo…forse non è quello che credi tu»

«Che altro potrebbe significare se non che Jarod verrà ucciso per colpa mia?!»

Ethan sospirò rassegnato. «Suppongo sia per questo che l’hai allontanato da te»

«Per questo…e per altri motivi» confessò Miss Parker evitando lo sguardo del fratello.

«Lui sta soffrendo molto a causa della tua decisione»

«Lo so, ma non avevo altra scelta. Era l’unico modo per proteggerlo – asserì lei costernata – Jarod deve stare lontano dal centro, quindi anche da me»

«Però stargli lontana ti fa star male. Sei davvero sicura di voler rinunciare a lui per dare ascolto al tuo senso interiore?»

«Dopo tutto quello che ha dovuto passare a causa mia è il minimo che possa fare, se significa salvargli la vita»

«Non dovresti dare tanta importanza al passato, quello che è stato è stato e non importa più ormai. Ora conta soltanto ciò che tu e Jarod provate l’uno per l’altra…e poi non dovresti sentirti in colpa nei suoi confronti, tu non hai mai voluto fargli del male e non hai nemmeno mai voluto che tornasse al Centro»

A quelle parole Miss Parker fissò il fratello sbalordita e un tantino spaventata. Quel ragazzo riusciva a leggerle dentro, come se lei fosse un libro aperto e la cosa la metteva a dir poco in difficoltà.

«A quanto pare sai più cose su di me di quanto io stessa non sappia»

«Scusami, non volevo turbarti – disse imbarazzato Ethan - Il fatto è che io posso…sentirti, riesco a capire ciò che provi, ciò che pensi a livello inconscio anche meglio di te. E’ un dono, lo stesso che hai tu, anche se ancora non riesci ad usarlo bene. Lo stesso che aveva anche lei»

«Vuoi dire mia…nostra madre?- chiese lei e Ethan assentì – Tu puoi…sentirla?»

«Sento la sua voce, sì. E’ stata proprio lei a dirmi che ti serviva il mio aiuto, Allison»

«Come fai a..?»

«…conoscere il tuo nome?»

La donna sorrise…che domanda idiota!

«Puoi aiutarmi Ethan? – chiese poi speranzosa - Puoi dirmi chi è l’uomo che vuole uccidere Jarod nel mio sogno?»

«No, non so chi sia. Io… - il ragazzo ebbe un’impercettibile attimo d’indecisione…no, meglio non turbarla più di quanto già non fosse dicendole ciò che le voci gli avevano rivelato – Purtroppo non posso dirti come interpretare il sogno che tanto ti angoscia, questo puoi farlo soltanto tu – Miss Parker chiuse gli occhi e sospirò delusa – Però credo che dovresti lasciare da parte i cattivi presagi su Jarod per il momento e concentrarti piuttosto sul dipinto»

«E tu che ne sai del dipinto?!» domandò la donna sempre più stupita.

«L’ho sognato anch’io, varie volte»

«Io l’ho anche visto, nell’ufficio di Matumbo»

«Motivo in più per cerare di capire che cosa significa, ti pare?»

«E’ vero. Vorrà dire che ci proverò, anche se non ho la più pallida idea di cosa dovrei cercare»

«Oh lo saprai…quando sarà il momento giusto» replicò enigmatico Ethan alzandosi.

«Già te ne vai?»

«Sì, ora devo andare – disse avviandosi verso al porta – Ma tornerò, quando avrai di nuovo bisogno di me»

 

Casa di Miss Parker, Blue Cove  - ore 08:00 a.m.

 

«Vuoi dire che Frank Dawson è il padre di Angelo?!» esordì sbalordita Miss Parker, con gli occhi sgranati, tenendo la sua tazza di caffè ferma a mezz’aria.

«Esatto – rispose la voce di Jarod all’altro capo del filo - Non ha mai smesso di cercare suo figlio in tutti questi anni. E nel frattempo ha raccolto una quantità d’informazioni interessanti sul Centro»

«Quanto interessanti?»

«Diciamo che sa buona parte di quel che sappiamo noi»

«Mhm…non mi meraviglia che lo vogliano morto!»

«Già. Però a Frank non interessa il Centro in sé. Lui vuole solo ritrovare il figlio che gli è stato tolto – spiegò ancora Jarod - La speranza che sia ancora vivo è la sua unica ragione per andare avanti»

«Bè vivo lo è, ma non è certo la persona che lui si aspetta di trovare – commentò la donna con amarezza – Grazie al Dr. Raines non è più Timmy, ora è Angelo…glielo hai detto?»

Jarod sospirò costernato. «Ancora non ne ho avuto il coraggio»

«Immagino che non sia facile dire una cosa del genere ad un padre – osservò tristemente Miss Parker – Mi domando come sia riuscito ad indagare così a fondo sul Centro senza mai essere scoperto per tanto tempo»

«Veramente le sue ricerche hanno dato buon esito solo negli ultimi tre anni, da quando un misterioso informatore ha iniziato ad aiutarlo»

«Un informatore? – chiese lei incuriosita - E chi é?»

«Non ne ho idea, ma si tratta di qualcuno che sa parecchie cose sul Centro, magari qualcuno che ci ha lavorato o che ci lavora e che si firma soltanto “M”…non sarai mica tu, eh Miss Parker?» insinuò poi in tono semi-serio.

«Spiacente di deluderti ragazzo prodigio, ma non sono io il tuo uomo! – replicò ironica la donna – Anzi, veramente servirebbe a me un informatore per sapere tutto quel che succede là dentro!»

Jarod rise sommessamente all’altro capo del filo, con quella sua risata lievemente roca, che le riportò alla mente passati momenti di complicità, d’intimità…Dio com’era difficile anche solo non pensarci!

«Hei Miss Parker? Ci sei ancora?» esordì lui interrompendo il filo dei suoi pensieri.

«Cosa..? Scusa…stavi dicendo?»

«Mi stavo domandando se questo individuo non possa aiutare anche noi»

Era strano parlare con lei in modo così distaccato, come si conversa del più e del meno con un vecchio amico, dopo tutto quel che c’era stato tra loro…che ancora c’era tra loro… avrebbe tanto voluto...

«Pensi che sappia qualcosa della lista?» chiese speranzosa lei, riportandolo bruscamente alla conversazione.

«E’ solo un’ipotesi, ma credo che valga la pena di verificarla»

«E come? Non sai né chi sia né dove si trovi questo tizio»

«Bè, Frank potrebbe lasciargli un messaggio nella stessa mailbox che l’informatore usa per contattarlo – suggerì il simulatore, dopo averci pensato un momento – Ne parlo subito con lui»

«Jarod» lo interruppe lei giusto prima che riattaccasse.

Non poteva più rimandare. La sera prima non c’era stato il tempo di parlargliene, perché bisognava agire subito per salvare sia lui che Frank Dawson dalla trappola del Centro, ma a quel punto doveva decidersi a raccontargli ciò che aveva scoperto su sua madre, anche se non era affatto facile trovare le parole giuste.

«Che c’è?»

«Ecco io…ci sono notizie di Jay?»

“Vigliacca!” si apostrofò tra sé e sé non appena ebbe formulato quella domanda, invece di affrontare l’argomento che si era prefissata.

«Ho parlato con mio padre poco fa – l’informò sfiduciato lui - Sembra che qualcuno l’abbia visto ieri alla stazione degli autobus di Milwaukee, ma da lì nessuna traccia»

«Certo sarebbe tutto più facile se potessimo denunciare la sua scomparsa alla polizia» disse Miss Parker, seriamente preoccupata per il ragazzo.

«Ma non possiamo. Noi per la polizia non esistiamo nemmeno – replicò sarcastico Jarod, cedendo per un attimo allo sconforto – Ora ti lascio, devo…»

«Jarod aspetta! – lo fermò di nuovo la donna – Io…c’è qualcosa devo dirti»

«Ti ascolto»

Miss Parker trasse un lungo respiro. Non c’era verso di fargli sapere in modo indolore ciò che aveva da dire. Non le restava che dirlo e basta.

«Broots non ha trovato niente sulla lista nei files di Matumbo purtroppo, ma ha scoperto dell’altro»

«E sarebbe?»

«Un archivio dettagliato di dossier riguardanti tutti coloro che sono o sono stati alle dipendenze del Centro e…»

«E..?»

«Tra questi ce n’era uno su tua madre»

«Cosa?!» esclamò a quel punto lui, la voce carica di amara incredulità.

«E’ la verità Jarod. Tua madre lavorava per il Centro» confermò Miss Parker, prima di aggiungere tutte le altre informazioni contenute nel dossier.

Mentre parlava poteva percepire la frustrazione per l’ennesima cocente delusione nel pesante silenzio all’altro capo del filo. Avrebbe tanto voluto essergli vicina in quel momento, anche solo per abbracciarlo, confortarlo. Avrebbe tanto voluto non dover essere lei a dargli un nuovo dolore. Di sicuro era sconvolto, si sentiva ferito, tradito e lei era lì senza poter fare nulla per…ah maledizione!!!

«Non posso crederci» mormorò finalmente Jarod.

«Non trarre conclusioni affrettate»

«Mia madre sapeva benissimo dove fossimo finiti io e Kyle ma non ha mosso un dito...» continuò lui imperterrito.

«Questo non puoi saperlo, forse…»

«Sapeva tutto e ha sempre mentito. Persino a mio padre»

«Sono certa che c’è una spiegazione logica per tutto questo»

«Ah sì? E quale?!» l’interruppe lui quasi gridando, la voce ridotta quasi ad un sibilo tanto aspro da far paura.

«Ancora non lo so ma…» provò a dire Miss Parker, prima di essere nuovamente interrotta, però dal tu-tu del telefono. Jarod aveva riattaccato, forse giusto in tempo perché lei non avrebbe saputo che altro dirgli.

Una delle poche certezze su cui stava ricostruendo la vita che gli era stata tolta era crollata in pochi istanti, Jarod era di nuovo solo ad affrontare la sua disperazione e lei non poteva fare altro che stare lì, impotente, a soffrire in silenzio per lui.

 

Rifugio di Jarod - Pimmit Hills, nei pressi di Washington – ore 05:00 p.m.

 

Frank aveva lasciato il messaggio per l’informatore nella solita mailbox già da diverse ore, ma questi non si decideva a rispondere e Jarod cominciava a farsi impaziente.

Camminava inquieto su e giù davanti alla finestra, sbirciando fuori di tanto in tanto, sempre all’erta.

La notizia circa il passato di sua madre lo aveva sconvolto, ma non poteva permettersi di dare sfogo alla sua emotività nella situazione in cui si trovava. Non gli era possibile abbassare la guardia senza rischiare di mettere in pericolo la sua vita e quella dell’uomo che stava cercando di aiutare, anche se mantenere la lucidità gli stava costando uno sforzo quasi sovrumano.

«Ancora niente Frank?» chiese per l’ennesima volta.

«No, ancora no – rispose indulgente l’altro - So che sono passate tante ore, ma è la prima volta che sono io a cercarlo e che gli chiedo di contattarmi. Forse ci sta pensando un po’ su, ma alla fine si farà vivo, vedrai»

«Lo spero…lo spero proprio»

Forse quell’uomo sapeva dove fosse la lista che lui e Miss Parker stavano cercando da tempo e magari poteva anche spiegargli cosa ci facesse un dossier su sua madre tra quelli dei collaboratori del Centro.

La sola idea lo faceva impazzire. Sua madre era l’unica persona di cui si fosse sempre completamente fidato, pur non avendola mai conosciuta veramente. Il ricordo della sua dolcezza, l’amore e la speranza che aveva letto nel suo sguardo, nel breve istante in cui le loro vite si erano incrociate quel pomeriggio a Boston, gli erano state sufficienti per convincersi che lei era davvero come l’aveva sempre immaginata durante la sua prigionia al Centro. Era certo che lei avesse sempre lottato per riaverlo accanto, che non l’avrebbe mai tradito e invece…

Basta! Non poteva continuare a tormentarsi. L’unica persona che potesse rispondere alle sue domande era chissà dove e lui non aveva modo di rintracciarla…a meno che l’informatore…sì, forse lui poteva aiutarlo anche a trovare sua madre.

Doveva assolutamente incontrare quel tizio, anche se questi si fosse rifiutato di parlare con lui. Gli bastava che si mettesse in contatto Frank, almeno per qualche minuto e lo avrebbe scovato, anche in capo al mondo.

 

Il Centro, Blue Cove - Ufficio di Miss Parker – ore 07:00 p.m.

 

Miss Parker era appoggiata allo schienale della poltrona, assorta, lo sguardo perso fuori della grande vetrata alle spalle della scrivania, sulla quale giaceva ancora aperto il fascicolo riservato che Broots le aveva consegnato nel pomeriggio.

Il tecnico non aveva trovato nulla d’interessante sul dipinto di Doom, che dopo la conversazione con Ethan restava più che mai al centro dei suoi pensieri, però era riuscito a decriptare i files trovati nell’archivio della Nugenesis, scoprendo così la verità sulla nascita del piccolo Sean e provandole, anche se non ce n’era più bisogno, che suo padre le aveva di nuovo mentito. Altro che povero embrione rimasto orfano e scampato ad un crudele destino! I genitori biologici del bambino erano sì morti in un incidente stradale, ma tre mesi dopo che Brigitte aveva adottato il loro futuro bambino, nel cui DNA era presente il gene del simulatore. Quei poveretti forse avevano scoperto la verità e magari proprio per questo erano stati uccisi…Dio, ma come avevano potuto?!

Rabbia, disgusto, angoscia. E il fatto di sentirsi come sempre impotente di fronte alle ormai troppe atrocità perpetrate dal Centro. Aveva voglia di gridare, di piangere, di appoggiare la testa sulla spalla di Jarod e sentire il calore del suo abbraccio, ma…

Un leggero bussare interruppe le sue amare riflessioni: solo allora si accorse della presenza di Sydney accanto alla porta, le mani calate nelle tasche del suo immancabile completo di tweed. Aveva l’aria stanca e il volto tirato, proprio come lei e aveva bisogno di parlarle, le fu sufficiente uno sguardo per capirlo.

«Syd, che posso fare per te?» esordì in tono colloquiale, sforzandosi di sorridere a beneficio della telecamera che di certo li stava spiando, mentre apriva con noncuranza il cassetto della sua scrivania.

«Possiamo parlare?»

«Ora sì» disse lei dopo aver attivato il dispositivo di disturbo per il segnale dei microfoni ideato da Broots.

«Vengo ora dal piano di sotto – proseguì Sydney – Ho saputo di Sean…mi dispiace»

Miss Parker abbassò lo sguardo e scosse il capo, piegando le labbra in un amaro sorriso, ma non le riuscì di dire nulla.

«Ad ogni modo – continuò lui mostrandole un fascicolo – Broots è riuscito ad isolare una trentina di potenziali soggetti, vale a dire tutti quelli tra coloro che furono sottoposti all’esperimento di Raines che risultano essere ancora in vita e in questo momento sta provando a rintracciarli, ma…»

«Ma?»

«Spero solo che non sia troppo tardi»

«Perché Cox ti ha forse detto..?»

«Cox non mi rivelato ancora nulla sull’arrivo del soggetto, ma ho notato una certa agitazione nelle attività del SL-27 in queste ultime ventiquattr’ore, quindi…»

«Quindi..? Insomma vuoi deciderti a parlare?!» proruppe esasperata la donna.

«Temo che abbiano già prelevato il ragazzo»

«Oh no maledizione!» sbottò infuriata Miss Parker battendo violentemente il pugno sul tavolo e dando finalmente sfogo alla sua ira repressa.

«Mi dispiace, non ti sono stato di grande aiuto» mormorò sconfortato Sydney, lasciandosi cadere sulla sedia di fronte alla donna.

«No, scusami tu Syd, so che non dovrei prendermela con te – replicò lei dispiaciuta, volgendo ancora lo sguardo oltre la vetrata - E’ solo che oggi non è una gran giornata»

«Se davvero il ragazzo è già qui, spero almeno di riuscire a scoprire dove lo tengono nascosto prima che gli venga fatto del male – aggiunse speranzoso l’altro – Anzi, a pensarci bene forse ho già in mente qualcosa»

«Ottimo» replicò lei laconica, con aria distratta.

«Va tutto bene Miss Parker?» chiese a quel punto Sydney, sorpreso del suo scarso interesse.

La donna si voltò di nuovo a guardarlo.

«A parte il fatto che Cox sta giocando al Dr. Moreau con mio fratello, il quale in realtà non è mio fratello? Che ha fatto rapire un altro innocente senza che potessimo impedirlo e che mio padre appoggia in pieno il suo subdolo progetto? – replicò poi sarcastica - Bé sì, a parte questo va tutto bene»

«E con Jarod?»

«Che c’entra Jarod adesso?» domandò lei, di colpo sulla difensiva.

«Mi è parso di capire che sia successo qualcosa tra voi due»

«Te lo ha detto lui?»

«Non era necessario – chiarì Sydney - Immagino sia stata tu a troncare»

«Sì» rispose semplicemente lei, abbandonandosi stancamente sullo schienale della poltrona.

«Jarod è molto amareggiato e a quanto pare anche…»

«La nostra era una storia senza futuro» cercò di tagliar corto lei.

«Se davvero lo pensi come mai ti senti così frustrata e..?»

«Che ne sai tu di come mi sento?!» l’interruppe irritata lei rivolgendogli un’occhiataccia.

«Bè, è il mio lavoro» replicò pacato il dottore senza scomporsi.

Miss Parker sospirò annoiata.

«Senti Syd, ora non sono proprio dell’umore adatto per farmi psicanalizzare!»

«Io invece credo che ne avresti bisogno»

«E’ una faccenda troppo complicata. E in ogni caso non mi va di parlarne adesso, okay?» disse la donna in tono perentorio.

«D’accordo, non voglio forzarti. Ma se cambiassi idea, puoi sempre contare su di me»

Lo psicologo stava per alzarsi, quando Miss Parker allungò improvvisamente le mani, afferrando le sue all’altro lato della scrivania.

«Syd - voleva semplicemente dirgli grazie, tuttavia, meravigliandosi di se stessa, si lasciò sfuggire qualcosa di più – Sai, a volte vorrei tanto che fossi tu mio padre»

Il dottore le sorrise stupito, stringendole a sua volta le mani e fece per dire qualcosa, però…

«Ma che scena commovente!» esordì all’improvviso una voce sardonica che entrambi ben conoscevano.

«Dubito che tu sia in grado di commuoverti Lyle» replicò a tono Miss Parker, sfoderando il suo sguardo di ghiaccio, mentre si affrettava a riporre i fascicoli ricevuti da Broots al sicuro nella sua valigetta.

Lyle non mancò certo di cogliere il gesto furtivo della sorella, mentre si avvicinava con fare insidioso ai due, che nel frattempo si erano entrambi alzati.

«Sorellina così mi ferisci!» commentò poi in tono canzonatorio, guardandosi intorno con falsa noncuranza.

«Ma figuriamoci – ribatté la donna con palese sarcasmo - Si può ferire qualcuno solo ammesso che abbia un cuore e questo non è di certo il tuo caso»

«Ah già, dimenticavo che tra noi due sei tu ad avere il primato dell’umanità»

«Non farti illusioni. Quella è una gara che perderesti con chiunque!»

«Solo perché non aiuto le vecchiette ad attraversare la strada e non porto doni agli orfanelli?»

«No, perché sei uno psicotico perverso che prova gusto ad uccidere e torturare la gente…soprattutto quella con gli occhi a mandorla»

«Ma quante cose sa la mia cara sorellina! – Lyle abbozzò un sorrisetto inquietante – Comunque sì, ogni tanto mi diverte fare strani giochetti con le donne orientali e con questo?»

«Sei disgustoso!»

Sydney osservava, stando in disparte, l’acceso battibecco tra i due, con interesse quasi scientifico, finché la discussione non prese una piega del tutto inaspettata…

«Se non altro io non mi faccio prendere da stupide crisi di coscienza e non cerco di distruggere ciò che la mia famiglia ha costruito nel corso di lunghi anni…perché è questo che stai cercando di fare, non è vero sorellina?» dichiarò Lyle, rivolgendo alla donna un’occhiata minacciosamente allusiva.

«Ma che stai dicendo?!» esclamò Miss Parker cercando di dissimulare quanto quelle parole l’avessero colpita, mentre il sangue le si gelava nelle vene.

«Pur non approvando, hai sempre svolto con enorme zelo, devo dire, il lavoro sporco che ti veniva chiesto di fare… magari perché il tuo alto tenore di vita, i tuoi bei vestiti griffati e la tua auto sportiva valevano bene qualche rimorso di coscienza, non è così? – proseguì Lyle con pesante sarcasmo - Ma adesso tutto questo ti fa schifo e vuoi riscattarti, porre rimedio ai tuoi errori…non è così?» insistette seguitando ad avvicinarsi alla sorella, che lo fissava suo malgrado impietrita.

«Stai vaneggiando!» replicò questa, molto meno convinta di quanto volesse apparire, scambiando con Sydney uno sguardo carico d’ansia.

«E’ inutile che lo neghi – seguitò lui con preoccupante disinvoltura - Ti sto tenendo d’occhio fin da quando tornammo da Parigi e per inciso, non ho creduto nemmeno per un istante che quel dischetto fosse illeggibile: so benissimo che conosci il segreto di Catherine e so che vuoi usarlo in combutta con Jarod contro il Centro»

«Ah sì? – esordì a quel punto ironica la donna, imponendosi finalmente di reagire – Allora immagino che tu possa provare quello che stai affermando con tanta sicurezza – continuò incrociando le braccia al petto ed alzando il mento in segno di sfida – Anzi, a dire il vero non credo proprio che tu possa. Altrimenti, come un bravo cane da guardia, saresti già corso a fare rapporto a papà…o magari a Matumbo – aggiunse colpendo nel segno – Faresti di tutto pur di dare la scalata alla gerarchia del Centro, non è vero Lyle?»

Lunghi attimi di silenzio. La tensione nella stanza si era fatta quasi palpabile.

«D’accordo, ancora non ho le prove – ammise poi lui squadrandola torvo e contenendo a stento la collera…come diavolo faceva a sapere del suo memo per Matumbo?! – Ma tu farai un passo falso prima o poi ed io sarò lì per coglierti sul fatto, stanne certa»

«Tu sei pazzo!»

«Può darsi, ma non abbastanza pazzo da scordare che né quello che sono né quello che ho sempre fatto si possono cancellare con un colpo di spugna. Sarebbe un po’ troppo comodo, non credi sorellina? – sibilò con compiaciuta cattiveria - Tu faresti bene a non illuderti: anche se ti fa piacere pensare il contrario, non sei affatto migliore di me» aggiunse con voce tagliente quanto il suo sguardo, prima di andarsene soddisfatto.

“Uno a zero per lui” si disse infatti avvilita Miss Parker, incassando il colpo senza poter ribattere.

«Tenendo d’occhio Cox e concentrandoci sulla lista ci eravamo scordati di lui» commentò preoccupato Sydney.

«Già, ed è stata un’imperdonabile leggerezza – di rimando lei - Vediamo di muoverci con maggiore cautela d’ora in avanti. Non possiamo più permetterci di sottovalutarlo» concluse afferrando la sua valigetta.

«Miss Parker, non dare troppo peso a ciò che ha detto, sai benissimo che…» provò a dire lo psicologo, intuendo quanto le ultime parole di Lyle l’avessero turbata, ma lei lo interruppe con un semplice gesto della mano.

«Lascia stare Syd» mormorò amaramente dirigendosi verso la porta.

 

*                              *                              *

 

“Maledetto bastardo!” riusciva solo a pensare mentre l’ascensore scendeva velocemente verso il parcheggio.

Era in preda all’ira e controllava a stento i tremiti dei propri nervi tesi allo spasimo. Era furiosa, ma più con se stessa che con Lyle, perché sapeva che, sebbene avesse agito nel solo intento di farle del male, suo fratello non aveva detto che la verità. Anche se le parole di Ethan l’avevano indotta a sperare il contrario, a quel punto sapeva di essersi illusa. Niente e nessuno avrebbe mai potuto cambiare il passato e quel passato le sarebbe sempre rimasto cucito addosso, non importava cosa avesse fatto per cancellarlo. Non avrebbe mai potuto farlo. Sarebbe sempre stato lì, accanto a lei, parte di lei, per separarla dalle persone che voleva aiutare…per separarla da Jarod.

Le porte scorrevoli si aprirono e Miss Parker si avviò mestamente al suo posto auto. Doveva smetterla di aggrapparsi a false speranze, tra lei e Jarod c’erano ostacoli invalicabili e…

All’improvviso un’ombra si mosse impercettibile alle sue spalle. Senza esitare un attimo, la donna afferrò la pistola e si voltò di scatto, pronta a difendersi, ma si trovò di fronte…

«Jay?!»

«Ciao Miss Parker»

«Ma dico ti ha dato di volta il cervello?! – sbottò non appena ripresasi dallo stupore – Che diavolo ci fai qui?!»

«Non preoccuparti. Sono passato del tutto inosservato»

«Nessuno si muove inosservato qua dentro!» replicò Miss Parker indicando la telecamera.

«Oh quella – esordì Jay con aria di sufficienza - Tranquilla, l’ho messa fuori uso»

«Perfetto. Questo significa che uno spazzino starà gia venendo qui a controllare perché non funziona. Avanti, sbrighiamoci!» disse lei afferrandolo per il braccio.

«Aspetta, dove stiamo andando? Io devo…»

«Niente discussioni ragazzino. Muoviti!» commentò lei trascinandolo risoluta verso la sua auto.

«Io non sono un ragazzino» precisò risentito Jay, sempre più convinto che tutti gli adulti erano insopportabili, mentre si  dirigeva contrariato verso la portiera del passeggero, però…

«Dove credi di andare?» esordì Miss Parker indicando il  bagagliaio.

Lui fissò incredulo il vano. «Non vorrai farmi entrare là dentro!» protestò poi.

«Certo, così impari ad essere imprudente – lo rimproverò lei divertita – E poi che altro dovrei fare? Non posso certo uscire da qui portandoti in bella vista. Ti ricordo che sei ancora sulla lista dei ricercati»

Jay scosse il capo rassegnato ed entrò riluttante nell’angusto scomparto, ma proprio mentre la donna lo stava richiudendo…

«Miss Parker»

“M…da!” imprecò lei tra sé e sé, dopo che ebbe udito la voce alle sue spalle.

«Che c’è Sam?» domandò poi laconica, mentre si voltava con ostentata noncuranza.

«Va tutto bene?» s’informò lo spazzino.

«Certo. Perché me lo chiedi?»

«La telecamera di questo settore non funziona. Non è che ha notato qualcosa di strano per caso?»

Miss Parker tirò un’impercettibile sospiro di sollievo: « Sam, vecchio mio, siamo al Centro…sono anni che vedo cose strane qui dentro!» commentò salendo in auto con un sorrisetto ironico, prima di andarsene in tutta fretta.

 

Rifugio di Jarod - Pimmit Hills, nei pressi di Washington – ore 08:00 p.m.

 

Frank teneva d’occhio da ore lo schermo del suo portatile oramai esausto per la snervante attesa, quando “M” si fece finalmente vivo all’appuntamento.

Frank – apparve infatti all’improvviso sul video.

Eccoti finalmente – scrisse l’agente facendo un cenno concitato a Jarod.

Il simulatore si avvicinò immediatamente, a sua volta entusiasta e si attivò per rintracciare la chiamata.

Perché mi hai contattato in questo modo? Lo sai che è rischioso

«Digli che vuoi incontrarlo» suggerì Jarod.

Sì lo so – rispose Frank – ma ci sono importanti novità di cui ti devo parlare

D’accordo però facciamo in fretta. Il Centro potrebbe individuarci in qualsiasi momento

Non così – digitò ancora l’altro – è una questione delicata. Dobbiamo incontrarci di persona

No non è possibile – replicò categorico “M”.

Perché no? Fisseremo un posto sicuro. Anzi, dimmi tu dove ed io verrò

«Okay Frank, continua così – lo esortò Jarod - Continua a tenerlo collegato, ci sono quasi»

Non esistono posti abbastanza sicuri per sfuggire a quella gente – rispose “M” dopo qualche istante

Prenderemo tutte le precauzioni possibili – insistette Frank – vedrai che non ci saranno problemi

Ti dico che non è possibile. Non contattarmi più Frank

Aspetta

«Se n’è andato accidenti!» esclamò contrariato l’uomo fissando impotente il monitor ormai vuoto.

«Ma noi lo ritroveremo – lo rassicurò Jarod – Il nostro uomo chiamava da Dover, più precisamente da una linea telefonica del Sunrise Motel, che si trova al Km 7 della superstrada»

«Sei un genio ragazzo!» si complimentò l’altro impressionato.

«Sì, me lo hanno già detto – replicò ironico il simulatore – Ma ora sbrighiamoci. La tua chiamata deve averlo insospettito. Dobbiamo arrivare là prima che tagli la corda!»

 

Casa di Miss Parker, Blue Cove – ore 09:45 p.m.

 

Mentre Jay mangiava hamburger e patatine guardando tranquillo la TV, Miss Parker decise che era giunto il momento di avvisare Jarod per rassicurarlo sulla sorte del ragazzo.

«Sì?» rispose inquieto il simulatore all’altro capo del filo.

«Sono io. Volevo avvisarti che tuo fratello è qui con me, a casa mia»

«Grazie a Dio – replicò l’altro assai più sollevato – Come sta?»

«Sta bene, sta bene…come dici? Vuoi sapere dove l’ho trovato? Bè stava bazzicando, pensa un po’, nel parcheggio del Centro – Miss Parker allontanò all’improvviso il telefono dall’orecchio – Ehi calmati! Non è da te perdere le staffe, ragazzo prodigio!»

«Si può sapere almeno che diavolo ci faceva al Centro?»

«Ancora non me lo ha detto, ma vedrò di scoprirlo»

«Comunque quell’incosciente mi sentirà, non appena potrò venire a prenderlo»

«Che vuol dire non appena? – esordì contrariata la donna - Io credevo che ti stessi già precipitando qui, non vorrai che gli faccia da baby-sitter per…»

«Ora non posso – l’interruppe risoluto lui - Frank ed io stiamo andando a Dover»

«A Dover? A fare che?»

«Ad incontrare un amico»

«”M” ha accettato di vederti di persona?» esclamò a quel punto Miss Parker piacevolmente sorpresa.

«Non esattamente, ma credo che dovrà farlo comunque - replicò allusivo Jarod – Per favore pensa tu a Jay finché non torno»

«Bè, quand’è così, d’accordo. Ma tienimi informata»

«Come sempre»

Miss Parker ripose rassegnata il cellulare e concentrò nuovamente la sua attenzione su Jay.

«Allora, posso finalmente sapere perché ti trovavi nell’ultimo posto al mondo in cui saresti dovuto essere?»

Nessuna risposta. Il ragazzo rimase impassibile a seguire distrattamente ciò che accadeva sullo schermo, senza dare nemmeno cenno di aver sentito la sua voce.

La donna allora sospirò, si sedette pazientemente accanto a lui sul divano, gli sfilò con delicatezza il telecomando dalle mani e spense il televisore.

«Andiamo Jay, non ho intenzione di farti la predica. Voglio solo capire che cosa ti passa per la testa» aggiunse poi in tono pacato.

Lui la fissò per un po’ con palese diffidenza, poi si decise a parlare.

«Una mia amica è stata portata al Centro e io devo farla uscire di lì prima che le facciano del male»

«Una tua amica? - chiese scettica la donna – E come sai che si trova al Centro?»

«Lo so perché ho visto Willie trascinarla via da scuola a forza due giorni fa»

«Ne sei proprio sicuro?» insistette lei, anche se quasi convinta che lui avesse visto giusto.

«Certo. Non credo che potrei scordare la faccia di chi mi ha tenuto prigioniero per quindici anni, ti pare?»

«Già…» mormorò Miss Parker colpita dall’amaro sarcasmo di quella risposta.

Dio solo sapeva cosa doveva aver passato quel povero ragazzo nelle grinfie di Raines e chissà quanto ancora stava soffrendo. Magari avrebbe dovuto…che so? Arruffargli i capelli, o accarezzargli la guancia, o semplicemente toccare la sua spalla…insomma fargli capire che gli era vicina, che le dispiaceva immensamente per…ma no, forse non era il caso. Lui non voleva certo essere compatito.

«Un momento – esordì Miss Parker alzandosi di colpo per avviarsi svelta verso la sua valigetta. Poteva essere solo una coincidenza, ma qualcosa le diceva che non era così – Come hai detto che si chiama la tua amica?» chiese afferrando il fascicolo consegnatole da Sydney.

«Non l’ho detto – replicò scostante Jay – Comunque si chiama Kimberly»

«Kimberly e poi?»

«Non so altro di lei»

La donna sbuffò costernata, spulciando uno dopo l’altro con crescente impazienza l’elenco dei possibili canditati estrapolato da Broots, finché quel nome non le balzò agli occhi.

«Kimberly Lawrence – lesse ad alta voce - Età attuale sedici anni, inserita nel programma quando ne aveva due, estremamente dotata per le scienze matematiche e per questo denominata “Progetto Euclid”»

«Programma..? Progetto Euclid..? - ripeté Jay sbalordito -Vuoi dire che Kimberly è un simulatore?»

«Non proprio, non come te per lo meno – spiegò Miss Parker - I suoi genitori si rivolsero alla Nugenesis perché non potevano avere figli e sfortunatamente furono scelti da Raines per un esperimento. La loro bambina… insomma è stata geneticamente modificata per sviluppare particolari doti, allo scopo di essere poi inserita in una sorta di progetto parallelo al programma simulatore – il ragazzo seguitava a guardare la donna con uno sguardo carico di orrore e disgusto – Però i Lawrence capirono in qualche modo che non dovevano fidarsi del Centro e sparirono di punto in bianco con la figlia – continuò Miss Parker, riportando quanto era scritto nel dossier – Si nascondevano da oltre dieci anni per proteggerla da Raines, ma a quanto pare  il Centro è riuscito a scovarli»

«Ma il Dr. Raines è morto ormai – obiettò a quel punto il ragazzo ancora confuso– Chi potrebbe..?»

«…continuare con l’esperimento? Oh ci sta pensando il Dr. Cox a sostituirlo in tutto e per tutto - replicò sarcastica la donna – Sapevamo che il Centro intendeva rapire un altro bambino e speravamo di impedirlo, ma non ci siamo riusciti. Purtroppo temo che la tua amica sia il nuovo soggetto di cui Cox ha parlato a Sydney»

A quelle parole, il ragazzo scattò in piedi come una molla.

«Devo andare a salvare Kimberly!»

«A cuccia Romeo! Tu non vai da nessuna parte» lo trattenne decisa Miss Parker.

«Ma lei è in pericolo!»

«E’ vero, però anche tu lo saresti se dovessero catturarti» replicò categorica lei.

«Non succederà»

«Sicuro! Ti lasceranno andare e venire a tuo piacimento senza fare obiezioni!– lo schernì ironica - Eh voi uomini siete tutti uguali: basta che una bella biondina vi faccia gli occhi dolci e vi mettete a fare i gesti più sconsiderati!»

«Io non ho fatto nessun gesto sconsiderato»

«Ah no? E scappare di casa facendo morire di paura tua sorella come lo chiami?»

Il ragazzo si rabbuiò di colpo in viso, negli occhi uno sguardo colmo di tristezza.

«A Emily non importa niente di me, come a tutti gli altri del resto – disse alzando le spalle – Io sono solo un peso per loro, qualcuno che sono stati obbligati ad accollarsi»

«Ma che stai dicendo?»

«La verità»

«No, sono sicura che ti sbagli - disse  Miss Parker in un tono stranamente dolce - Jarod e il Maggiore erano preoccupati a morte dopo la tua scomparsa ed Emily era disperata quando ha chiamato per avvisare della tua fuga»

«Solo perché sentivano di non aver adempiuto ai loro doveri morali»

«No solo perché ti adorano e vogliono proteggerti»

«Io non voglio essere protetto! – sbottò allora Jay esasperato – Io vorrei soltanto essere normale, fare parte di una famiglia normale» mormorò poi.

«Lo so – replicò Miss Parker toccata - Ma purtroppo tu non sei come tutti gli altri, devi accettarlo Jay»

“Dio che cosa stupida da dire a un adolescente!” si disse ancor prima di finire la frase.

«Non sono capace. Non ci riesco. Non è facile vivere in mezzo agli altri come se fossi un alieno»

«Posso immaginarlo»

«Davvero? Io non credo proprio» l’apostrofò lui amaramente.

«Jay, quello che ti è capitato è atroce, ma puoi superarlo se vuoi – il ragazzo le rivolse un’occhiata a dir poco scettica, ma lei continuò - Puoi scegliere di vivere schiacciato dal peso della tua orribile esperienza, oppure sfruttare le doti straordinarie che ne hai ricavato per fare qualcosa di buono per te stesso e per gli altri, come…»

«…come Jarod?» terminò lui in tono pungente.

«Ti secca essere continuamente paragonato a lui, vero?» chiese Miss Parker dopo un breve istante.

«Non sai quanto! - le confermò risentito il ragazzo - Non sai quanto sia difficile non essere altro che il suo clone»

«Nessuno ti considera il suo clone! Tu sei semplicemente…»

«Il duplicato del genoma di un altro – insistette sarcastico lui - Non sono nemmeno un essere umano, sono nato in una provetta!»

«Bé, ci sono uomini nati dal ventre di una donna che sono molto meno umani di te, credimi - Jay abbozzò un timido sorriso alla sua battuta ironica, così, incoraggiata, lei proseguì – Io credo che il nocciolo del problema sia proprio questo»

«Questo..?»

«Tu sei convinto che tutti ti considerino soltanto il clone di Jarod, qualcosa non del tutto umano, perché questo in realtà è ciò che tu pensi di te stesso»

Miss Parker si meravigliò quanto Jay non appena ebbe pronunciato quelle parole: da quando era diventata una psicologa?! Eppure qualcosa le suggeriva di aver detto la cosa giusta.

«Non ci avevo mai pensato ma…sì forse…insomma, può essere vero…» mormorò incerto il ragazzo.

«Lo credo anch’io»

«Ma allora perché non fanno che ricordarmi quanto io sia diverso? Perché mi impongono di non avere legami coi miei coetanei, di vivere come un fantasma?! Perché non capiscono che tutto questo mi fa stare male?!»

«Forse perché non hanno altra scelta – replicò pacata la donna dopo quello sfogo – Ti sarai accorto anche tu che la loro vita è estremamente complicata…e magari di fronte a tutti i loro grossi guai i tuoi problemi adolescenziali sono passasti in secondo piano»

«Quindi è come pensavo: a loro non importa un accidente di me!»

«Non ho detto questo – ribatté esasperata Miss Parker – E poi scusa, ma tu hai mai parlato con loro di ciò che senti? Voglio dire, lo hai mai fatto senza farti prendere dall’ira, tranquillamente, come stai facendo con me ora?»

Jay tacque a lungo, evitando lo sguardo inquisitorio della donna, mentre cercava una buona scusa.

«Emily e il Maggiore sono sempre troppo occupati»

«E tu sei sempre troppo arrabbiato – lo rimbeccò lei. Il ragazzo sospirò avvilito – La tua famiglia ti vuole bene Jay e scommetto che anche tu ne vuoi a loro. Ma a volte è difficile esprimere ciò che proviamo»

Ancora silenzio, attimi d’indecisione e di malcelato imbarazzo.

«Credi che Emily si arrabbierebbe con me se le telefonassi...solo per dirle che va tutto bene?»

«Io credo che ne sarebbe felice – lo incoraggiò Miss Parker sorridendo - Anzi, perché non la chiami subito?- propose poi indicandogli il cordless – Io nel frattempo faccio qualche telefonata e magari riesco a far uscire la tua amica dal Centro stanotte stessa»

 

Motel Sunrise – Dover – ore 10:30

 

Dopo un viaggio che pareva interminabile, trascorso quasi in totale silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri, Jarod e Frank giunsero finalmente a destinazione: bastò loro una sola occhiata per capire che di non trovarsi certo al Grand Hotel. A dispetto della scarsa illuminazione, si vedevano bene i muri scrostati del piccolo edificio fatto a ferro di cavallo, le aiuole incolte di quello che un tempo forse  era un giardino, le imposte dissestate che lasciavano ben poca intimità agli occupanti delle stanze.

Il fetore d’immondizia che aleggiava su quel posto fatiscente era quasi insopportabile.

«Proprio il posto ideale per nascondersi» commentò ironico Jarod.

«Già – annuì Frank – A chi verrebbe mai in mente di cercare qualcuno in questa topaia?!»

«Forza muoviamoci» disse il simulatore scendendo risoluto dall’auto.

«Un momento ragazzo – obiettò l’altro seguendolo – Qual è il piano?»

«Non c’è nessun piano. Dobbiamo scovare il tuo amico, tutto qui»

«E come facciamo? – insistette ancora Frank - Sappiamo solo che “M” chiamava da qui, ma non sappiamo da quale stanza e non abbiamo la più pallida idea di che faccia abbia. Potrebbe essere chiunque, potrebbe essersene già andato»

«Chiederemo al proprietario» replicò Jarod continuando imperterrito a camminare verso la reception.

Sentiva di essere vicino come non mai a conoscere la verità su troppe cose che gli stavano a cuore e, pur sapendo di comportarsi in modo irrazionale, non aveva nessuna voglia di fermarsi a pensare.

Aveva bisogno di agire subito.

«Sarebbe tempo sprecato – cercò invece di frenarlo Frank scuotendo il capo – Questo non mi sembra il genere di posto dove si chiedono i documenti, né tanto meno dove il proprietario sia disposto a dare informazioni sui clienti. Ci vorrebbe una vita per farlo parlare e noi non abbiamo tutto questo tempo»

«D’accordo – assentì l’altro dominando a fatica un moto di stizzita insofferenza – Allora controlleremo il posto stanza per stanza»

«Cosa?! Ma non possiamo farlo senza un mandato!»

«Lo hai detto tu stesso Frank: non abbiamo tempo – replicò categorico Jarod, fermandosi a fissarlo – E poi non sarà necessario entrare, basterà dare un’occhiata dalle finestre. Tu cominci dal lato est, io da ovest e ci ritroviamo al blocco centrale»

«E che cosa dovremmo cercare?» obiettò Frank sempre più perplesso.

«Un tizio che sta tagliando la corda» rispose secco il simulatore avviandosi deciso verso l’ala destra dello stabile.

Dietro alle finestre si susseguivano le situazioni più disparate: un ubriaco dormiva sonni agitati accanto alla sua bottiglia, un uomo e sua moglie litigavano astiosi per soldi davanti ad una bambina spaurita, due amanti clandestini impegnati in un frettoloso amplesso, un’eroinomane stava chiamando il suo spacciatore elemosinando una dose…ma niente che somigliasse a ciò che i due uomini stavano cercando.

Jarod, oramai al culmine dell’esasperazione, era quasi giunto al blocco centrale quando sbirciando dentro l’ennesima stanza qualcosa attirò la sua attenzione. La camera aveva un’aria ordinata e pulita, contrariamente alle altre, dove regnavano caos e sporcizia e sul letto giaceva una borsa da viaggio molto simile alla sua, insieme alla custodia di un portatile. Qualcuno si preparava a partire. La luce del bagno era accesa…forse aveva trovato il suo uomo.

Esultante, fece un cenno a Frank, ormai non molto distante da lui, e questi si avvicinò per guardare a sua volta, quindi annuì.

“Come ci muoviamo?” stava per chiedere, ma prima ancora che aprisse bocca, il simulatore aveva forzato la serratura e fatto irruzione nella stanza. Non gli restava che imprecare e seguirlo.

La luce nel bagno si spense e la porta si aprì lentamente.

Una sagoma emerse dalla penombra e si avvicinò a loro. Una figura esile e minuta, una donna dai lunghi capelli rossi, raccolti in una crocchia.

I due uomini erano entrambi ammutoliti per lo stupore.

«Mamma…» riuscì infine a mormorare Jarod con un fil di voce.

 

Il Centro, Blue Cove – Ufficio di Broots - ore 11:00 p.m.

 

“Stavolta andrà a finire male, me lo sento!” continuava a pensare Broots, mentre le sue dita agili ed esperte volavano veloci sulla tastiera del computer.

Il cuore gli martellava in petto come un tamburo, mentre un’impercettibile patina di sudore gli imperlava la fronte stempiata ed il labbro superiore, a dispetto della temperatura ottimale della stanza climatizzata. Per non attirare l’attenzione, aveva evitato di accendere la luce, accontentandosi della flebile illuminazione di una torcia, ma ciò non faceva che acuire la sua inquietudine, perché ogni angolo buio, ogni ombra allungata sembravano nascondere un’insidia ai suoi occhi, che non smettevano di guardarsi nervosamente attorno.

Brividi agghiaccianti gli correvano lungo la schiena al solo pensiero di quel che gli sarebbe accaduto se fosse stato scoperto. Come nel peggiore degli incubi, vedeva la porta spalancarsi di botto ed una squadra di spazzini fare irruzione nel suo ufficio. Vedeva Lyle avvicinarsi minaccioso, con quel suo sguardo gelido e crudele, oppure Cox, col suo sorrisetto sadico o ancora White, il suo volto inespressivo e disumano…e la sua sudorazione non faceva che aumentare…ah basta! Doveva smetterla di far galoppare l’immaginazione e concentrarsi sul compito che gli era stato affidato.

La telefonata di Miss Parker era arrivata come un fulmine a ciel sereno sulla sua tranquilla serata davanti alla TV.

«Broots, ho bisogno che tu faccia qualcosa per me…è un’emergenza»

Ma perché diavolo si era cacciato in questa situazione?! Perché non si era tirato indietro quando gliene avevano dato la possibilità? Lui non era tagliato per fare l’eroe!

“Ma non voglio nemmeno essere un vigliacco” si disse poi con un lungo sospiro,  ripensando alla sua piccola Debbie lontana e a ciò che  sarebbe stato di loro se Miss Parker e Jarod non fossero riusciti a fermare il Triumvirato. Per sua figlia, per se stesso, per il mondo intero, doveva smetterla di rimpiangere il suo meschino quieto vivere e portare a termine il proprio lavoro.

“Ecco fatto” pensò compiaciuto quando finalmente gli riuscì di entrare nel programma di sicurezza superprotetto del SL27. Senza troppe difficoltà s’inserì nel software di gestione delle telecamere a circuito chiuso ed fece partire il filmato registrato a beneficio della sorveglianza, quindi sbloccò le porte d’accesso al corridoio dove si trovava la stanza che Sydney aveva indicato a Miss Parker e infine compose svelto il numero sul telefonino.

«Broots?»

«Via libera Miss Parker, puoi entrare»

«Okay» rispose questa iniziando a scendere le scale che conducevano al SL27.

«La porta 51 si sbloccherà tra 2 minuti esatti»

«Perfetto»

«Sei sicura che vuoi che me ne vada?»

«Sì. Così se qualcosa andasse storto, almeno non sarai coinvolto»

«Ricorda che le telecamere trasmetteranno la registrazione ancora per 14 minuti e 30 secondi e che fra 15 minuti esatti la guardia passerà per suo giro di controllo. Non hai molto tempo»

«Allora cercherò di sbrigarmi»

«Miss Parker»

«Che c’è ancora?!»

«Sta attenta»

La donna indugiò in un sorriso bonario, mentre riponeva il cellulare in tasca, quindi procedette, pistola alla mano, verso il corridoio indicatole da Sydney, nella speranza che le intuizioni dello psicologo si sarebbero rivelate fondate e che Kimberly fosse tenuta prigioniera proprio lì, nella stanza 51.

Il posto era notevolmente cambiato dall’ultima volta che vi era entrata. Era illuminato da un’asettica luce bianca e vi aleggiava un forte odore di vernice e materiale nuovo, ad indicarne la recente ristrutturazione. Muovendo silenziosa un passo avanti all’altro, i sensi all’erta, gli occhi bene aperti, Miss Parker oltrepassò le varie porte d’acciaio…37, 38, 39…e non poté fare a meno di pensare alle inimmaginabili atrocità che dovevano celarsi dietro quei numeri…48, 49,50…

“51…eccoti qua! – esordì controllando l’orologio – Meno tre…due…uno…”

Clack! Broots era stato di parola, la serratura elettronica si era aperta proprio al momento giusto.

La donna spinse la pesante porta ed entrò nella stanza, le cui pareti spoglie e naturalmente senza finestre erano rischiarate solo dalla flebile luce di una lampada da tavolo, appoggiata appunto sull’unico mobile presente, oltre al letto e una sedia.

I suoi occhi incontrarono subito quelli spauriti ma determinati della ragazza, seduta sul pavimento, le gambe rannicchiate al petto.

«Che altro c’è?! Non mi hanno sforacchiata abbastanza per oggi?!» domandò in tono pungente, mostrando le braccia livide e, pur tremando come una foglia, alzò il mento in segno di sfida.

Miss Parker provò subito un’istintiva simpatia per quella povera creatura dall’aria così fragile, che lottava strenuamente per non cedere alla paura…Dio che cosa le avevano fatto?

«Sta tranquilla, non voglio farti del male Kimberly» riuscì a dirle, nonostante il nodo che le serrava la gola.

«Come mai usi il mio nome? Tutti qua mi chiamano soggetto oppure Euclid»

«Io non sono come tutti gli altri. Sono venuta a portarti via di qui»

Un barlume di speranza si accese per un attimo nei grandi occhi azzurri della ragazza, ma la diffidenza prese repentina il sopravvento.

«Portarmi via? Ma tu chi sei? Come sapevi che mi trovavo qui? Chi mi dice che anche tu non sei una di loro, che tutto questo non sia parte del loro esperimento?»

Miss Parker guardò preoccupata l’orologio.

«Senti, ora non c’è tempo. Dobbiamo andarcene o ci scopriranno, ma ti prometto che una volta al sicuro ti spiegherò tutto, okay?»

Kimberly si alzò piano piano, le spalle addossate alla parete, uno sguardo indagatore fisso sulla donna.

«Andiamo, non…» insistette ancora questa muovendo un passo verso di lei.

«Non ti avvicinare!» l’ammonì atterrita l’altra.

«Puoi fidarti di lei, Kimberly» esordì a quel punto una voce all’ingresso della stanza.

«Jay! - esclamò questa di colpo raggiante. Ma subito il sorriso le morì sulle labbra e la sua espressione s’incupì – Anche tu sei coinvolto in tutto questo?» domandò delusa.

Miss Parker si volse e seguì con lo sguardo il giovane mentre si avvicinava alla ragazza, sempre più diffidente, per poi controllare di nuovo con impazienza l’orologio…ancora 6 minuti…

«Purtroppo sì – le disse Jay – Io ci sono nato e cresciuto in un posto come questo»

«Cosa?»

«E’ stato il Centro a crearmi. Io sono il loro Progetto Gemini…anzi, lo ero»

«Il Centro? E’ così che si chiama questo posto? – Jay annuì – E tu sei riuscito a scappare?»

«Sì, per fortuna mio padre e mio fratello mi hanno salvato da questo inferno e ora Miss Parker può fare lo stesso per te – aggiunse persuasivo lui – Non avere paura, lei è un’amica»

Kimberly si staccò lentamente dalla parete e strinse dapprima titubante la mano che Jay le porgeva, poi ruppe ogni indugio e gli buttò le braccia al collo singhiozzando sommessamente.

Jay, imbarazzato e confuso, l’abbracciò a sua volta, sentendo l’istintivo, inspiegabile bisogno di proteggerla.

«Andrà tutto bene, vedrai» le sussurrò, volgendosi poi verso Miss Parker, che li stava fissando, cercando di non mostrarsi troppo intenerita.

«Non ti avevo detto di aspettarmi a casa?» lo rimproverò infatti acida.

«Non saresti mai riuscita a convincerla senza di me» si giustificò candidamente Jay.

La donna gli rifilò un’occhiataccia del tipo con te facciamo i conti dopo!.

«Andiamo piccioncini – esordì poi, precedendo circospetta i due lungo il corridoio - Abbiamo solo 4 minuti scarsi per filarcela da qui!»

Il cuore in gola e l’adrenalina che scorreva a fiumi nelle loro vene, percorsero cauti un corridoio dopo l’altro e raggiunsero infine le scale. Ancora un paio di minuti e le telecamere avrebbero ripreso a funzionare…e poi sarebbe arrivata la guardia…

Miss Parker aprì di poco la porta che dava accesso al SL26 e sbirciò prudentemente lungo il corridoio immerso nella penombra: nessuno in vista, ancora pochi metri e sarebbero stati in salvo.

«Svelti – bisbigliò - dobbiamo raggiungere la grata del condotto di aerazione»

Non avevano mosso che pochi passi, quando una luce accecante li investì, cogliendoli di sorpresa e il rumore dei passi di una decina di uomini almeno fece loro capire di essere circondati.  Erano in trappola.

Miss Parker si avvicinò istintivamente ai due ragazzi, stretti l’uno all’altra e spaventati a morte, puntando la sua 9mm avanti a sé e pensando convulsamente ma inutilmente a come potesse togliersi da quell’impiccio.

«Butti la pistola Miss Parker. Stavolta non potrà cavarsela» le intimò Willie oltremodo soddisfatto, tenendola sotto tiro insieme a tutti i suoi uomini.

La donna squadrò fredda come il ghiaccio il suo ghigno beffardo, prima di abbassare lentamente il braccio. Non poteva affrontarli tutti da sola, maledizione! Che cosa era andato storto?!

«Ma guarda che fortuna inaspettata – sibilò a quel punto Cox, facendosi strada tra gli spazzini visibilmente compiaciuto – Avevo bisogno di un soggetto per il nuovo programma simulatore e me ne ritrovo addirittura due …molte grazie Miss Parker!»

«Va all’inferno!» riuscì solo a sibilare lei, cercando di non mostrare quanto fosse impaurita.

«Pensava davvero di poter uscire di qui con Euclid senza che me ne accorgessi? – la donna si limitò a lanciargli una truce occhiataccia – Devo ammettere che sono colpito dal modo in cui ha eluso il mio sofisticato sistema di sorveglianza…immagino sia stato merito del Sig. Broots, non è così?»

«Broots non c’entra. L’ho praticamente costretto»

«Ma certo - l’apostrofò Cox con palese scetticismo -  Tuttavia nemmeno Broots poteva sapere del nostro nuovo …chiamiamolo antifurto»

«Ma di che diavolo sta parlando?!»

«Del microchip che abbiamo installato dietro la nuca di Euclid – Miss Parker puntò sull’uomo uno sguardo sconcertato e colmo di disgusto – Il Programma ha subito troppe perdite in questi ultimi anni. Prima Jarod, poi Gemini e infine Mirage. Era tempo di trovare una soluzione, non crede? Così possiamo rilevare in ogni momento la posizione del soggetto»

«I miei complimenti dottore. Ogni volta che penso abbia toccato il fondo lei mi dimostra che non c’è limite alla sua mancanza di scrupoli e ogni volta mi stupisco di quanto lei riesca a cadere sempre un po’ più in basso!» esordì a quel punto Miss Parker con amara ironia.

Cox le rivolse uno dei suoi sorrisi più melliflui.

«Risparmi il suo sarcasmo Miss Parker, in questo momento sono troppo soddisfatto per prendermela con chiunque…persino con lei»

«Sono commossa!»

«Sì, non poteva proprio andare meglio di così – proseguì quasi gongolando Cox, ignorando il suo acido commento – Sono finalmente in possesso dei due soggetti giusti per portare avanti il nostro esperimento»

Kimberly e Jay ebbero entrambi un fremito di terrore alle spalle di Miss Parker, ma non osarono aprire bocca.

«Nostro..? Possiamo almeno sapere di che si tratta?»

«Di progresso, Miss Parker – replicò incredibilmente eccitato Cox - Della creazione di un nuovo genere umano, dotato di una mente superiore, una nuova stirpe che partirà proprio dai nostri due nuovi soggetti»

«Un momento…lei vuole accoppiare questi due ragazzi come si fa con cani e gatti?! – proruppe la donna interdetta, stentando a credere alle sue stesse parole – E’ impazzito per caso?!»

«Sapevo che non avrebbe capito»

«Ma con chi crede di avere a che fare?! Con dei topi da laboratorio?! – inveì ancora lei scioccata - Quelli che lei chiama soggetti sono esseri umani e lei non ha nessun diritto di…»

Miss Parker non riuscì a terminare la frase. Qualcosa di estremamente duro, forse il calcio di una pistola, colpì improvvisamente e violentemente la sua nuca, provocandole una fitta acuta, talmente dolorosa da mozzare il fiato. Ogni cosa intorno a lei perse poco a poco forma e colore, mentre il suo corpo cadeva pesantemente a terra, dopodiché tutto divenne buio.

 

Motel Sunrise – Dover – ore 11:00 p.m.

 

«Jarod…sei proprio tu» sussurrò Margaret, la voce rotta dall’emozione, mentre stringeva il figlio in un lungo, tenero abbraccio.

Quante volte aveva sognato questo momento. Quella voce così dolce, quel profumo delicato di fiori di campo… sensazioni mescolate ai ricordi lontani e annebbiati della sua infanzia. E il sogno era divenuto realtà. Sebbene ancora stentasse a crederlo, le braccia esili che lo cingevano e il viso incorniciato da folti capelli rossi appoggiato sulla sua spalla erano davvero quelli di sua madre.

«Ci sono tante cose che vorrei dirti…chiederti» le disse confuso ma felice, stringendole affettuosamente le mani.

«Lo so» replicò la donna senza smettere un attimo di studiare attentamente il figlio, quasi volesse riappropriarsi in un solo minuto di tutti gli anni in cui avrebbe potuto vederlo crescere ma che le erano stati rubati.

Dopo qualche istante Margaret posò uno sguardo incuriosito su Frank, che in disparte osservava perplesso e un tantino commosso la scena.

«Lei è l’agente Dawson» realizzò poi.

«Esatto – confermò Jarod – Frank, ti presento mia madre, Margaret»

«Ma certo…”M”!» esclamò l’altro.

«Mi deve scusare, ma non ho mai avuto molta immaginazione» confessò Margaret sorridendogli.

«Avrei dovuto capirlo subito – aggiunse Jarod – Sei stata tu a mettere Frank sulle tracce del Centro»

«Quando ti vidi a Boston, tre anni fa, fui certa che non eri più loro prigioniero e che non avrebbero potuto farti del male, anche se avessero capito che ero io la fonte delle informazioni. Così mi sentii libera di agire».

Un attimo di silenzio, poi quelle parole esitanti, quella domanda che non smetteva di ronzargli nella testa.

«Mamma…tu lavoravi per il Centro?»

«Sì» ammise lei con aria grave.

«Ma allora perché non dicesti alla polizia dove cercare me e Kyle visto che sapevi benissimo dove fossimo finiti?!» chiese ancora lui, incapace di nascondere rabbia e delusione.

La donna lo fissò con infinita tristezza, poi gli voltò le spalle, senza dire nulla.

«Come hai potuto permettere a quella gente di..?!»

«Non era così semplice - si difese a quel punto Margaret, volgendosi di nuovo verso il figlio, con aria contrita – Non lo è nemmeno adesso»

Jarod e Frank la fissarono entrambi costernati, senza riuscire a capire e la donna trasse un profondo sospiro.

«Forse è giunto il momento che vi racconti tutta la verità» esordì poi rassegnata, sedendosi sul letto e facendo cenno al figlio di prendere posto accanto a lei.

«Avevo poco più di vent’anni quando iniziai a lavorare per quello che credevo fosse un avanzato istituto di ricerche, votato al progresso scientifico per il bene dell’umanità – iniziò a raccontare con voce flebile – L’ufficio a cui venni assegnata svolgeva una funzione di controllo etico-morale sui progetti proposti dai vari gruppi di ricerca prima di autorizzarne il finanziamento e a capo di quest’ufficio c’era una persona straordinaria…»

«Catherine Parker» intuì Jarod.

«Sì. Era bello lavorare con lei. Credeva fermamente in quello che faceva e svolgeva il suo compito con profonda dedizione. A quel tempo riponeva ancora tutta la sua fiducia nel Centro, pensate che fu proprio lei a parlarmi della Nugenesis quando le confidai che, pur desiderando tanto un figlio non riuscivo a rimanere incinta»

Margaret si lasciò sfuggire una smorfia di amaro rimpianto.

«Ero già al quarto mese di gravidanza quando scoprii la verità e ricordo bene quel giorno, come se fosse ieri. Mi trovavo nell’ archivio del cartaceo, a cercare vecchi documenti per Catherine, un seminterrato tetro e polveroso, in cui raramente incontravo altri colleghi. Ero lì da circa mezz’ora quando quei due uomini entrarono. Non si erano accorti della mia presenza quindi iniziarono tranquillamente a parlare, così riconobbi le voci: erano il Sig. Matumbo, allora semplice membro del consiglio di amministrazione e il Dr. Raines. Catherine non aveva particolare simpatia per loro, il suo intuito le diceva che erano entrambi troppo ambiziosi e poco interessati al benessere del genere umano. Quel giorno ebbi la certezza che non si sbagliava».

Margaret si interruppe, come per raccogliere le idee. Jarod e Frank fremevano per conoscere il seguito della storia, ma attesero pazienti in silenzio, finché la donna non riprese il racconto.

«Matumbo rivelò che presto avrebbe ottenuto il controllo del Centro per conto di qualcosa che chiamò “Triumvirato” e che i Parker non avrebbero creato problemi. Questo Triumvirato era a capo di un’organizzazione ombra, che agiva a livello globale con un ambizioso piano a lungo termine, i cui membri erano gente potente e senza scrupoli, ma Matumbo li teneva tutti in pugno, perché aveva registrato i nomi di ognuno di loro in una lista, di cui lui solo conosceva il nascondiglio. Matumbo voleva fare del Centro un laboratorio nel quale sviluppare i mezzi per realizzare il suo piano, un piano in cui Raines avrebbe potuto avere un ruolo fondamentale, se fosse stato disposto a collaborare. Vi rendete conto? Era…era pazzesco! Quell’uomo stava parlando impassibile di un complotto per controllare il mondo così, come si progetta l’acquisto di una nuova auto! Ero talmente scioccata da non poter quasi respirare…e questo non era ancora tutto»

«A quel punto arrivò la risposta di Raines» intuì Jarod.

«Già. Raines fu ben lieto di accettare la proposta e illustrò a Matumbo il suo progetto segreto, che stava prendendo forma alla Nugenesis, Prodigio. Gli disse delle schede rosse e della selezione genetica volta alla creazione una nuova razza di individui che chiamò simulatori, vale a dire persone capaci di fare qualsiasi cosa. Gli spiegò come, una volta cresciuti, intendesse sottrarre i bambini alle loro famiglie affinché l’organizzazione di Matumbo potesse servirsene per i propri scopi. Era mostruoso…capii che Raines aveva usato anche me per il suo esperimento e che mi avrebbe portato via il mio bambino per usarlo come una cavia da laboratorio. Ero così sconvolta e terrorizzata da non riuscire a muovermi»

Jarod le prese istintivamente le mani e Margaret lo guardò sorridendogli teneramente.

«Sai, fu proprio in quel momento che ti sentii scalciare per la prima volta – gli rivelò – Fu un’emozione fortissima che mi scrollò improvvisamente di dosso la paura e mi fece capire cosa dovevo fare. Lasciai cadere tutti i fascicoli che avevo in mano e corsi fuori dal seminterrato veloce come un razzo, così loro si accorsero che ero lì, anche se sul momento non capirono chi fossi perché era troppo buio. Credo siano stati certi dell’identità di chi li aveva spiati solo quando non mi ripresentai al lavoro, ma allora fu troppo tardi. Avevo detto a tuo padre che mi ero licenziata perché avevo scoperto transazioni finanziarie poco pulite al Centro e lo avevo convinto a trasferirci altrove quel giorno stesso»

«E non dicesti nulla a Catherine?»

«Dopo le parole di Matumbo, non ero certa di potermi fidare di lei. E poi in quel momento volevo soltanto fuggire il più lontano possibile da Blue Cove per proteggere il mio bambino»

«Ma purtroppo ci trovarono comunque» commentò amaramente Jarod.

«Devi credermi Jarod, in tutti questi anni non ho fatto che cercare il modo per salvare te e Kyle ma non sapevo come! – replicò accorata Margaret - E’ vero, quando ti portarono via non dissi nulla alla polizia, né a tuo padre, ma decisi di rivolgermi all’unica persona che forse avrebbe potuto aiutarmi»

«Catherine»

Margaret assentì.

«Purtroppo non le fu dato mai di sapere dove fosse finito Kyle, però riuscì a trovare te e mi promise che ti avrebbe salvato, come aveva già fatto con altri bambini rapiti dal Centro. Ma qualcosa sconvolse il suo piano: scoprì di essere stata usata per un nuovo progetto del Centro»

«Ethan»

«Sì. Catherine dovette inscenare la propria morte per sottrarre se stessa e il bambino, il futuro progetto Mirage, dal controllo del Centro e di Mr. Parker…ma non capirò mai perché decise di fidarsi di quel serpente!»

«Raines, che finì per tradirla e ucciderla»

«Ero disperata. Avevo rinunciato a tutto, avevo dovuto lasciare prima tuo padre e in seguito anche Emily per non metterli in pericolo. Avevo deciso di fidarmi di Catherine, le avevo raccontato tutto, ma poi anche lei…»

«Sei stata tu a dire a Catherine della lista» intuì Jarod.

«Sì e per questo lei è stata uccisa – mormorò addolorata Margaret – Ma non potevo rivolgermi alla polizia, né a nessun altro, perché temevo che facessero del male a te a Kyle»

«Ora capisco tutto – realizzò a quel punto Jarod con un amaro sorriso – Finalmente so perché dopo cinque anni dalla mia fuga ancora mi cercano. Non perché sono il migliore dei loro simulatori, ma perché sanno che tenendo in pugno me possono controllare anche te»

La donna di nuovo annuì.

«Sfortunatamente, anche sapendoti al sicuro non ho potuto fare molto – seguitò - Dopo la morte di Catherine mi ritrovai in un vicolo cieco, ma continuai comunque ad indagare. Mi ci sono voluti quasi trent’anni per mettere insieme tutte le informazioni che poi ho fornito all’agente Dawson, ma per quanto schiaccianti, quelle prove non ci permetterebbero nemmeno di arrivare in tribunale, perché…»

«…perché il Centro ha agganci troppo potenti» terminò Jarod.

«E ha tentacoli ovunque»

«Per questo mi fece promettere di non parlare a nessuno del caso - intervenne a quel punto Frank – Ma come mai si fidò proprio di me?»

«Sapevo che non mi avrebbe tradita, perché anche suo figlio era stato rapito dal Centro»

«Insomma la nostra unica speranza sarebbe smascherare l’intero complotto, cioè trovare la lista» osservò Jarod.

«So che Catherine la cercò a lungo e sono anche convinta che avesse scoperto qualcosa, ma non fece in tempo a parlarmene»

«Probabilmente Raines finse di volerla aiutare solo per carpirle informazioni sulla lista, per usarle al momento giusto contro Matumbo e la sua organizzazione»

«Ma sfortunatamente anche Raines è morto – commentò deluso Frank – E anche ammesso che fosse riuscito ad ottenerle, non può più rivelarci quelle informazioni»

«E’ vero, però…» esordì Margaret, ma poi esitò.

«Però..?» chiesero all’unisono gli altri due.

«D’accordo, tanto vale che vi dica anche questo – continuò la donna - Poco tempo dopo la morte di Catherine trovai una lettera nella casella fermo posta che utilizzavamo per comunicare. Dentro la busta c’era soltanto un biglietto con una strana frase. Non so cosa significhi, ma credo che sia importante se lei ha fatto in modo che l’avessi»

«Dov’è quel biglietto mamma?» chiese Jarod speranzoso.

Margaret allungò la mano verso la sua borsetta, ma non fece nemmeno in tempo a sfiorarla, perché proprio in quel momento la porta si aprì di botto e una squadra di spazzini fece irruzione, occupando rapidamente la stanza, le armi minacciosamente spianate contro di loro.

“Mantieni la calma” si diceva Jarod, studiando freddamente la situazione: tre uomini li tenevano sotto tiro, uno presidiava la finestra, un secondo sorvegliava di sicuro quella del bagno e altri due erano alla porta d’ingresso: li avevano colti di sorpresa maledizione! Non c’era più modo di reagire, non gli restava che alzare riluttante le mani in segno di resa e guardare impotente mentre Mr. White, con un ghigno soddisfatto stampato sul volto spietato, disarmava sia lui che Frank.

«Ma guarda guarda…che tenero quadretto familiare!»

Prima ancora di volgere lo sguardo all’entrata, Jarod sapeva di chi fosse quella battuta carica di sarcasmo.

«Lyle…non ti aspettavamo» replicò a sua volta ironico.

«Oh ne sono certo. Ma, vedi, tua madre e il tuo amico dovrebbero stare più attenti quando giocano con la loro mailbox. E’ stato fin troppo facile stanarli!»

A quelle parole, Margaret emise un sospiro, che voleva dire “sapevo che sarebbe successo”, mentre Frank serrava la mascella, profondamente in collera con se stesso per la propria imprudenza.

«Sarà un vero piacere riportarti al Centro in così buona compagnia» aggiunse esultante Lyle, facendo cenno agli uomini di ammanettare i prigionieri.

«E se declinassi l’invito?» obiettò deciso Jarod.

«Non credo ti convenga, perché… - replicò l’altro in un artefatto tono colloquiale, le mani affondate con affettata noncuranza nelle tasche, un sorrisetto ipocrita stampato sulle labbra  – Vedi, parlandoci chiaro, al Centro interessi soltanto tu. Quindi non mi porrei il minimo problema a far fuori il nostro impavido agente Dawson e persino la tua dolce mammina, se è questo che devo fare per farti collaborare - a quelle parole, Jarod suo malgrado impallidì – Sai che lo farei, non è vero..? D’altra parte ho già ammazzato tuo fratello»

«Sei un essere spregevole, un lurido verme…ma non la passerai liscia!» sbottò a quel punto il simulatore, cedendo per un attimo all’ira e alla sua latente sete di vendetta, mentre Mr. White gli stringeva le manette ai polsi.

«Oh io credo proprio di sì. Ormai non puoi più fermarmi. Avresti dovuto uccidermi tempo fa, sui Monti Appalachi, quando ne hai avuta l’occasione! – rispose l’altro fronteggiandolo con aria trionfante – Li porti alla macchina, White»

Questi annuì, spingendo i tre prigionieri verso l’uscita senza tanti complimenti, mentre gli uomini continuavano a tenerli sotto tiro.

«Andiamo Jarod, si torna a casa» sibilò poi compiaciuto.

Procedendo a lunghi passi, in un silenzio opprimente, raggiunsero il parcheggio deserto. Si trovavano ormai in prossimità delle inconfondibili berline nere del Centro quando gli spazzini che scortavano i prigionieri si accasciarono improvvisamente e inspiegabilmente al suolo, uno dopo l’altro, emettendo uno smorzato gemito di dolore. Fu questione di una manciata di secondi: Jarod, Margaret e Frank ancora si guardavano l’un l’altro stupiti, chiedendosi cosa fosse successo, mentre tre figure vestite di nero dai volti coperti emergevano furtivi dall’oscurità, puntando i loro fucili contro Lyle e Mr. White, che furiosi e sconcertati, si arresero ai nuovi arrivati.

Jarod si appressò alla madre, pensando istintivamente a proteggerla e cercando di intuire che intenzioni avessero i tre individui, visto che uno di questi si stava pericolosamente avvicinando a loro.

Senza dire una parola, l’uomo prese Margaret per il braccio e l’attirò a sé.

«Hei!» fece per inveire Jarod, salvo poi rendersi conto che l’altro stava soltanto togliendole le manette.

Ancora silenzio. La tensione era quasi palpabile. Poi quella voce gli tolse ogni dubbio.

«Va tutto bene signora?»

«Charles - mormorò Margaret ancora un tantino spaventata – Oh Charles…non posso crederci…sei davvero tu!» esclamò buttandogli le braccia al collo.

«Sì tesoro – disse il Maggiore togliendosi il passamontagna per baciare la moglie – E tu? Tutto bene figliolo?» chiese poi prima di liberare anche Frank e Jarod.

«Papà, non sono mai stato tanto felice di vederti! – esclamò questi sollevato, poi accennando ai corpi stesi a terra – Ma quegli uomini sono..?»

«No, sta tranquillo. Stanno solo dormendo»

«Come hai fatto a..?»

«…a sapere che eri nei guai? Bè, è merito suo» disse il Maggiore indicando uno dei suoi compagni, che, dopo aver legato ben bene Mr. White, si tolse a sua volta il cappuccio.

«Ethan!»

«Qualcosa mi diceva che avevi bisogno d’aiuto, così ho chiesto rinforzi!» spiegò questi sorridendo.

Infine anche il terzo membro del gruppo, che teneva sotto tiro un Lyle dall’aria sempre più astiosa, mostrò il proprio volto.

«Emily!» esclamò sbalordito Jarod.

«Ciao fratellone..! A terra tu!» intimò poi al suo prigioniero, chinandosi su di lui per legargli i polsi.

A quel punto Margaret non seppe più trattenere le lacrime. Anche se in cuor suo non aveva mai smesso di sperare, stentava a credere che tutta la sua famiglia si fosse finalmente riunita dopo tanti anni.

«Piccola mia…» riuscì appena a dire, la voce soffocata dall’emozione e dal pianto.

«Ciao mamma…» sussurrò commossa Emily, ricambiando lo sguardo affettuoso della madre.

Ma Lyle non mancò certo di approfittare di quell’attimo di distrazione. Con uno scatto gettò la ragazza a terra e si precipitò al volante dell’auto più vicina, mise in moto e si allontanò a folle velocità, in un assordante stridio di gomme, di certo diretto ad un elicottero o ad un aereo che lo avrebbe riportato al Centro.

Jarod era già balzato alla guida della seconda berlina, più che mai intenzionato a riacciuffarlo, ma…

«No aspetta Jarod» lo fermò deciso Ethan.

«Cosa?! Non vorrai che lo lasci andare!» protestò irritato l’altro.

«Ti occuperai di lui più tardi, tanto non riusciresti a raggiungerlo. E poi ora non c’è tempo»

«Ma che stai dicendo?!»

«Devi correre subito al Centro. Miss Parker e Jay sono nei guai»

 

Il Centro, Blue Cove – Ala Rinnovamento – ore 00:55 a.m.

 

Tutto era buio intorno a lei quando udì di nuovo quel grido, la disperata richiesta d’aiuto di un ragazzino, una voce del suo passato che conosceva bene, ma…era di nuovo nel suo incubo oppure nella realtà?

Nel torpore di un confuso dormiveglia, lei lo chiamò a sua volta: «Jarod..?»

«Miss Parker svegliati!» gridò ancora la voce.

Seguendola, la donna percorse nuovamente quel corridoio buio, dalle pareti scure, che parevano muoversi e volerle piombare addosso per afferrarla. Poi, oramai infondo al tunnel, intravide una debole luce: le grida provenivano da laggiù, insieme al battito dapprima smorzato ma via via sempre più forte di un orologio a pendolo…doveva fare in fretta, il tempo stava per scadere…

«Miss Parker ti prego apri gli occhi!» urlò ancora quella voce di adolescente.

La donna si precipitò allora incontro alla luce, verso l’uscita e finalmente si svegliò. La testa le doleva terribilmente e ci mise un po’ a capire dove fosse: una stanza vuota e asettica, dalle pareti metalliche, illuminata da una luce al neon che pareva provenire da ogni direzione. Non c’erano dubbi, si trovava da qualche parte al Centro.

«Miss Parker mi senti?!» continuava a gridare il giovane Jarod…cioè…un momento…quella voce era di Jay!

«Sì…sì…ti sento - borbottò finalmente lei – Che diavolo è successo?»

«Willie ti ha dato una botta in testa e ci hanno rinchiusi qui dentro – spiegò concitato il ragazzo - E hanno portato Kimberly in laboratorio…e tra un po’ verranno a prendere anche me! Quel pazzo di Cox diceva che è il momento giusto…Miss Parker, dobbiamo fare qualcosa!!!»

«Ora calmati e lasciami pensare!» lo zittì decisa.

Il ragazzo era fuori di sé per l’angoscia e la paura e ne aveva tutte le ragioni. Era legato mani e piedi ad un tavolo d’acciaio con robusti anelli metallici, proprio come lei. Doveva trovare un modo per liberare entrambi e poi per uscire da quella stanza, anche se immaginava che non sarebbe stato facile, visto che non c’erano altre vie d’uscita oltre la porta, che sicuramente aveva una serratura elettronica.

Maledizione! Se almeno avesse avuto il suo cellulare…e il trasmettitore, chissà se funzionava ancora? Ah se solo avesse potuto mettersi in contatto con Broots…o con Jarod…anzi no! Jarod non doveva mettere più piede al Centro, soprattutto ora che il suo dannato incubo sembrava avverarsi. A proposito, nel suo sogno a quel punto Jay sarebbe dovuto sparire, però…oh no…un’idea, forse un presentimento le raggelò il sangue nelle vene, ma non ebbe nemmeno il tempo di preoccuparsene, perché all’improvviso la porta si aprì e Lyle entrò, seguito da due nerboruti assistenti di Cox, scortati da Willie. La coppia di energumeni prese Jay e lo trascinò via, incurante del disperato dibattersi e delle grida strazianti del ragazzo: «No..! Lasciatemi..! Aiuto Miss Parker..!»

La donna chiuse gli occhi e strinse i pugni, resistendo strenuamente all’incontenibile desiderio di piangere e gridare a sua volta. Aveva fallito, fallito miseramente. Non solo non era riuscita a salvare Kimberly, ora anche Jay era di nuovo nelle grinfie del Centro ed era stata lei permettere che accadesse, ma a quel punto non poteva fare più nulla. Non sopportava di sentirsi così impotente, però mai e poi mai si sarebbe mostrata sconfitta e affranta proprio di fronte a Lyle, che la stava fissando con aria beffarda, la mano destra priva del pollice nascosta, come al solito con nonchalance nella tasca.

«Dovevo immaginare che anche tu fossi coinvolto in questa squallida faccenda» l’accusò infatti, squadrandolo spavalda.

«Perché non dovrei esserlo? – replicò per le rime l’altro – Come sicuramente già sai, il direttore del Centro ha dato la sua piena approvazione a questo progetto»

«Può darsi, ma non penso che approverebbe anche la reclusione della sua stessa figlia»

«Uhm…forse no. Ad ogni modo io ho in mente ben altro»

Lyle aveva negli occhi lo sguardo crudele del gatto che gioca col topo prima di azzannarlo, probabilmente la medesima, perversa espressione che assumeva quando stava per uccidere in modo efferato una delle sue sfortunate vittime dai tratti orientali. Quello sguardo, suo malgrado, la spaventò a morte.

«Ora basta! Fammi uscire subito di qui!» gli disse in un tono che avrebbe voluto essere intimidatorio.

«E rinunciare a tutto il divertimento? – ribatté beffardo l’altro. I suoi piani per Jarod erano sfumati, con lei sarebbe stato diverso – Ma se ho persino dovuto correre per poter arrivare in tempo!»

«In tempo per cosa?»

«Le vedi quelle bocchette Miss Parker? – seguitò Lyle. Lei lanciò un’occhiata alle piccole feritoie che correvano lungo la parete, tutto intorno al perimetro della stanza – Servono a far circolare aria, ma coi dovuti accorgimenti possono immettere in questa stanza anche…che so… un gas tossico»

Un agghiacciante brivido di terrore le corse lungo la schiena, ma le riuscì di non tremare. Quello psicopatico aveva davvero intenzione di eliminarla e nessuno lo avrebbe fermato.

«Credevo che le camere a gas fossero passate di moda dopo l’ultima guerra» osservò tuttavia Miss Parker, ostentando un improbabile aplomb.

«Sfrontata fino alla fine! – commentò Lyle con una punta di stizza nella voce – Ma suppongo tu non voglia darmi la soddisfazione di mostrarti almeno un po’ impaurita, vero?»

«Papà ti farà a pezzi quando lo saprà – provò a minacciarlo lei, in un ultimo, disperato tentativo di salvarsi la vita -  Sono proprio curiosa di sapere come ti giustificherai stavolta»

«Un malaugurato incidente» disse lui alzando le spalle indifferente.

«Andiamo, non penserai davvero che ci crederà!»

 «Già, probabilmente hai ragione – convenne l’altro con affettata apprensione - Certo lui si arrabbierà moltissimo e ci starà male per un po’…ma poi si riprenderà. Infondo è riuscito a superare anche la morte di Catherine, no?»

“Maledetto bastardo!” pensò per l’ennesima volta Miss Parker riferendosi al fratello. Era davvero deciso ad andare fino in fondo e purtroppo lei non era in grado di impedirglielo. Però poteva almeno prendere tempo…

«Perché?» gli domandò a bruciapelo, guardandolo dritto negli occhi.

«Cosa?»

«Perché lo stai facendo? Voglio dire, non ci siamo certo mai amati come fratello e sorella, ma vorrei tanto sapere cosa ti ha spinto ad arrivare ad uccidermi»

«Davvero non lo immagini?»

«Se così fosse non te lo chiederei. Sai quanto detesto le chiacchiere inutili»

Lyle, ammutolito, distolse lo sguardo da quello della donna, lasciandosi sfuggire un sorrisetto sardonico, ma infondo un po’ amaro.

«Perché lo faccio? Bè, ci sono varie ragioni – esordì poi in tono tagliente, prendendo a passeggiare su e giù per la stanza – Perché non sopporto la tua altezzosità e l’aria di sufficienza con cui mi hai sempre guardato dall’alto in basso, perché tutti ti reputano assai più dotata di me, perché persino nostro padre tiene molto più a te che a me…perché io sarei potuto essere al tuo posto e tu al mio»

«Ma che stai dicendo?» mormorò Miss Parker sbalordita, iniziando ad intuire quali fossero i suoi pensieri.

«Non è forse così? Abbiamo avuto gli stessi genitori. La stessa donna ci ha messi al mondo lo stesso giorno, alla stessa ora, sotto la medesima stella. Eppure le nostre sorti sono state molto diverse»

«Non sono stata io a volerlo»

«Ma tu sei quella che ne ha tratto maggior vantaggio»

«Vantaggio?! Ma fammi il piacere!»

«A te sono toccate una bella casa, scuole di prim’ordine e una madre amorevole, che ha saputo proteggerti dal Centro. A me invece sono toccati i Bowman, un’esistenza squallida e gli esperimenti psicologici di Raines»

Miss Parker lo fissò a lungo sconcertata: il tormento dietro la durezza del suo sguardo, la smorfia aspra della sua bocca, nascosta dietro un sorriso cinico. Era pieno di risentimento, si sentiva una vittima…anzi, probabilmente lo era davvero, si disse la donna e per un attimo ebbe pietà di lui. Ma non poteva dimenticare che quella vittima era diventata il suo carnefice.

«Non è così semplice Lyle – esordì pacata. Se proprio doveva morire, almeno lo avrebbe fatto dopo avergli detto in faccia tutto ciò che pensava di lui - Tu non sei stato l’unica vittima del Centro. Tanti altri lo sono stati, come Jarod, Angelo o Kyle. Ma nessuno di loro è diventato come te»

«Che vuoi dire?»

«Ma guardati! – l’apostrofò con sarcasmo - Stai per uccidere tua sorella e non esisteresti a fare lo stesso con nostro padre o con chiunque altro ostacolasse il tuo cammino. Credi davvero che l’avere avuto una sorte diversa avrebbe cambiato quello che sei?»

«E tu credi che mi piaccia essere quello che sono?! - proruppe rabbiosamente lui – Non ho scelto io di diventare così, è stata la vita che ho fatto, la vita che avrebbe potuto essere tua!»

«Il povero innocente traviato da un mondo corrotto…scusa se non mi commuovo!»

«Tu non puoi capire. E come potresti? – replicò duramente lui – Tu hai avuto tutto, hai avuto ciò che poteva essere mio, sei ciò che io sarei potuto essere. E comunque al posto tuo non farei tanto la santarellina! Te l’ho già detto,  non sei affatto migliore di me. Tu sei esattamente come me, hai solo avuto più fortuna»

«Può darsi, ma è assurdo che tu stia incolpando me per…»

«Te, il destino…che differenza fa? L’importante è che finalmente qualcuno pagherà»

«Quello che dici non ha senso! E’ vero, il destino, o chi per lui,  ti ha allontanato dalla tua famiglia, ma non è certo stato il destino a farti diventare ciò che sei. Di questo devi incolpare solo te stesso»

«No non è vero! – esclamò d’impulso Lyle, con la voce stridula e furente di chi nega consapevolmente l’evidenza. Poi riacquisì l’autocontrollo - E’ ora di pareggiare il conto e riprendermi ciò che mi è stato rubato – dichiarò con flemmatico cinismo – E’ ora di toglierti di mezzo, Miss Parker»

Così dicendo le volse le spalle e si incamminò verso l’uscita.

«Lyle non puoi farlo..! Lyle!!!» gridò disperatamente la donna.

Lui si fermò…fece per girarsi…ma poi cambiò idea.

«Addio sorellina»

La porta si richiuse dietro di lui con un lieve fruscio e poco dopo un vapore denso, che sapeva di zolfo iniziò ad uscire dalle bocchette, invadendo la stanza lento e minaccioso.

Presto sarebbe stata la fine.

 

Blue Cove, in una strada isolata e deserta, non lontana dal Centro – ore 01:15 a.m.

 

La vecchia Ford posteggiata segnalò tre volte coi fari, come stabilito poco prima al telefono e le due berline, che stavano avanzando lente, a breve distanza l’una dall’altra lungo la strada buia, arrestarono il motore accanto all’auto già ferma.

Da questa scesero Sydney e Broots per andare incontro ai nuovi arrivati, che stavano uscendo dagli abitacoli.

I loro occhi erano cerchiati, causa il sonno mancato, i volti tirati per l’ansia che da ore li consumava.

«Dov’è Miss Parker? – chiese Jarod senza preamboli e senza nemmeno dar loro il tempo di meravigliarsi per la presenza della sua famiglia al completo – Sto provando a chiamarla da oltre un’ora, ma al cellulare non risponde»

«Bè…ecco… - farfugliò esitante Broots – E’ entrata nel SL-27 per cercare Kimberly…»

«Chi è Kimberly?»

«Kimberly Lawrence è il nuovo soggetto di Cox che il Centro ha rapito – chiarì Sydney – Ed è anche un’amica di tuo fratello Jay, ecco perché lui è venuto qui ieri sera»

«Dov’è ora Jay?»

«Non ne ho idea – replicò il dottore, scuotendo preoccupato il capo – Doveva rimanere a casa di Miss Parker, ma veniamo ora da là e di lui non c’era traccia»

«Quell’incosciente deve aver seguito Miss Parker al Centro»

«C’è dell’altro – aggiunse Broots - Purtroppo credo che qualcosa sia andato storto. Ho perso ogni contatto con lei da più di due ore»

«Maledizione! – sbottò allora Jarod nervosamente, in preda all’inquietudine più che alla collera - Ma come le è venuto in mente di..?!»

«Però so esattamente dov’é – cercò goffamente di rabbonirlo il tecnico – Miss Parker ha un trasmettitore nascosto in un bottone della giacca, grazie al quale ho potuto seguire tutti i suoi movimenti. In questo momento si trova nell’Ala Rinnovamento» concluse mostrando il segnale sul monitor del suo portatile.

«Devi sbrigarti Jarod – intervenne a quel punto Ethan – Non c’è più molto tempo…lei…lei sta soffocando…»

A quelle parole, sempre più angustiato, Jarod avrebbe voluto prendere a pugni il mondo intero, ciò nonostante riuscì a dominarsi e a ritrovare la sua proverbiale lucidità.

«Frank devi far intervenire la polizia e fare irruzione al Centro» esordì deciso.

«Ma come? – replicò stupito questi - Non abbiamo sempre detto che..?»

«Lo so, è un rischio. Ma Kimberly Lawrence si trova là dentro contro la sua volontà, questo basterà per accusarli di rapimento e nel frattempo speriamo di trovare quella dannata lista»

«D’accordo. Tu che farai?»

«Devo correre da Miss Parker, prima che sia troppo tardi»

«Non puoi andare da solo»

«E tu non puoi venire con me. Devi restare qui e occuparti della polizia»

«Verrò io con te» si offrirono all’unisono Ethan e il Maggiore Charles.

«E anch’io» fece loro eco una voce di donna.

«Emily…»

«Non ci provare Jarod! – lo interruppe brusca la ragazza – C’è mio fratello là dentro»

L’altro sospirò scuotendo il capo.

«Sentite…apprezzo molto la vostra offerta, ma non potete venire con me – cercò di dissuaderli – I sistemi di sicurezza sono capillari e molto avanzati – proseguì senza dar loro il tempo di ribattere – Da solo darò meno nell’occhio. Non voglio mettere in allarme tutte le squadre del Centro prima dell’arrivo della polizia»

«E’ troppo rischioso» obiettò il Maggiore, anche se quasi persuaso a non accompagnare il figlio.

«Lo è sempre stato – replicò Jarod, poi si rivolse a Broots - Io e te resteremo in contatto – il tecnico annuì – Dovrai guidarmi fino a Miss Parker»

«Come farai ad entrare?» gli chiese Emily.

«Nel solito modo» rispose lui allusivo, col solito sorrisetto sornione.

 

Il Centro, Blue Cove – Ala Rinnovamento – ore 01:35 a.m.

 

L’aria era ormai satura di gas, ogni fibra del suo essere già ebbra della sostanza tossica, che provocava al suo cervello e al suo corpo spaventose allucinazioni: il pavimento sussultava sotto di lei, la porta della stanza era improvvisamente sparita, inghiottita dalle pareti, che avevano preso lentamente ad avvicinarsi, mentre il soffitto si abbassava sempre più…e la sensazione di soffocamento, quella era terribilmente reale.

La donna si dibatteva, gridando in preda al panico, mentre sentiva i muri ed il soffitto a pochi centimetri appena di distanza dal proprio volto, ancora qualche secondo e l’avrebbero schiacciata…respirare era sempre più difficile …impossibile…credeva ormai di essere spacciata, quando Jarod si materializzò accanto a lei, la liberò dagli anelli metallici e la trascinò fuori di peso da quella trappola mortale.

Miss Parker aveva da poco perso i sensi quando Jarod la depose a terra e controllò ansioso i suoi segni vitali: respirava appena ed il polso era molto debole, ma dopo qualche istante iniziò a tossire violentemente. Si sentiva la gola riarsa e il naso le prudeva in modo quasi insopportabile, però poter finalmente immettere aria nei propri polmoni era comunque un enorme sollievo.

«Così…coraggio tesoro respira!» la spronò lui, mentre coi sensi in costante allerta, non smetteva di guardarsi attorno circospetto, temendo che da un momento all’altro la vigilanza li scoprisse.

«Non dovevi venire qui – disse lei quando infine riaprì gli occhi e lo guardò con aria smarrita, ancora intontita dal gas, ripetendo in modo sconclusionato una sorta di copione imparato a memoria – Hai rischiato troppo e io non merito tanto…»

«Ma che stai dicendo?» la zittì lui stringendola teneramente a sé.

«Io…»

Lei si abbandonò istintivamente tra le sue braccia, assaporando di nuovo il piacevole contatto, il calore del suo corpo, finché la lucidità non si rimpossessò del suo cervello, riportandole alla mente gli ultimi terribili avvenimenti che aveva vissuto.

«Oh no Jay e Kimberly! – esordì allarmata staccandosi da lui - Li hanno portati in laboratorio. Dobbiamo trovarli prima che sia troppo tardi e li facciano accoppiare come due porcellini d’india!»

«Quale laboratorio?» chiese l’altro, aiutandola ad alzarsi.

«Non ne ho la più pallida idea – rispose lei continuando a tossicchiare - Ma forse Sydney lo sa»

Jarod afferrò il cellulare : «Broots passami Sydney presto!»

Lo psicologo rifletté qualche secondo, poi indicò loro una stanza del SL27 non lontana da quella dove Kimberly era tenuta prigioniera.

«La polizia sta per fare irruzione – li avvisò poi – Siate prudenti»

«Grazie Sydney» gli disse il simulatore prima di chiudere.

«La polizia?» esclamò sbalordita la donna.

«Muoviamoci – replicò l’altro accennandole di seguirlo – Ti spiego tutto strada facendo»

Così, mentre correndo contro il tempo avanzavano svelti lungo il corridoio fino all’ascensore, attenti a non farsi notare dagli uomini di guardia, Jarod raccontò ad un’esterrefatta Miss Parker di “M” che in realtà era Margaret, della trappola di Lyle e White, di come la sua famiglia lo avesse salvato e della decisione di far intervenire la polizia.

In pochi minuti raggiunsero senza intoppi il SL27 e trovarono il laboratorio indicato da Sydney: la porta non era sorvegliata, ma protetta da un codice d’accesso, che i due individuarono facilmente grazie all’aiuto di Broots.

Armi in pugno irruppero nella stanza, dove Lyle e Willie osservavano impassibili mentre Cox, con l’aiuto dei suoi nerboruti aiutanti, legava Jay e Kimberly, ammutoliti e terrorizzati, ad un tavolo operatorio.

«Lasciateli!» ordinò perentorio Jarod, puntando la sua pistola contro il dottore, che certo non gradì la sorpresa.

Lo sguardo dei due ragazzi si illuminò di speranza, ma nessuno di loro osò dire una parola.

«Miss Parker?!» proruppe invece Lyle, fissando la donna quasi scioccato.

«Non fare quella faccia, fratellino – l’apostrofò ironica lei – Malgrado tutti i tuoi sforzi non sono ancora diventata un fantasma!»

Willie e i due assistenti si erano intanto affrettati ad estrarre le loro armi e rivolgerle minacciosi contro i nuovi arrivati.

«Voi siete due e noi cinque: la matematica è decisamente dalla nostra parte» sentenziò Cox sorridendo mellifluo.

«La matematica può essere ingannevole, dottore – replicò Jarod senza scomporsi – Forse ancora non lo sapete, ma la polizia ha fatto irruzione al Centro circa dieci minuti fa»

«E’ impossibile» asserì l’altro, impallidendo suo malgrado.

«Sciocchezze!» di rimando Lyle, assai meno sicuro di quanto volesse apparire.

«Se ne siete convinti, perché non chiamate la vigilanza?» suggerì loro Jarod in tono irrisorio.

Seguitando a tenere sotto tiro gli avversari, Willie si precipitò allarmato al telefono e compose svelto il numero: uno squillo, due, tre…dieci…nessuna risposta.

«Che siano tutti in pausa caffè?» incalzò beffardo il simulatore, mentre un’espressione di puro panico si dipingeva poco a poco sui volti dei cinque uomini.

«Vi conviene arrendervi – disse allora Miss Parker - Tra poco i nostri saranno qui e finalmente vi sbatteranno tutti dove meritate di stare: a marcire in un carcere di massima sicurezza»

Nessuno ebbe il tempo di replicare o aggiungere altro. Una squadra di agenti armati, protetti da casco e giubbotto antiproiettile, invase a quel punto il laboratorio, intimando a tutti di non muoversi e di buttare le pistole.

Era davvero l’epilogo.

Jarod e Miss Parker poterono finalmente liberare i due prigionieri, ancora scossi ma sollevati.

«Cominciavo a credere che non sareste mai arrivati» confessò il ragazzo.

«Mai dubitare della tua famiglia, Jay» lo ammonì bonariamente il fratello, rivolgendogli uno sguardo carico di sottintesi.

«Non lo farò più, te lo prometto»

«E’ tutto finito Kimberly, sta tranquilla – diceva intanto Miss Parker, rincuorando affettuosamente la ragazzina in lacrime – I tuoi genitori stanno venendo a prenderti»

«Avanti, andiamocene di qui» propose Jarod, guidando tutti verso l’uscita, proprio quando due agenti si accingevano a condurre fuori Lyle, già in manette.

Miss Parker e il fratello si fronteggiarono in un silenzioso duello di sguardi per un lungo istante.

«Hai rinnegato il Centro ma questo non cambia quello che sei» sibilò infine lui con astio, sapendo di colpire come sempre un punto debole. Tuttavia stavolta mancò di ottenere l’effetto desiderato.

«Può darsi Lyle – replicò infatti tranquilla la sorella, guardandolo sicura dritto negli occhi - Ma vedi, a questo punto sono certa che qualunque cosa io sia, non sono, non sono mai stata e non sarò mai come te»

Lui accusò colpo e abbassò lo sguardo, però mentre i due poliziotti lo trascinavano via ebbe il tempo di sputare ancora veleno, con meschino compiacimento.

«Non è ancora finita, non illuderti. C’è qualcun altro con cui dovrai fare i conti!»

Un brivido corse lungo la schiena di Miss Parker ed il suo pensiero corse inevitabilmente al suo incubo, che stava divenendo drammaticamente reale, nonché all’uomo che avrebbe ucciso Jarod…ma chi poteva mai essere?

La domanda continuò a ronzarle nel cervello, insieme alle ipotesi più disparate, per tutto il tragitto verso l’ingresso dell’edificio. White era già in prigione. Lyle, Cox e Willie lo stavano raggiungendo. In effetti non rimaneva che…

«Lo abbiamo preso mentre cercava di fuggire col jet  - esordì un agente indicando al suo superiore un uomo in manette, proprio mentre il gruppo entrava nella hall, brulicante  di poliziotti e spazzini a braccia alzate – Si tratta del direttore del Centro»

«Voi non potete fare questo – sibilò minaccioso Mr. Parker – Non avete idea del guaio in cui vi siete cacciati, non sapete chi sono io..! Mi basterà una telefonata al mio avvocato e vi ritroverete tutti quanti a dirigere il traffico!»

«Spiacente signore – replicò flemmatico un disincantato tenente di polizia – Abbiamo agito con un regolare mandato ed abbiamo trovato la vittima di una rapimento proprio nel suo laboratorio – spiegò, per poi concludere con un sorrisetto ironico – Lei è in arresto, Mr. Parker»

Questi fu costretto ad ingoiare bile, insieme alla sua smisurata arroganza e dovette limitarsi ad incenerire il poliziotto con lo sguardo senza aggiungere altro, ma confidando comunque di riuscire a cavarsela. Il Centro e il Triumvirato erano troppo potenti, troppo forti per lasciarsi spaventare da un manipolo di poliziotti ligi al dovere. Però ancora non si spiegava come tutto questo fosse potuto accadere.

Fu solo in quel momento che incrociò dapprima lo sguardo severo di Jarod poi quello della figlia, carico di tristezza e risentimento. E allora, forse per la prima volta in tanti anni,  la sua fiducia nel Centro vacillò seriamente. Solo allora capì che quella poteva essere davvero la fine.

«Angelo…io mi fidavo di te…come hai potuto permettere che arrivassero a tanto?» chiese con studiata mestizia, nel chiaro intento di farla sentire in colpa.

«Di questo non devi accusare me papà, ma solo te stesso e la condiscendenza con cui hai sempre coperto le malefatte del Centro»

«Malefatte? – chiese Mr. Parker simulando autentico stupore -  Se il Centro ha compiuto degli atti criminali, ti giuro che io non sapevo niente, io…»

«Ma per favore!» sbottò a quel punto Jarod.

«Non crederai davvero che io sia responsabile? – insistette l’altro sempre rivolto alla figlia - E’ Jarod che ti ha convinta di questo, non è vero? E’ lui che ti ha convinta a tradirmi?»

«Hai davvero una gran faccia tosta papà! – replicò infine Miss Parker incredula, trattenendo a stento la collera. Era assurdo che persino davanti all’evidenza quell’uomo stesse ancora tentando di raggirarla! - Tu hai tradito me, tu non hai fatto che ingannarmi per tutta la vita…e non hai esitato un secondo a sacrificare persino la mamma pur di proteggere il Centro!»

«Io non volevo che le facessero del male»

«Però non hai fatto niente per impedirlo»

«Ma non capisci? – tentò pateticamente di difendersi Mr. Parker - Tutto questo io l’ho fatto per te!»

«Non dire assurdità– l’interruppe secca la donna, più che mai disillusa - L’hai fatto solo per te stesso e per soddisfare la tua sete di potere. Oramai ho capito come sei e non puoi più ingannarmi»

«Angelo non puoi permettere che mi facciano questo! – iniziò a gridare disperato mentre gli agenti lo trascinavano via – Io volevo solo proteggerti..! Angelo..! Angelo..!»

«Addio papà…» sussurrò Miss Parker voltandogli definitivamente le spalle.

Prima suo fratello, poi suo padre. Erano praticante degli estranei, gente con cui non aveva che un rapporto superficiale, ma rappresentavano pur sempre il suo unico legame di sangue. Ora anche l’ultimo anello si era spezzato e tutto ciò che restava della sua famiglia se n’era andato per sempre, lasciandole dentro un terribile senso di vuoto. Per un istante si sentì sola e senza più radici, in balia degli eventi come una goccia d’acqua nel mare in tempesta, un fiore reciso rapito dal vento. Ma ad un tratto qualcuno le strinse la mano…sì, come sempre c’era qualcuno accanto a lei, pronto a sostenerla nei momenti più difficili.

«Va tutto bene?» le chiese Jarod.

Lei annuì, ancora visibilmente turbata e fece per dirgli qualcosa, però…

«Jarod!» li interruppe una voce.

«Frank – riconobbe il simulatore – Parker, ti presento l’agente Dawson»

«Congratulazioni, agente – replicò lei sforzandosi di accennare un sorriso – Credo che stavolta il Centro sia davvero in ginocchio»

«E’ vero – assentì l’altro – Ma purtroppo non è ancora finita. Dobbiamo trovare la lista prima che qualcuno dall’alto faccia invalidare tutti questi arresti nel giro di poche ore»

«La lista! – esclamò elettrizzato Jarod, facendosi largo tra la folla – Dimenticavo che abbiamo un nuovo indizio»

«E quale?» chiese Miss Parker seguendolo insieme a Frank.

«Avete visto mia madre?» seguitò lui ignorando la domanda e continuando a guardandosi intorno finché non scorse la sua famiglia, riunitasi insieme a Sydney e Broots intorno a Jay e Kimberly.

«Mamma, hai ancora quel biglietto?» domandò come al solito senza preamboli quando li ebbe raggiunti.

Margaret lo scrutò un attimo perplessa, quindi estrasse dalla sua borsa un foglio ripiegato con cura e glielo porse.

«Fu Catherine a mandare questo messaggio poco prima di essere uccisa - spiegò infine rivolto a Frank e Miss Parker – Io credo che riguardi la lista» aggiunse, quindi lesse il biglietto ad alta voce.

“Per me si va ne la città dolente,

per me si va ne l'etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente”

 

«Che diavolo significa?» esordì sconcertata Miss Parker dopo qualche secondo.

«Non lo so – confessò Jarod, a sua volta confuso - Sembra una lingua molto antica, forse risalente al Medioevo, ma non mi risulta ci sia niente di simile nella letteratura inglese»

«Infatti è italiano – asserì a quel punto Sydney suscitando l’ammirazione generale – Più precisamente si tratta di un passo della “Divina Commedia” di Dante Alighieri. Devo averne una copia nel mio ufficio»

«Interessante – commentò Miss Parker – Ma ancora non capisco cosa c’entra con la lista»

«Eppure dev’essere importante – insistette Jarod – Altrimenti perché Catherine si sarebbe data tanta pena per farlo avere a mia madre?»

«Non ne ho idea» replicò Miss Parker, avvilita per quel che sembrava essere l’ennesimo buco nell’acqua.

«Io nemmeno – intervenne Sydney – Ma so che questa stessa frase si trova in un posto qui al Centro»

«Dove?!»

«Nella vecchia cappella»

«Quell’ammasso di rovine che sta infondo al cimitero?» chiese scettica la donna.

«Esatto. Tua madre andava spesso lì a pregare…e a confidarsi con un vecchio amico – spiegò lo psicologo in tono nostalgico - Ma è abbandonata da anni ormai»

«Dicci della frase, Sydney» lo incalzò Jarod.

«In una nicchia, sulla sinistra dell’altare c’è un dipinto, che raffigura Dante e il suo maestro Virgilio durante il loro viaggio negli inferi, come racconta la Divina Commedia – rispose l’altro – Sotto la tela, scolpita nel marmo, c’è un’iscrizione che riporta questa frase. E’ tutto quel che posso dirvi»

«Vale la pena di dare un’occhiata» disse Jarod.

«Ci penso io» di rimando Miss Parker.

«Vengo con te»

«Niente affatto!» proruppe categorica lei senza quasi rendersene conto.

Aveva agito d’istinto, perché qualcosa, la solita sensazione del tutto irrazionale, le diceva di tenere Jarod lontano da quel posto, ma le persone intorno a lei, che ora la guardavano in uno strano modo, non potevano capire. Doveva affrettarsi a trovare un pretesto logico per il suo bizzarro comportamento, prima che tutti la prendessero per pazza.

«Voglio dire…tu devi restare qui, con tutto questo movimento ci sarà bisogno di te»

«Non credo, Frank se la sta cavando benissimo da solo»

Di nuovo quella sua strana insistenza, l’inspiegabile sensazione che lei volesse proteggerlo da qualcosa…ma che le stava passando per la testa?!

«La polizia comincerà a fare un sacco di domande sull’attività del Centro – insistette ancora lei - Domande a cui qualcuno dovrà dare delle risposte chiare e precise e l’agente Dawson non conosce tutti i…»

«Può pensarci Sydney»

«Certo, non preoccuparti Miss Parker» confermò quest’ultimo.

«Senti Jarod…»

«Non insistere Parker, stavolta non te la do vinta – l’interruppe deciso lui - Non ti lascio andare laggiù da sola»

Miss Parker sospirò, scuotendo il capo rassegnata, quindi si avviò suo malgrado insieme a Jarod verso il cimitero del Centro, con un bruttissimo presentimento che le appesantiva il cuore.

 

Cimitero del Centro, Blue Cove – ore 04:00 a.m.

 

Era una notte magnifica, nonostante tutto. Il freddo era pungente ma il vento lieve, appena percettibile e una luminosa cascata di stelle aveva invaso il cielo terso, offuscata solo da una fulgida luna piena.

Il crepitio costante dei passi lungo i sentieri ghiaiati era l’unico rumore a disturbare il silenzio, mentre Jarod e Miss Parker, seguendo la luce delle loro torce, avanzavano cauti tra i sepolcri, cui la notte conferiva un’aria lugubre e inquietante, come nel più classico dei film horror.

«Posto romantico per una passeggiata al chiaro di luna» esordì di punto in bianco lui, ironizzando sull’atmosfera tetra che li circondava.

Lei sorrise, ma non disse nulla. Era evidente che qualcosa la turbava e che non si trattava del fatto di trovarsi  in un cimitero nel pieno della notte…e tutto questo gli era insopportabile. Detestava non capire ciò che stava succedendo e soprattutto detestava essere certo che lei gli nascondesse la verità. Forse quello non era né il luogo né il momento più adatto per chiarire le cose tra loro, però il desiderio di sapere ormai era troppo forte.

«Allison…»

«Ancora non capisco perché mia madre non ci abbia parlato della cappella nel suo dischetto – lo interruppe brusca Miss Parker, affrettandosi a portare la conversazione su di un argomento neutro, prima di sentirsi porre domande alle quali non voleva rispondere - Avremmo risparmiato un sacco di tempo e di ricerche inutili»

«Probabilmente ancora non sapeva che la cappella fosse collegata alla lista – osservò Jarod, rassegnandosi suo malgrado a rimandare il discorso – Se ben ricordi, la lettera a Padre Christophe portava la data di un giorno prima della sua morte, però il DSA era già stato inciso da tempo»

«D’accordo, ma perché ha spedito il dischetto a Padre Christophe e il biglietto con il messaggio a Margaret? Così ha praticamente diviso a metà le informazioni in suo possesso»

«Credo l’abbia fatto per sicurezza – ipotizzò ancora lui – Se il Centro avesse trovato Padre Christophe prima di te avrebbe scoperto solo parte del suo segreto, lo stesso se avesse catturato mia madre»

«Ma io avrei potuto non incontrare mai Margaret»

«Evidentemente tua madre era certa del contrario»

«E come poteva esserlo?»

«Forse qualcosa le diceva che in futuro sarebbe andata così»

«Già» borbottò Miss Parker seguitando a camminare.

Dio solo sapeva quanto anche lei in quel momento desiderasse conoscere il futuro!

La sagoma scura della vecchia cappella, col suo piccolo campanile diroccato, apparve finalmente di fronte a loro, stagliandosi contro il disco iridescente della luna come un’immagine spettrale dalla parvenza a dir poco sinistra.

I tacchi scricchiolavano sul marmo logoro e umido dei gradini mentre entrambi salivano la breve scalinata che conduceva all’ingresso, fino al vecchio portone dai cardini arrugginiti, che  si aprì facilmente, anche se con un cigolio spaventoso, non appena Miss Parker vi appoggiò la mano. Jarod non mancò di notare l’assenza di ragnatele sui battenti, mentre l’arcata e le bifore cieche che adornavano la facciata ne erano piene. Il posto era abbandonato da anni ma qualcuno era stato lì di recente, pensò prima di seguire la donna all’interno.

La luce della luna filtrava debole attraverso le variopinte vetrate gotiche sui muri laterali, illuminando i vecchi banchi di legno divorati dai tarli e coperti da una spessa coltre di polvere.

Jarod e Miss Parker avanzarono, guardandosi attorno, fino all’altare di marmo, quindi, seguendo le indicazioni ricevute, trovarono sulla sinistra l’ampia nicchia con il dipinto descritto da Sydney, di autore sconosciuto, che con vibranti e poderose pennellate dai vividi colori, raffigurava Dante e Virgilio aggirarsi in un inquietante inferno mitologico, circondati dalle anime dei dannati e dal loro eterno tormento.

La luce delle torce illuminò ogni centimetro della tela, facendo risaltare le tinte vigorose, i rossi vermiglio e i blu notte, le pose plastiche e i volti espressivi delle figure, quindi si spostò verso il basso, fino all’iscrizione del messaggio di Catherine.

«Impressionante – commentò Miss Parker dopo qualche minuto – Ma cos’ha a che fare questo con quel che cerchiamo?»

«Bè, se dovessi analizzare la cosa dal punto di vista simbolico – esordì Jarod osservando l’opera con aria critica – potrei azzardare che l’inferno rappresenta il Centro»

«Già. Mentre Dante e Virgilio potreste essere tu e Sydney»

«Quanto alle anime dannate abbiamo una lunga lista di possibili candidati – aggiunse ironico lui – Però non credo sia questo ciò che tua madre voleva dirci»

«Forse è il dipinto stesso che nasconde qualcosa – ipotizzò Miss Parker sfiorando con le dita prima la superficie della tela poi la cornice e infine la lastra di marmo con l’iscrizione, alla ricerca di un nascondiglio o di un improbabile meccanismo segreto che ne rivelasse uno – Ah è assurdo!»

«Temo che questo quadro non nasconda niente – convenne deluso lui – Vieni, diamo un’occhiata in giro»

Dopo una breve ispezione, fu subito evidente che la chiesetta offriva ben poco da esplorare, fatta eccezione per una porta sul lato destro dell’altare, che si apriva su di una scalinata a chiocciola stretta e buia, la quale conduceva probabilmente ad un sotterraneo. Fu lì che i due decisero di dirigere i loro passi.

Una volta scesi i ripidi gradini, Jarod e Miss Parker si ritrovarono in un ambiente tetro e polveroso, dal soffitto assai basso, retto da una serie di archetti a volta, infestati da fittissime ragnatele. Una sorta di cripta, inspiegabilmente illuminata dalla luce soffusa di alcune candele.

«Credevo che questo posto fosse abbandonato da anni» disse incuriosito lui.

«A quanto pare non è così – mormorò lei, sempre più angosciata dal suo brutto presentimento – Meglio tenere gli occhi aperti»

«Già…non mi stupirei se qualche fantasma si aggirasse da queste parti!»

«I fantasmi non usano candele - Un momento: il luogo tetro e quelle parole…stava accadendo davvero, tutto si stava svolgendo esattamente come nel suo incubo! - Oh mio Dio..!»

«Cosa..?»

«Attento!» gridò istintivamente Miss Parker lanciandosi di peso su Jarod e piombando a terra insieme a lui giusto una frazione di secondo prima che il frastuono di uno sparo echeggiasse nella stanza e una pallottola sfrecciasse sibilando insidiosa sulle loro teste.

«Ma che diavolo..?!» esclamò allibito il simulatore.

«Avanti vieni fuori! – urlò Miss Parker ignorando la domanda – Dimmi chi sei!»

«Si può sapere con chi stai parlando?»

Un rumore di passi, un respiro pesante. Poi un misterioso uomo vestito di nero uscì finalmente dalla penombra, reggendo ancora in mano la pistola.

Jarod e Miss Parker quasi non credettero ai loro occhi quando riconobbero il suo volto arcigno.

«Tu?!»

«Sì, proprio io»

«Non è possibile. Io ti  ho visto morire proprio coi miei occhi»

«Nessuno muore mai al Centro, ormai dovresti saperlo Miss Parker – replicò compiaciuto il Dott. Raines con la sua voce rauca, seguitando a tenere entrambi sotto tiro – Ma immagino che anche stavolta tuo padre si sia ben guardato dal dirti la verità»

«Mio padre lo sa?!»

«Certo. E’ stato lui ad inscenare la mia morte e ad imprigionarmi – spiegò Raines con un ghigno beffardo - Ma qualcuno di cui si fida troppo è stato lieto di aiutarmi a fuggire e a nascondermi proprio sotto al suo naso, fingendo di darmi la caccia»

«Lyle» intuì Jarod.

«Esattamente. Lyle non è soddisfatto del ruolo secondario che svolge attualmente al Centro, così ha tradito suo padre ed è passato dalla mia parte per ottenere di più – confermò l’altro – Eh…il ragazzo è piuttosto ambizioso, immagino che prima o poi vorrà fare le scarpe anche a me»

«Quindi sei tu il progetto di cui mio padre e Lyle si occupavano in gran segreto – intervenne Miss Parker – Però non capisco cosa possa volere da te mio padre»

«Davvero non lo immagini?»

«Il segreto di Catherine – indovinò ancora Jarod – Mr. Parker è convinto che tu sappia di che si tratta, ma si sbaglia, non è vero?»

«Non proprio – precisò Raines con malcelata stizza, punto sul vivo - Io so della lista da molto prima che la stessa Catherine ne venisse a conoscenza»

«Ma ancora non hai idea di dove si trovi, perché Matumbo non ha mai voluto rivelartelo, giusto? – seguitò ad incalzarlo l’altro – Che tormento dev’essere stato per te sapere che Catherine aveva trovato ciò che cercavi da tempo. Il segreto che tanto ti premeva conoscere era lì, a portata di mano, ma non ti è stato possibile arrivarci perché hai dovuto ucciderla, dico bene?»

«Matumbo mi ordinò di farlo prima che potessi convincere Catherine a confidarsi con me – replicò il dottore con crudele impassibilità – Credo avesse intuito quale fosse il mio piano e dandomi quell’ordine a cui non potevo disobbedire mi costrinse a mandarlo a monte…temporaneamente»

«Giusto, solo temporaneamente – continuò Jarod in tono pungente - Hai dovuto aspettare parecchio perché qualcuno svelasse il segreto di Catherine, ma finalmente è successo. E’ per questo che te ne stai qui, nascosto nell’ombra ad osservare le mosse di tutti, servendoti di Lyle come spia. Ma lui è all’oscuro di tutto, non è vero? O meglio, forse ha qualche sospetto, che ti sei ben guardato dal confermargli, perché hai capito che noi sappiamo cosa conteneva il DSA e speri che le nostre ricerche ti portino fino alla lista, grazie alla quale potrai finalmente uscire allo scoperto e controllare il Centro, raggiungendo così quel che è sempre stato il tuo unico scopo»

«I miei complimenti Jarod, hai perfettamente inquadrato la situazione – si congratulò Raines sogghignando sarcastico, mentre seguitava a puntargli contro la pistola – Avevo deciso di ucciderti e di usare il senso interiore di Miss Parker per arrivare alla lista, ma ripensandoci, quando dirigerò il Centro, le tue doti straordinarie mi sarebbero molto utili per il nuovo progetto»

«Non contare su di me» rifiutò secco il simulatore.

«Nuovo progetto? – esordì a quel punto Miss Parker - Allora anche Cox stava lavorando per te»

«Ma certo – asserì soddisfatto il dottore - Cox sta solo mettendo in pratica ciò che io ho ideato: il programma più ambizioso che il Centro abbia mai realizzato, in cui i simulatori non erano che il primo passo»

«Oh li conosciamo bene i tuoi programmi – replicò sprezzante la donna – Prima ti sei divertito a rapire bambini, inseminare donne inconsapevoli, addirittura rubare embrioni. Poi hai giocato a fare dio e hai pasticciato col loro DNA e adesso vuoi sostituirti a madre natura, per creare nientemeno che una nuova razza di superuomini»

«Proprio così - asserì entusiasta Raines - Degli esseri eccezionali, dotati di forza ed intelligenza straordinarie…»

«…che intendi sfruttare al massimo per realizzare i tuoi subdoli piani» terminò sdegnato Jarod.

«Esatto, obbediranno solo a me, perché sarò io personalmente ad occuparmi di loro»

«Già, come ti sei occupato di Ethan: facendolo finire al manicomio!» l’apostrofò duramente Miss Parker.

«Mirage non fu che un esperimento non del tutto riuscito – commentò il dottore con noncuranza – Con Baby Parker, grazie alla manipolazione del DNA andremo molto oltre. Ma la vera innovazione sarà l’ibrido che otterremo da Gemini e Euclid»

«Innovazione?! Stai parlando di esseri umani come se fossero elettrodomestici…é disgustoso!»

«No, è progresso Miss Parker – ribatté sempre più infervorato l’altro – Ma non mi aspetto che tu capisca. Tu sei proprio come tua madre…ecco perché farai la stessa fine»

Così dicendo, Raines alzò minaccioso il braccio destro e diresse la sua arma contro la donna, accingendosi a fare fuoco.

Quei pochi secondi durarono un’eternità…istanti di panico per Miss Parker, che pur nascondendo la paura dietro una maschera di ghiaccio, pensava freneticamente ad una possibile via di fuga…attimi di frustrante attesa per Jarod, che col fiato sospeso stava calcolando al centesimo il momento giusto per balzare su Raines e disarmarlo…e intanto il dito premeva sempre più sul grilletto…

«Fermo!» tuonò all’improvviso la voce di Ethan, seguita da un rapido martellare di passi lungo la scala e dalle voci concitate di una squadra di agenti, che in pochi istanti, ad armi spianate, occuparono la cripta.

«Getti subito la pistola!» intimò uno di loro a Raines.

«Ethan!» esclamò sollevato Jarod.

«State bene?» chiese l’altro avvicinandosi ai due.

«Sei arrivato giusto in tempo» rispose Miss Parker.

«Sapevo che avresti avuto bisogno di me» replicò Ethan, sorridendo con aria complice alla sorella.

«Ti conviene arrenderti Raines – intimò quindi Jarod all’uomo ancora armato - Anche perché ciò che ti preme tanto controllare ormai non esiste più»

«Che stai dicendo?!» domandò l’altro guardandosi attorno incredulo: che ci facevano lì tutti quei poliziotti?

«E’ la verità – di rimando Miss Parker – La polizia ha fatto irruzione al Centro un paio d’ore fa. Cox, Lyle e mio padre sono già in manette, Matumbo è all’estero, ma già lo stanno cercando…manchi giusto tu»

«Ma non fatemi ridere – replicò Raines sfrontato, ma con una sottile nota d’inquietudine nella voce – Se anche fosse, sapete bene che tutto si concluderà con un nulla di fatto, perché…»

«Non se troveremo la lista – lo interruppe deciso Jarod – E tu sai che la troveremo, vero? Lo hai detto tu stesso, ho delle doti straordinarie»

Trattenendo a stento l’ira e la frustrazione per l’ennesimo e a quel punto definitivo fallimento del suo piano, Raines serrò la mascella, la sua bocca ridotta ad una sottile fessura, il volto sfigurato da una crudele smorfia carica d’odio. Qualcuno doveva pagare per questo.

«Però non potrai usare le tue doti da morto!» sibilò infatti, di nuovo pronto a fare fuoco su Jarod.

Ma Miss Parker fu più rapida di lui e con uno scatto bruciante, lo colpì violentemente, gettandolo a terra e disarmandolo, quindi, prima che Raines potesse arrivarci, si avventò sulla pistola e la puntò decisa verso di lui.

«Coraggio, fai una mossa. Dammi una sola ragione per sparare, non aspetto altro – lo minacciò con aria torva - Non vedo l’ora di vederti morto, maledetto assassino e stavolta mi accerterò personalmente che tu lo sia davvero!» aggiunse sfiorando pericolosamente il grilletto.

«Signora, butti quell’arma» le ordinò allora uno degli agenti, tenendola sotto tiro.

Miss Parker lo ignorò, continuando a puntare sullo spaurito Dr. Raines uno sguardo terrificante, che esprimeva tutta la sua rabbia, la sua inesauribile sete di vendetta. Il carnefice di sua madre, l’uomo la cui smisurata malvagità aveva causato tanta sofferenza a lei stessa e alle persone che amava era oramai alla sua mercé: non doveva fare altro che muovere un dito per porre fine alla sua miserabile esistenza…e desiderava disperatamente farlo.

«Parker…no» cercò di dissuaderla Jarod, avvicinandosi a lei.

«Perché no? Lui non ha esitato un attimo prima di uccidere mia madre a sangue freddo»

«Jarod ha ragione – intervenne persuasivo Ethan – Non puoi commettere un omicidio»

«Eliminare questo bastardo non sarebbe un omicidio, ma un atto di giustizia»

«Sai che non è così – replicò Jarod sfiorandole il braccio teso – E sai anche che ucciderlo non ti restituirà tua madre, né ti farà sentire meglio»

«Bé, quanto a questo non ci giurerei» mormorò la donna con amaro sarcasmo.

«Ma non pensi alle conseguenze? – insistette l’altro sempre più in ansia. Non era affatto certo di riuscire a dissuaderla dal compiere quel gesto sconsiderato – Vuoi passare il resto della tua vita in prigione?»

«Non m’importa»

«Bé importa a me! – sbottò lui allarmato, dopo quell’assurda affermazione – Andiamo Parker…abbiamo quasi raggiunto il nostro scopo, il Centro non esiste più e non appena avremo trovato la lista saremo finalmente liberi. Non rovinare tutto proprio adesso»

Il braccio di Miss Parker vacillò impercettibilmente, come la sua determinazione a vendicarsi. Forse Jarod aveva ragione, ma la sua sete di rivalsa era così forte…

«Se premi quel grilletto sarà stato tutto inutile, perché le nostre vite saranno distrutte e Raines avrà vinto – disse ancora lui, toccando lievemente la sua mano tremante – Avanti, dammi la pistola»

Sospirando rassegnata, Miss Parker abbassò finalmente il braccio e lasciò che Jarod le togliesse di mano l’arma, per consegnarla ad uno degli agenti, mentre altri due prendevano tempestivamente in consegna un uomo ormai sconfitto, che usciva di scena col capo chino e gli occhi bassi, ridotto all’ombra di quel che era stato il malvagio e autorevole Dr. Raines.

«E anche questa è fatta» commentò soddisfatto Jarod, quando la cripta fu di nuovo deserta.

«Già – annuì Miss Parker – Ma ora andiamocene da questo posto – aggiunse poi - Bisogna informare gli altri che qui non c’è traccia della lista»

«Sì, ma prima io e te dobbiamo parlare» la fermò lui risoluto.

«Parlare di cosa?» chiese lei con falsa indifferenza, ben sapendo quel che l’aspettava.

«Per esempio del tuo strano comportamento negli ultimi giorni»

«Non ti capisco»

«Bè, nemmeno io capivo – esordì ironico Jarod, fissandola dritto negli occhi – Prima mi dici che tra noi è finita e fai di tutto pur di allontanarmi da te, poi inspiegabilmente insisti per entrare tu nell’ufficio di Matumbo al posto mio, quindi ti fai quasi ammazzare da Lyle per tenermi alla larga dal Centro - seguitò avvicinandosi sempre più a lei - Per non parlare di come mi hai salvato la vita meno di dieci minuti fa…e per inciso, come sapevi che quella pallottola era diretta a me?»

«Continuo a non capire dove vuoi arrivare» replicò imbarazzata Miss Parker cercando di allontanarsi, ma lui glielo impedì.

«Tu sostieni di non amarmi, ma scusa se te lo dico Parker, non credi di aver rischiato un po’ troppo per qualcuno di cui non t’importa niente…in quel senso

«Ah, sta zitto!» borbottò indispettita la donna, quindi gli volse le spalle e si allontanò per non vedere il solito sorriso sornione dipingersi sul suo volto.

Come sempre, Jarod aveva capito tutto.

 

Il Centro, Blue Cove – Ingresso -  ore 07:00 a.m.

 

Quando Ethan, Jarod e Miss Parker raggiunsero gli altri nella hall, la situazione era decisamente più tranquilla rispetto a un paio d’ore prima. Il tetro palazzo era semi-deserto, presidiato dalla polizia, mentre solo gli agenti della scientifica si aggiravano ormai per gli uffici, esaminando archivi e computers in cerca di prove.

«Niente..?» chiese deluso Frank, cogliendo l’espressione costernata dei loro volti, non appena li vide arrivare.

«No purtroppo – replicò Miss Parker – A quanto pare la tela non ha nulla a che fare col biglietto di mia madre»

«Maledizione! – imprecò il poliziotto – Senza quella lista l’intera operazione andrà a monte»

«Eppure dev’esserci un nesso, la frase si trova proprio sotto al dipinto» disse Ethan.

«E nella Divina Commedia – esordì a quel punto Jarod con aria pensierosa, mentre dall’ipotesi che gli ronzava in testa già da un po’, iniziava a prendere corpo una teoria - Sydney, hai detto di averne una copia?»

«Sì, è nel mio ufficio – confermò il dottore – A dire la verità fu proprio Catherine a regalarmela»

A quelle parole, un guizzo balenò nello sguardo di Jarod.

«Devo vedere quel libro» disse avviandosi risoluto verso l’ascensore, diretto nella stanza di Sydney.

«Non si tratta di un libro, ma di un’opera complessa, articolata in tre cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso – spiegò questi poco dopo, prelevando tre volumi finemente rilegati in pelle da una vetrinetta – Ognuna di queste è suddivisa in canti, numerati in sequenza dalla prima alla terza cantica, per un totale di cento» aggiunse porgendo i tre testi al simulatore.

«Non per svilire le tue capacità, ma temo che ti ci vorrà un bel po’ per esaminare a fondo quei tre mattoni» osservò scettica Miss Parker.

«E noi non abbiamo più tanto tempo» le fece eco Frank.

«Se ho ragione non sarà necessario leggerli tutti – replicò enigmatico Jarod - Sydney, sai dove si trova il passo citato nel biglietto?»

«Sì, mi pare sia l’inizio del terzo canto…ma cos’hai in mente?»

L’altro non rispose, ma prese a sfogliare il primo volume finché non trovò il punto in questione.

«Terzo canto…versi uno, due e tre…e se fosse questo il messaggio di Catherine?»

«Che intendi dire?» chiese perplesso Frank.

«Se questi numeri fossero delle…coordinate riferite al Centro?»

«Del tipo sottolivello tre, settore uno, schedario due, eccetera…» chiarì Miss Parker, iniziando a capire.

«E’ impossibile, il sottolivello tre è un parcheggio» osservò Broots con aria saccente.

«Che mi dici allora del livello tre?» domandò Jarod.

«Il terzo piano? Bé…ci sono gli uffici amministrativi, degli archivi…aspettate – disse il tecnico avvicinandosi al computer, per poi digitare rapido qualcosa sulla tastiera – Ecco, questa è la planimetria del livello tre»

Tutti fissarono costernati le decine di uffici, sale e archivi apparsi sul monitor.

«Ci vorrebbero giorni per ispezionare a fondo ogni locale» commentò Ethan.

«E noi abbiamo solo poche ore» aggiunse scoraggiato Frank.

«Concentriamoci sul settore uno» insistette Jarod.

Broots ingrandì la zona, quindi osservò: « E’ quasi interamente occupato dalla sala riunioni e dalle toilettes.

«Accidenti» borbottò Miss Parker, esprimendo la delusione di tutti.

Silenzio, carico d’incertezza e nervosismo, di speranze che lentamente scemavano in delusione e sconforto.

«Aspetta un momento – esordì ad un tratto il simulatore – Questa sala è stata costruita solo dieci anni fa»

«E’ vero – confermò Sydney – Quindi non è a questo che Catherine si riferiva»

«Ci occorre sapere com’era il livello tre prima che lei morisse – disse ancora Jarod rivolto a Broots – Dobbiamo scoprire cosa c’era nel settore uno quando scrisse quel biglietto»

«Credo ci siano delle vecchie planimetrie da qualche parte – replicò l’altro facendo di nuovo volare svelto le dita sui tasti – 1960…1966…eccola! 1970» esclamò prima di ingrandire il settore uno.

«Quello sembra un bunker» disse Frank notando le pareti assai spesse del vecchio locale.

«Ora ricordo – esordì Sydney – Quello era il cavò. Il Centro ci custodiva grosse somme in contanti, per gestire operazioni finanziarie illecite suppongo. Con l’avvento della rete e dei trasferimenti on line è diventato obsoleto, quindi è stato smantellato – spiegò ancora – Mi sembra contenesse anche delle cassette di sicurezza»

«Forse Matumbo teneva nascosta lì la lista, magari nella cassetta numero 23 e Catherine lo aveva scoperto» ipotizzò Broots.

«Ma ora il cavò non c’è più e noi siamo di nuovo daccapo – commentò stancamente Miss Parker, massaggiandosi le tempie – Che facciamo Jarod?»

Senza rispondere, lui si avvicinò al computer, esaminando intento sul monitor prima la vecchia planimetria poi quella attuale.

«Jarod?» ripeté la donna.

«C’è qualcosa che non quadra – si decise infine a dire il simulatore – Guardate, la lunghezza della sala riunioni è quotata in 24 metri, mentre ognuna delle tre stanze adiacenti è lunga 9 metri. Infatti il cavò era lungo 27 metri» precisò mostrando a tutti la vecchia planimetria.

«I casi sono due – disse allora Frank – O chi ha disegnato quella pianta non era un gran progettista, oppure esiste una stanza adiacente la sala riunioni che non compare sulla nuova planimetria»

In pochi minuti il gruppo raggiunse il livello tre e prese ad esaminare la parete est della sala riunioni, scoprendo che uno dei raffinati pannelli in radica disposti lungo l’intero perimetro della stanza nascondeva una porta, naturalmente chiusa a chiave, che tuttavia non fu difficile forzare.

Dietro di essa non trovarono che uno stanzino spoglio, senza porte né finestre, né mobilio, fatta eccezione per una sedia ed un tavolo, sul quale erano collocati solo una lampada ed un modernissimo computer.

«Ho idea che la nostra lista sia lì dentro – esordì Jarod con un sorrisetto compiaciuto – Ora serve solo un esperto che la tiri fuori in fretta…qualcuno che conosca a menadito i sofisticati sistemi di sicurezza del Centro» aggiunse guardando allusivo Broots, ma questi sembrò non capire.

«Broots! – lo esortò allora spazientita Miss Parker - Non startene lì impalato con la faccia della mucca che guarda passare il treno…MUOVITI!!!»

 

Il Centro, Blue Cove – Stanza nascosta  – ore 09:30 a.m.

 

«L’hard disk di questo computer contiene soltanto files in formato GIF, cioè immagini» annunciò Broots agli altri in trepidante attesa, dopo aver lavorato sulla macchina per quasi due ore .

«Immagini di cosa?» chiese Miss Parker.

«Ecco i files si chiamano Vasarely, Noland, Gorky, Albers, Pollock…e l’elenco è ancora lungo. Sono tutti nomi di artisti del Novecento ed ogni file corrisponde ad una delle loro opere – chiarì il tecnico - Sono…sono migliaia e…è pazzesco, ma credo che ognuna di queste immagini sia uno stego, cioè un file che nasconde un’informazione segreta, vale a dire un nome della lista di cui parlava tua madre»

«Insomma si tratta di un codice, come pensavamo»

«Sì, ma il più complesso che abbia mai visto – precisò l’altro con un misto di ammirazione e stizza nella voce - Non mi basterebbero i prossimi duecento anni per decodificare quest’affare»

«Andiamo, ci sarà pure un modo!»

«Purtroppo Broots ha ragione Parker – intervenne Jarod con aria grave - Sono stato io ad inventare questo codice, quando ero ancora un ragazzino»

«Cosa?!»

«Non ricordo un incarico di questo tipo» affermò Sydney.

«Mi fu affidato direttamente dal Triumvirato – spiegò il simulatore – E mi fu tassativamente proibito farne parola con chiunque, perché era in gioco la sicurezza nazionale»

«Sfruttare un ragazzino facendogli credere di lavorare per una giusta causa…che vigliacchi!» commentò sdegnato Frank.

«Altro che sicurezza nazionale. Matumbo sfruttò il tuo lavoro per mettere al sicuro il suo segreto» gli fece eco Broots.

«E ha raggiunto lo scopo – riconobbe amaramente Jarod a denti stretti – Soltanto lui può farci accedere a quelle informazioni criptate»

«Sempre che riusciamo a trovarlo entro le prossime ore, vale a dire prima che tutti gli arresti di stanotte vengano invalidati, altrimenti sarà tutto inutile» aggiunse scoraggiato Frank.

«Purtroppo, anche se riuscissimo a trovarlo, non credo che vorrà collaborare. E questo codice è praticamente impossibile da decifrare senza la chiave»

«La chiave hai detto?» domandò Miss Parker, sentendo un improvviso un campanello d’allerta nella mente.

«Sì, qualcosa che combini i milioni di 0-1 che compongono ogni immagine in modo diverso, così da ottenere il messaggio nascosto, nel nostro caso un nome»

«Insomma una password» chiarì Broots vedendola ancora perplessa.

«Dire password è limitativo – spiegò ancora Jarod - Potrebbe essere qualsiasi cosa: un numero, una lettera, una parola, una combinazione alfanumerica…persino un’altra immagine»

«La chiave in un’immagine… » ripeté assorta Miss Parker per poi scambiare con Ethan uno sguardo d’intesa.

«Prova a cercare un file di nome Doom» esordirono i fratelli all’unisono rivolti a Broots.

Jarod li squadrò entrambi sorpreso: «Sapete qualcosa che io non so?»

«Forse…»

La ricerca non durò che pochi secondi, ma a tutti parvero dilatarsi, prolungarsi all’infinito.

«Hei avevi ragione Miss Parker! – esordì infine il tecnico elettrizzato – C’è un solo file di nome Doom e corrisponde a questa immagine – aggiunse mostrando alla donna il dipinto astratto che ben conosceva - Ora provo ad utilizzarla come chiave d’accesso per aprire gli stego – un’altra manciata di istanti lunghi come ore - Che mi prenda un colpo…funziona! - esclamò euforico Broots continuando la decodifica - Guarda che nomi..! Guarda questo…ho persino votato per lui alle ultime legislative!»

«Bé, agente Dawson, a quanto pare concluderai in bellezza la sua carriera – esordì a quel punto Jarod, rivolgendo all’altro uno sguardo soddisfatto - Ecco le prove che stavi cercando»

«Non le avrei mai trovate senza il vostro aiuto…grazie…grazie anche a lei, Miss Parker»

«Ne faccia buon uso»

«Ci può scommettere – promise Frank - Faccio subito spiccare un mandato di cattura internazionale per tutti gli appartenenti all’organizzazione»

«E’ un buon inizio» replicò la donna, guidando tutti fuori dall’angusto stanzino e incamminandosi verso l’uscita.

Non vedeva l’ora di andarsene per sempre da quel maledetto edificio.

«Aspettate un momento – esordì Frank rivolto a Miss Parker e Sydney - A  dire la verità fermare il Centro non è l’unico motivo che mi ha spinto ad arrivare fin qui. C’è un’altra ragione molto più importante: sto cercando mio figlio…io devo sapere se è ancora vivo»

«Frank… - disse titubante Jarod - Io non ti ho detto tutta la verità a proposito di tuo figlio»

L’altro lo guardò smarrito, allora il simulatore cercò lo sguardo di Miss Parker, chiedendole tacitamente aiuto.

«Sig. Dawson suo figlio è vivo – a quelle parole, Frank iniziò a tremare dall’emozione, mentre gli occhi gli si velavano di lacrime a lungo trattenute - Ma…ecco…forse non è proprio la persona che lei si aspetta di incontrare»

«Che significa?!» mormorò esasperato l’altro, la voce rotta dall’inquietudine.

«Sydney sai dov’è Angelo?» chiese Jarod.

«Nella sua stanza credo. Perché?»

«Vieni Frank – disse poi pacato, prendendo l’uomo sottobraccio – E’ tempo che tu conosca una persona»

 

Nuova casa del Maggiore Charles, New Orleans  - tre settimane dopo - ore 12:30 p.m.

 

La monovolume presa a noleggio accostò silenziosa davanti al vialetto d’ingresso della bella villetta, quindi il motore si fermò.

«Sei sicura di non voler entrare?» domandò dispiaciuto Ethan, anche se già conosceva la risposta.

«No, è meglio di no – replicò infatti Miss Parker – E poi il nostro aereo per new York parte tra un paio d’ore e noi non vogliamo certo perderlo, vero Sean?» aggiunse poi rivolgendo un tenero sorriso al bambino, che dal sedile posteriore pareva ascoltare con interesse le loro voci, insieme al suo coniglietto di peluche.

Scuotendo il capo rassegnato, Ethan scese dall’auto e aprì il portabagagli per scaricare la sua borsa.

Anche Miss Parker uscì dall’abitacolo e sbirciò oltre la siepe per vedere un’ultima volta le persone radunatesi allegramente attorno alla griglia fumante. Oltre a Jarod e ai suoi genitori, c’erano Emily, Jay e Kimberly con la sua famiglia, Broots insieme alla piccola Debbie, Sydney con Michelle e Nicholas, Frank Dawson e Angelo, ormai inseparabili…e tutti sembravano essere felici. Era bello vederli così e pensare che un po’ era anche merito suo.

«A loro dispiacerà…soprattutto a Jarod» tentò ancora di persuaderla Ethan.

«Salutalo tu per me» disse Miss Parker volgendosi verso il fratello.

«Allison…»

«Non devi preoccuparti Ethan. Io e il piccolo Sean ce la caveremo» lo rassicurò guardando con affetto il bambino che li fissava entrambi incuriosito, quasi stesse seguendo il filo del loro discorso.

«Adottare Sean è stato molto bello da parte tua, ma…»

«Non potevo permettere che crescesse in un istituto – lo interruppe categorica lei – So che non sarà affatto facile. Sean non è un bambino come tutti gli altri, le sue doti eccezionali potrebbero creargli grossi problemi se non imparerà a conviverci. Ma io lo aiuterò e soprattutto  farò l’impossibile perché abbia ciò che finora gli è stato negato: una vita normale e il calore di una famiglia, anche se dovrò farlo da sola»

«Tu non sarai mai sola Allison – ribatté Ethan prendendole affettuosamente le mani – Forse noi non siamo quel che si dice tradizionalmente una famiglia, ma potrai sempre contare su di me, anche se saremo lontani»

«Lo so - sussurrò la donna, abbracciando calorosamente il fratello – Ma adesso vai, ti stanno aspettando»

Ethan si staccò con rammarico da lei, le diede un leggero bacio sulla guancia e s’incamminò lungo il vialetto, accolto da festosi saluti e allegre risate.

Miss Parker sorrise a sua volta, poi volse le spalle alla casa…per sempre.

Una parte della sua vita, forse la più lunga e dolorosa, si era definitivamente conclusa. Il Centro era distrutto, coloro che lo avevano creato e sostenuto sarebbero stati processati e condannati per i loro crimini, mentre le vittime di tante angherie potevano infine vivere in pace.

Anche lei era finalmente libera di andarsene, per incominciare una nuova vita lontano da Blue Cove, lontano il più possibile dal suo passato da dimenticare…lontana dalla tentazione di seguire il suo cuore e restare con Jarod, pur sapendo che il suo era un amore impossibile. Ecco perché aveva venduto tutto, casa, proprietà, titoli, ecco perché si stava dirigendo a New York, da dove avrebbe poi proseguito per Parigi. Sì, Parigi, dall’altra parte dell’oceano. Era sufficientemente lontano. Sua madre era stata felice lì tanto tempo prima, persino lei lo era stata, anche se solo per poche ore e forse lo sarebbe stata di nuovo insieme al piccolo Sean.

A dire il vero tutta quella libertà, cadutale addosso così all’improvviso dopo anni di prigionia, la spaventava un poco. Essere per la prima volta padrona della propria vita era eccitante e al tempo stesso inquietante. E poi l’attendeva un compito assai difficile: ne era davvero all’altezza? Infondo non aveva la più pallida idea di come si facesse a fare la madre…e se avesse fallito?

Ah basta! Non aveva più tempo di pensare alle sue paure, c’era qualcuno di cui doveva occuparsi, si disse risoluta aprendo la portiera posteriore per controllare premurosa che il bambino fosse sistemato bene sul sedile. Poco importava la sua inesperienza, avrebbe imparato tutto quel che c’era da imparare. Aveva aiutato lei quell’esserino così piccolo e indifeso eppure straordinario a venire al mondo, lei lo stava stringendo tra le braccia quando aveva strillato la prima volta, lei lo aveva cullato per calmarlo. Mai e poi mai avrebbe permesso a qualcuno di fargli ancora del male.

«Staremo bene insieme io e te, vedrai» gli sussurrò e il piccolo incredibilmente le sorrise, stringendo i suoi minuscoli ditini attorno al suo indice, quasi avesse capito il senso della sua promessa.

«Su, è ora di muoversi» disse poi Miss Parker richiudendo lo sportello posteriore e apprestandosi a risalire al posto di guida ma…

«Te ne vai senza nemmeno salutare?»

Oh no…era proprio la sua voce quella. Si era inventata ogni tipo di scusa per sfuggirgli, per poterlo evitare durante le ultime tre settimane, visto che non se la sentiva proprio di affrontarlo. E men che meno se la sentiva in quel preciso istante, anzi, avrebbe di preferito di gran lunga sparire senza dargli spiegazioni, ma a quel punto non aveva altra scelta.

«Questo è il tuo momento, il tuo gran giorno – si decise a dire voltandosi lentamente verso Jarod - E io...insomma, non voglio intromettermi»

«Ma non dire sciocchezze!» l’apostrofò lui sorridendole mentre si avvicinava.

«E poi rischio di perdere l’aereo» seguitò visibilmente tesa la donna, indietreggiando per poi aprire la portiera.

Meglio mantenere le distanze…e filarsela prima possibile!

«Allora prendine un altro – insistette lui appoggiandosi col braccio all’auto e richiudendo lo sportello - Anzi, non partire affatto» aggiunse fissandola intensamente con quei suoi espressivi occhi scuri.

Il suo profumo, il suo respiro…era così vicino…troppo vicino, si disse Miss Parker temendo che lui potesse sentire quanto le batteva forte il cuore.

«Jarod…»

«Andiamo Parker, ci sono proprio tutti – le sussurrò - Manchi solo tu»

«No, ti ringrazio – rifiutò secca lei scostandosi - Credo proprio che sarei di troppo»

«E perché mai? Se questo gran giorno finalmente è arrivato il merito è anche tuo»

«Già, ed è stata colpa mia se è arrivato solo adesso»

«Ma no che non è stata colpa tua» affermò convinto Jarod avvicinandosi di nuovo a lei.

«Ah no? - obiettò sarcastica Miss Parker – Forse dovresti ripensare a quel che è successo negli ultimi cinque anni»

Lui sospirò costernato. «E tu dovresti smetterla di biasimare te stessa - le disse - Io non l’ho mai fatto»

«Bè, avresti dovuto»

«Per quale motivo? – ribatté lui caparbio – So che non hai mai voluto farmi del male. Non ho mai visto crudeltà nei tuoi occhi, solo tanta tristezza. La stessa tristezza che c’era nei miei – aggiunse prendendole dolcemente il volto tra le mai – Io e te siamo legati, Allison. Lo saremo sempre. E io non potrei provare per nessun’altra ciò che sento per te…non andartene ti prego» mormorò, quando le sue labbra sfioravano ormai quelle frementi di Miss Parker.

«Ma perché non vuoi capire?! – sbottò di colpo lei allontanandolo. Che stava facendo?! Non doveva ascoltarlo, o avrebbero finito col soffrire tutti e due, si disse furiosa per la propria debolezza – Tra noi non può funzionare»

Jarod provò a dire qualcosa ma lei non lo lasciò parlare.

«So che adesso pensi davvero ciò che hai detto. Sei convinto che quel che è stato non ha importanza e credi sul serio di avermi perdonata, ma il passato non si può cancellare»

«Allison…»

«No, ascoltami. Quello che ho fatto a te e alla tua famiglia è stato…è stato orribile, imperdonabile. E se restassi, un giorno arriveresti a rinfacciarmelo, ne sono sicura e…»

«Tu ne sei sicura?!» intervenne allibito lui. Ma che stava dicendo?!

«…e io non potrei sopportarlo, non…»

«Basta così! – l’interruppe a quel punto Jarod, mettendole un dito sulle labbra – Tu hai stabilito che tra di noi non può funzionare e secondo te io dovrei semplicemente accettare la tua decisione…bè scordatelo! – l’assalì risoluto, bloccandola contro la vettura - Adesso zitta e stammi a sentire»

Indispettita da una tale irruenza, Miss Parker tentò di protestare, ma non le riuscì.

«Tanto per cominciare, io non ho proprio niente da perdonarti»

Lei fu ancora sul punto di ribattere ma l’altro seguitò imperterrito.

«Tu piuttosto non riesci a perdonare te stessa, anche se non capisco perché. Io ti ho sempre considerata una vittima, proprio come me. Non eri che una bambina quando tutto questo ebbe inizio»

«Ma poi sono cresciuta» osservò tristemente lei.

«Sì, senza l’amore di tua madre, con un padre freddo e calcolatore che non ha mai capito, anzi ha sempre ignorato quanto avessi bisogno del suo affetto – le disse più dolcemente Jarod – Lui ha sfruttato la tua devozione, il tuo disperato desiderio di compiacerlo e ottenere il suo amore solo per plagiarti, per indurti a fare ciò che non volevi»

«Lo so - ammise amaramente Miss Parker dopo qualche istante - Infondo credo di averlo sempre saputo. Ma purtroppo ho iniziato ad agire di conseguenza quando ormai era troppo tardi e gli ho permesso di fare del male a tante persone…a te, a Tommy, alla tua famiglia e questo non riesco proprio a perdonarmelo»

«Volevi solo che tuo padre ti amasse, non puoi fartene una colpa – lei fece per replicare, ma lui continuò – Devi smetterla di pensare a come avresti potuto cambiare il passato. Oramai non ha più senso, puoi solo farti del male. Lasciati tutto alle spalle e pensa al futuro…al nostro futuro»

Miss Parker affondò nei suoi occhi assorti uno sguardo carico d’incertezza. Avrebbe tanto voluto farlo, però…

«Io ti amo Jarod - gli confessò - Non sai quanto. Ma temo che il passato finirà per dividerci prima o poi»

«Non succederà» le promise lui con una semplicità disarmante, rubandole finalmente un flebile sorriso.

«Come lo sai?» gli chiese ormai fortemente tentata di restare.

«Lo so perché anch’io ti amo e non riesco proprio ad immaginare la mia vita senza di te, ora che finalmente posso averne una – rispose lui cingendola e attirandola a sé – Non posso sapere cosa ci accadrà in futuro, ma sono certo che niente potrà dividerci, se non saremo noi a volerlo…e in ogni caso, io voglio correre il rischio»

Lei seguitava a fissarlo rapita, senza dire una parola. E se avesse avuto ragione? Forse valeva la pena di correre il rischio, infondo non aveva senso rinunciare a lui solo perché aveva paura che potesse finire.

«E tu Allison..? – le sussurrò cercando insistentemente la sua bocca - Cos’è che vuoi veramente?»

Non aveva certo bisogno di pensarci su per rispondere.

«Voglio te».

(scritto da Kay)


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